"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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mercoledì 20 agosto 2025

ABU AMMAR (Yasser Arafat), L’INTERVISTA di Oriana Fallaci del 1972



Da Intervista con la storia - 1974 (di Oriana Fallaci)

Amman, marzo 1972

Quando arrivò, puntualissimo, rimasi un attimo incerta a dirmi che no, non poteva essere lui.
Sembrava troppo giovane, troppo innocuo. Almeno al primo sguardo, non avvertivi niente in lui che denunciasse autorità, o quel fluido misterioso che emana sempre da un capo investendoti come un profumo o uno schiaffo.
Di impressionante non aveva che i baffi, folti e identici ai baffi che quasi ciascun arabo porta, e il fucile mitragliatore che teneva in spalla con la disinvoltura di chi non se ne stacca mai.
Certo lo amava tanto, quel fucile, da averlo fasciato all’impugnatura con nastro adesivo color verde ramarro: divertente e grazioso.
Di statura era piccolo, un metro e sessanta direi. E anche le mani eran piccole, anche i piedi. Troppo, pensavi, per sostenere due gambe così grasse e un tronco così massiccio, dai fianchi immensi e il ventre gonfio di obesità.
Su tutto ciò si rizzava una testaccia minuscola, col volto incorniciato dal kassiah, e solo osservando quel volto ti convincevi che sì: era lui Yasser Arafat, il guerrigliero più famoso del Medio Oriente, l’uomo di cui si parlava tanto, fino alla noia.
Uno stranissimo, inconfondibile volto che avresti riconosciuto tra mille: nel buio. Il volto di un divo. Non solo per gli occhiali neri che ormai lo distinguevano quanto la benda del suo acerrimo nemico Moshe Dayan, ma per la sua maschera che non assomiglia a nessuno e ricorda il profilo di un uccello rapace o di un ariete arrabbiato.
Infatti non ha quasi guance, né mento. Si riassume tutta in una gran bocca dalle labbra rosse e cicciute, poi in un naso aggressivo e due occhi che se non sono nascosti dietro lo schermo di vetro ti ipnotizzano: grandi, lucidi, sporgenti. Due macchie d’inchiostro. Con simili occhi ora mi guardava, educato e distratto. Poi con vocina gentile, quasi affettuosa, mormorò in inglese: «Buonasera, due minuti e sono da lei». La voce aveva una specie di fischio buffo. E un che di femminile.
Chi lo aveva incontrato di giorno, quando la sede giordana di Al Fatah era affollata di guerriglieri e di gente, giurava di aver visto intorno a lui un’eccitazione commossa: la stessa che egli solleva ogni volta che appare in pubblico. Ma il mio appuntamento era notturno e, a quell’ora, le dieci, non c’era quasi nessuno. Ciò contribuì a togliere al suo arrivo ogni atmosfera drammatica.
Ignorando la sua identità, avresti concluso che l’uomo era importante solo perché accompagnato da una guardia del corpo.
Ma quale guardia del corpo! Il bellone più bellone che avessi mai visto. Alto, snello, elegante, sai il tipo che indossa la tuta mimetizzata come se fosse un frac, e con un viso scavato: da rubacuori occidentale.
Forse perché era biondo, con gli occhi azzurri, mi venne spontaneo pensare che il bellone fosse occidentale anzi tedesco. E, forse perché Arafat se lo portava dietro con tanto orgoglio, mi venne ancor più spontaneo pensare che il bellone fosse qualcosa di più che una guardia del corpo. Un amico molto affezionato, diciamo.
Oltre a costui, che presto girò sui tacchi e scomparve, c’era un tipaccio in borghese che ti sbirciava brutto e col tono di dire: tocca-il-mio-capo-e-ti-uccido-a-mo’-di-un-colabrodo.
Infine c’erano l’accompagnatore che avrebbe fatto da interprete e Abu George: incaricato di scrivere domande e risposte onde controllarle poi col mio testo. Questi ultimi due ci seguirono nella stanza scelta per l’intervista. Nella stanza c’erano alcune sedie e una scrivania. Arafat posò sulla scrivania il fucile mitragliatore e si sedette con un sorriso di denti bianchi, aguzzi come i denti di un lupo.
Sulla sua giacca a vento, in tela grigioverde, spiccava un distintivo con due Marine del Vietnam e la scritta «Black Panthers against American Fascism. Pantere Nere contro il fascismo americano». Glielo avevano dato due ragazzuoli della California che si definivano americano-marxisti e che eran venuti col pretesto di offrirgli l’alleanza di Rap Brown, in realtà per fare un filmetto e ricavarci quattrini. Glielo dissi. Il mio giudizio lo toccò senza offenderlo.
L’atmosfera era rilassata, cordiale, ma priva di promesse. Un’intervista con Arafat non serve mai, lo sapevo, ad ottenere risposte memorabili. Tantomeno a strappare informazioni su lui.
L’uomo più celebre della resistenza palestinese è infatti anche il più misterioso: la cortina di silenzio che circonda la sua vita privata è così fitta da farci chiedere se non costituisca un’astuzia per incrementarne la pubblicità, una civetteria per renderlo più prezioso.
Perfino ottenere un colloquio con lui è difficilissimo. Col pretesto che egli si trova sempre in viaggio, ora al Cairo e ora a Rabat, ora al Libano e ora in Arabia Saudita, ora a Mosca e ora a Damasco, te lo fanno sospirare per giorni, per settimane, e se poi te lo danno è con l’aria di regalarti un privilegio speciale o un’esclusiva di cui non sei degno.
Nel frattempo tu cerchi, ovvio, di raccoglier notizie sul suo carattere, sul suo passato. Ma, a chiunque tu ti rivolga, trovi un imbarazzato mutismo: solo in parte giustificato dal fatto che Al Fatah mantiene sui suoi capi il più fitto segreto e non ne fornisce mai la biografia.
Confidenze sottobanco ti sussurreranno che non è comunista, che non lo sarebbe mai neanche se a indottrinarlo fosse Mao Tse-tung in persona: si tratta di un militare, ripetono, di un patriota, e non di un ideologo.
Indiscrezioni ormai diffuse ti confermeranno che nacque a Gerusalemme, forse trentasei o forse quaranta o forse quarantacinque anni fa, che la sua famiglia era nobile e che la sua giovinezza fu agiata: suo padre possedeva un’antica ricchezza che le confische non avevano troppo intaccato. Tali confische, avvenute nel corso di un secolo e mezzo, erano state imposte dagli egiziani su certi latifondi e su certi immobili al centro del Cairo. E poi?
Vediamo: poi, nel 1947, Yassir aveva combattuto contro gli ebrei che davano vita a Israele e s’era iscritto all’università del Cairo per studiare ingegneria. In quegli anni aveva anche fondato l’Associazione studenti palestinesi, la stessa da cui sarebbe fiorito il nucleo di Al Fatah.
Ottenuta la laurea, era andato a lavorare nel Kuwait e qui aveva fondato un giornale che incitava alla lotta nazionalista, era entrato a far parte di un gruppo detto Fratelli Musulmani. Nel 1955 era rientrato in Egitto per frequentare un corso di ufficiali e specializzarsi in esplosivi, nel 1965 aveva contribuito in modo speciale alla nascita di Al Fatah assumendo il nome di Abu Ammar.
Cioè Colui che Costruisce, Padre Costruttore. Nel 1967 era stato eletto presidente dell’OLP, Organizzazione di Liberazione Palestinese, movimento di cui fanno ormai parte i membri di Al Fatah, del Fronte Popolare, di Al Saiqa, eccetera: solo recentemente era stato scelto come portavoce di Al Fatah, suo messaggero.
Ma a questo punto, se chiedevi perché, allargavano le braccia e rispondevano: «Boh, qualcuno doveva pur farlo, uno o l’altro non fa differenza».
Della sua vita quotidiana non ti dicevano nulla fuorché il particolare che non ha nemmeno una casa.
Ed era vero: quando non abitava in quella del fratello, ad Amman, dormiva nelle basi o dove capitava. Era anche vero che non fosse sposato. Non gli si conoscevano donne e, malgrado il pettegolezzo di un platonico flirt con una scrittrice ebrea che aveva abbracciato la causa araba, sembrava proprio che ne potesse fare a meno: come avevo sospettato vedendolo arrivare col bellone.
Guarda, il mio sospetto è che, salvo particolari utili a correggere le inesattezze, non vi sia altro da dire su Arafat.
Quando un uomo ha un passato clamoroso lo senti anche se lo nasconde: perché il passato resta scritto sul volto, negli occhi.
Sul volto di Arafat, invece, non trovi che quella strana maschera impostagli da madre natura: non da esperienze pagate. V’è qualcosa di insoddisfacente in lui, di non ancora fatto. Se ci pensi bene, del resto, ti accorgi che la sua fama esplose più per la stampa che per le sue gesta: dall’ombra lo tirarono fuori i giornalisti occidentali e in particolare americani, sempre bravissimi nell’inventar personaggi o montarli.
Basti pensare ai bonzi del Vietnam, al venerabile Tri Quang.
D’accordo: Arafat non può essere paragonato a Tri Quang. Della resistenza palestinese è davvero un artefice, o uno degli artefici, e uno stratega. O uno degli strateghi. Il portavoce di Al Fatah lo fa per davvero a Mosca. A Rabat e al Cairo ci va per davvero.
Ma ciò non significa, tantomeno significava, che egli fosse il leader dei palestinesi in guerra. E, comunque, fra tutti i palestinesi che incontrai, Arafat resta quello che mi impressionò meno di tutti.
O dovrei dire quello che mi piacque meno di tutti?
Una cosa è certa: egli non è un uomo nato per piacere. È un uomo nato per irritare. Avvertire simpatia per lui è difficile. Anzitutto per il silenzioso rifiuto che oppone a chi tenti un approccio umano: la sua cordialità è superficiale, la sua gentilezza è formale, e un nulla basta a renderlo ostile, freddo, arrogante. Si scalda solo quando si arrabbia.
E allora la sua vocina diventa un vocione, i suoi occhi diventano polle di odio, e sembra che voglia sbranarti insieme a tutti i suoi nemici.
Poi per la mancanza di originalità e di seduzione che caratterizza tutte le sue risposte. A mio parere, in un’intervista, non sono le domande che contano ma le risposte.
Se una persona ha talento, puoi chiederle la cosa più banale del mondo: ti risponderà sempre in modo brillante o profondo. Se una persona è mediocre, puoi porle la domanda più acuta del mondo: ti risponderà sempre in modo mediocre.
Se poi tale legge la applichi a un uomo combattuto tra il calcolo e la passione, guarda: dopo averlo ascoltato, non ti resta in mano che un pugno di mosche.
Con Arafat mi trovai proprio con un pugno di mosche. Egli reagì quasi sempre con discorsi allusivi o evasivi, giri di frase che non contenevano nulla fuorché la sua intransigenza retorica, il suo costante timore di non persuadermi. E nessuna volontà di considerare, sia pure in un gioco dialettico, il punto di vista altrui.
Né basta osservare come l’incontro tra un arabo che crede alla guerra e un’europea che non ci crede più sia un incontro immensamente difficile. Anche perché quest’ultima resta imbevuta del suo cristianesimo, del suo odio per l’odio, e l’altro invece resta infagottato dentro la sua legge dell’occhio-per-occhio-dente-per-dente: epitome di ogni orgoglio.
Ma v’è un punto in cui tale orgoglio fa difetto, ed è laddove Yassir Arafat invoca la comprensione altrui o pretende di trascinare dentro la sua barricata chi è sconvolto dai dubbi.
Interessarsi alla sua causa, ammetterne la fondamentale giustizia, criticarne i punti deboli e rischiare quindi la propria incolumità fisica e morale, non è cosa che a lui basti. A ciò reagisce anzi con l’arroganza che ho detto, l’alterigia più ingiustificata, e quell’inclinazione assurda ad attaccar lite su ogni parola, suppongo.
E ciascuno di quei novanta minuti mi lasciò insoddisfatta sia sul piano umano che intellettuale o politico.
Mi divertì però scoprire che gli occhiali neri non li porta anche di sera perché sono occhiali da vista. Li porta per farsi notare. Infatti, sia di giorno che di notte, ci vede benissimo. Coi paraocchi ma benissimo.
Non ha fatto anche carriera negli ultimi anni? Non s’è fatto eleggere capo di tutta la resistenza palestinese e non se ne va in giro come un capo di Stato? Non pretende nemmeno più d’esser chiamato Abu Ammar.

ORIANA FALLACI. Abu Ammar, si parla tanto di lei ma non si sa quasi nulla di lei e…
YASSIR ARAFAT. Di me c’è solo da dire che sono un umile combattente palestinese. Da molto tempo. Lo divenni nel 1947, insieme a tutta la mia famiglia. Sì, fu quell’anno che la mia coscienza si svegliò e compresi quale barbara invasione fosse avvenuta nel mio paese. Mai una simile nella storia del mondo.

Quanti anni aveva, Abu Ammar? Glielo chiedo perché la sua età è controversa.
Niente domande personali.

Abu Ammar, le sto chiedendo esclusivamente quanti anni ha. Lei non è una donna. Può dirmelo.
Ho detto: niente domande personali.

Abu Ammar, se non vuole nemmeno dire l’età, perché si espone sempre all’attenzione del mondo e permette che il mondo guardi a lei come al capo della resistenza palestinese?
Ma io non ne sono il capo! Non voglio esserlo! Veramente, lo giuro. Io sono appena un membro del comitato centrale, uno dei tanti, e per precisione quello cui è stato ordinato di fare il portavoce. Cioè di riferire cosa decidono altri. È un grosso equivoco considerarmi il capo: la resistenza palestinese non ha un capo. Noi tentiamo infatti di applicare il concetto della guida collettiva e la cosa presenta difficoltà, ovvio, ma noi insistiamo poiché riteniamo indispensabile non affidare a uno solo la responsabilità e il prestigio. È un concetto moderno e serve a non recar torto alle masse che combattono, ai fratelli che muoiono. Se muoio, le sue curiosità saranno esaudite: lei saprà tutto di me. Fino a quel momento, no.

Non direi che i suoi compagni vogliano permettersi il lusso di lasciarla morire, Abu Ammar. E, a giudicare dalla sua guardia del corpo, direi che la ritengano molto più utile se resta vivo.
No. È probabile invece che io sia molto più utile da morto che da vivo. Eh, sì: la mia morte servirebbe molto alla causa, come incentivo. Aggiungerò anzi che io ho molte probabilità di morire: potrebbe accadere stanotte, domani. Se muoio, non è una tragedia: un altro andrà in giro pel mondo a rappresentare Al Fatah, un altro dirigerà le battaglie… Sono più che pronto a morire. Per la mia sicurezza non ho la cura che lei crede.

Capisco. D’altra parte, le linee per recarsi in Israele ogni tanto le passa anche lei: vero, Abu Ammar? Gli israeliani danno per certo che lei sia entrato in Israele due volte, sfuggendo alle loro imboscate. Ed aggiungono: chi riesce a far questo dev’essere assai furbo.
Ciò che lei chiama Israele è casa mia. Quindi non ero in Israele ma a casa mia: con tutto il diritto di andare a casa mia. Sì, ci sono stato, ma molto più spesso che due volte sole. Ci vado continuamente, ci vado quando voglio. Certo, esercitare questo diritto è abbastanza difficile: le loro mitraglie sono sempre pronte. Però è meno difficile di quanto essi credano: dipende dalle circostanze, dai punti che si scelgono. È necessaria scaltrezza, in ciò hanno ragione. Non a caso quei viaggi noi li chiamiamo «viaggi della volpe». Però li informi pure che quei viaggi i nostri ragazzi, i fedayn, li compiono quotidianamente. E non sempre per attaccare il nemico. Li abituiamo a passare le linee per conoscere la loro terra, per muovercisi dentro con disinvoltura. Spesso arriviamo, perché ciò l’ho fatto, fino alla striscia di Gaza e fino al deserto del Sinai. Portiamo anche le armi fin là. I combattenti di Gaza non ricevono mica le armi dal mare: le ricevono da noi, da qui.

Abu Ammar, quanto durerà tutto questo? Quanto a lungo potrete resistere?
Simili calcoli noi non ce li poniamo nemmeno. Siamo soltanto all’inizio di questa guerra. Incominciamo solo ora a prepararci per quella che sarà una lunga, lunghissima guerra. Certo una guerra destinata a prolungarsi per generazioni. Né siamo la prima generazione che combatte: il mondo non sa o dimentica che negli anni Venti i nostri padri combattevano già l’invasore sionista. Erano deboli, allora, perché troppo soli contro avversari troppo forti e sostenuti dagli inglesi, dagli americani, dagli imperialisti della terra. Ma noi siamo forti: dal gennaio 1965, cioè dal giorno in cui nacque Al Fatah, siamo un avversario pericolosissimo per Israele. I fedayn stanno acquistando esperienza, stanno moltiplicando i loro attacchi e migliorando la loro guerriglia: il loro numero aumenta precipitosamente. Lei chiede quanto potremo resistere: la domanda è sbagliata. Lei deve chiedere quanto potranno resistere gli israeliani. Giacché non ci fermeremo mai fino a quando non saremo tornati a casa nostra e avremo distrutto Israele. L’unità del mondo arabo renderà questo possibile.

Abu Ammar, voi invocate sempre l’unità del mondo arabo. Ma sapete benissimo che non tutti gli Stati arabi sono disposti a entrare in guerra per la Palestina e che, per quelli già in guerra, un accordo pacifico è possibile, anzi augurabile. Lo ha detto perfino Nasser. Se tale accordo avverrà, come auspica anche la Russia, voi cosa farete?
Non lo accetteremo. Mai! Continueremo a far guerra a Israele da soli, finché non riavremo la Palestina. La fine di Israele è lo scopo della nostra lotta, ed essa non ammette né compromessi né mediazioni. I punti di questa lotta, che piacciano o non piacciano ai nostri amici, resteranno sempre fissati nei princìpi che enumerammo nel 1965 con la creazione di Al Fatah. Primo: la violenza rivoluzionaria è il solo sistema per liberare la terra dei nostri padri; secondo: lo scopo di questa violenza è di liquidare il sionismo in tutte le sue forme politiche, economiche, militari, e cacciarlo per sempre dalla Palestina; terzo: la nostra azione rivoluzionaria dev’essere indipendente da qualsiasi controllo di partito o di Stato; quarto: questa azione sarà di lunga durata. Conosciamo le intenzioni di alcuni capi arabi: risolvere il conflitto con un accordo pacifico. Quando questo accadrà, ci opporremo.

Conclusione: voi non volete affatto la pace che tutti auspicano.
No! Non vogliamo la pace. Vogliamo la guerra, la vittoria. La pace per noi significa distruzione di Israele e nient’altro. Ciò che voi chiamate pace, è pace per Israele e gli imperialisti. Per noi è ingiustizia e vergogna. Combatteremo fino alla vittoria. Decine di anni se necessario, generazioni.

Siamo pratici, Abu Ammar: quasi tutte le basi dei fedayn sono in Giordania, altre sono in Libano. Il Libano non ha molta voglia di fare la guerra e la Giordania ha una gran voglia di uscirne. Ammettiamo che questi due paesi, decisi a un accordo pacifico, decidano di impedirvi gli attacchi a Israele. In altre parole, impediscano ai guerriglieri di fare i guerriglieri. È già successo e succederà di nuovo. Di fronte a ciò cosa fate? Dichiarate guerra anche alla Giordania e al Libano?
Noi non possiamo combattere sulla base dei “se”. È diritto di ogni Stato arabo decidere ciò che vuole, compreso un accordo pacifico con Israele; è nostro diritto voler tornare a casa senza compromessi. Tra gli Stati arabi, alcuni sono incondizionatamente con noi. Altri no. Ma il rischio di restare soli a combattere Israele è un rischio che avevamo previsto. Basti pensare agli insulti che ci hanno buttato addosso all’inizio: siamo stati così maltrattati che ormai ai maltrattamenti non ci facciamo più caso. La nostra stessa formazione, voglio dire, è un miracolo: la candela che si accese nel 1965 brillò nel buio più nero. Ma ora siamo molte candele, e illuminiamo l’intera nazione araba. E al di là della nazione araba.

Questa è una risposta molto poetica e molto diplomatica, ma non è la risposta a ciò che le ho chiesto, Abu Ammar. Io ho chiesto: se la Giordania non vi vuole davvero più, dichiarate guerra alla Giordania?
Io sono un militare, e un capo militare. Come tale devo tenere i miei segreti: non sarò io a rivelarle i nostri futuri campi di battaglia. Se lo facessi, Al Fatah mi manderebbe alla corte marziale. Perciò tragga le sue conclusioni da ciò che ho detto prima. Io le ho detto che continueremo fino in fondo la marcia per la liberazione della Palestina, che ciò piaccia o non piaccia ai paesi in cui ci troviamo. Ci troviamo in Palestina anche ora.

Ci troviamo in Giordania, Abu Ammar. E le domando: ma cosa significa Palestina? La stessa identità nazionale della Palestina s’è persa col tempo, e anche i suoi confini geografici si sono persi. C’erano i turchi, qui, prima del mandato britannico e di Israele. Quali sono dunque i confini geografici della Palestina?
Noi non ci poniamo il problema dei confini. Nella nostra costituzione non si parla dei confini perché a porre i confini furono i colonialisti occidentali che ci invasero dopo i turchi. Da un punto di vista arabo, non si può parlare di confini: la Palestina è un piccolo punto nel grande oceano arabo. E la nostra nazione è quella araba, è una nazione che va dall’Atlantico al Mar Rosso e oltre. Ciò che vogliamo da quando la catastrofe esplose nel 1947 è liberare la nostra terra e ricostruire lo Stato democratico palestinese.

Ma quando si parla di uno Stato bisogna pur dire entro quali limiti geografici si forma o si formerà questo Stato! Abu Ammar, le chiedo di nuovo: quali sono i confini geografici della Palestina?
Come fatto indicativo possiamo decidere che i confini della Palestina siano quelli stabiliti al tempo del mandato britannico. Se prendiamo l’accordo franco-inglese del 1918, Palestina significa il territorio che va da Naqurah, al nord, fino ad Akaba al sud e, poi, dalla costa del Mediterraneo che include la striscia di Gaza fino al fiume Giordano e al deserto del Negev.

Ho capito. Ma questo include anche un bel pezzo di terra che oggi fa parte della Giordania: cioè tutta la regione a est del Giordano. La Cisgiordania.
Sì. Ma i confini non hanno importanza, ripeto. Ha importanza l’unità araba e basta.

I confini hanno importanza se toccano od oltrepassano il territorio di un paese che esiste già, come la Giordania.
Ciò che lei chiama Cisgiordania è Palestina.

Abu Ammar, come è possibile parlare di unità araba se fin da ora si pongono simili problemi con alcuni paesi arabi? Non solo, quando neanche tra voi palestinesi andate d’accordo? Esiste una gran divisione perfino tra voi di Al Fatah e gli altri movimenti. Ad esempio col Fronte Popolare.
Ogni rivoluzione ha i suoi problemi privati. Anche nella rivoluzione algerina c’era più di un movimento e, ch’io sappia, anche in Europa durante la resistenza ai nazisti. Nello stesso Vietnam esistono più movimenti, i vietcong non sono che la stragrande maggioranza come noi di Al Fatah. Ma noi di Al Fatah raccogliamo il 97 per cento dei combattenti e siamo quelli che conducono la lotta all’interno del territorio occupato. Non a caso, quando decise la distruzione del villaggio di El Heul, e minò duecentodiciotto case a scopo punitivo, Moshe Dayan disse: «Bisogna chiarire chi controlla questo villaggio, se noi o Al Fatah». Citò Al Fatah, non il Fronte Popolare. Il Fronte Popolare… Nel febbraio del 1969 il Fronte Popolare si è scisso in cinque parti e quattro di esse sono già entrate a far parte di Al Fatah: lentamente, quindi, ci stiamo unendo. E se George Habash, il capo del Fronte Popolare, non è oggi con noi, si unirà presto a noi. Glielo abbiamo già chiesto: in fondo non c’è differenza di obiettivi tra noi e il Fronte Popolare.

Il Fronte Popolare è comunista. Voi dite di non esserlo per costituzione.
Tra noi vi sono combattenti di tutte le idee: li avrà incontrati. Quindi tra noi c’è posto anche per il Fronte Popolare. Dal Fronte Popolare ci distinguono solo alcuni sistemi di lotta. Infatti noi di Al Fatah non abbiamo mai dirottato un aereo e non abbiamo mai fatto esplodere bombe o causato sparatorie in altri paesi. Preferiamo condurre una lotta puramente militare. Ciò non significa, tuttavia, che al sistema dei sabotaggi non si ricorra anche noi: dentro la Palestina che lei chiama Israele. Ad esempio siamo quasi sempre noi che facciamo scoppiare le bombe a Tel Aviv, a Gerusalemme, a Eilat.

Ciò coinvolge i civili, però. Non è una lotta puramente militare.
Lo è! Perché, civili o militari, sono tutti ugualmente colpevoli di voler distruggere il nostro popolo. Sedicimila palestinesi sono stati arrestati perché aiutavano i nostri commandos, ottomila case di palestinesi sono state distrutte, senza contare le torture cui vengono sottoposti i nostri fratelli nelle loro prigioni, e i bombardamenti al napalm sulla popolazione inerme. Noi facciamo certe operazioni, chiamate sabotaggi, per dimostrargli che siamo capaci di tenerli in mano con gli stessi sistemi. Ciò colpisce inevitabilmente i civili, ma i civili sono i primi complici della banda che governa Israele. Perché se i civili non approvano i sistemi della banda al potere, non hanno che dimostrarlo. Lo sappiamo benissimo che molti non approvano. Quelli ad esempio che abitavano in Palestina prima dell’emigrazione ebrea, e anche alcuni tra quelli che emigrarono con la precisa intenzione di rubarci le terre. Perché ci vennero da innocenti, con la speranza di scordare le antiche sofferenze. Gli avevano promesso il Paradiso, qui nella nostra terra, e loro vennero a pigliarsi il Paradiso. Troppo tardi si accorsero che era invece l’inferno: sapesse quanti di loro ora voglion fuggire da Israele. Dovrebbe vedere le domande di espatrio che giacciono presso l’ambasciata del Canada a Tel Aviv, o presso l’ambasciata degli Stati Uniti. Migliaia.

Abu Ammar, lei non mi risponde mai direttamente. Ma stavolta deve farlo: cosa pensa di Moshe Dayan?
È una domanda molto imbarazzante. Come rispondervi? Diciamo così: io spero che un giorno egli sia giudicato come criminale di guerra: sia che si tratti di un leader geniale sia che la patente di leader geniale se la sia attribuita da sé.

Abu Ammar, mi par d’aver letto che gli israeliani la rispettino più di quanto lei li rispetti. Domanda: è capace di rispettare i suoi nemici?
Come combattenti, anzi come strateghi… qualche volta sì. Bisogna ammettere che alcune delle loro tattiche di guerra sono rispettabili, intelligenti. Ma come persone, no: perché si comportano sempre da barbari, in essi non c’è mai un goccio di umanità. Si parla spesso delle loro vittorie, io ho le mie idee sulla loro vittoria del 1967 e su quella del 1956. Quella del 1956 non dovrebbe neanche esser chiamata vittoria, quell’anno essi fecero solo da coda agli aggressori francesi e inglesi. E vinsero con l’aiuto degli americani. Quanto alla vittoria del 1967, essa si deve all’aiuto degli americani. Il denaro viene elargito senza controllo dagli americani a Israele. E oltre al denaro vengono loro elargite le armi più potenti, la tecnologia più avanzata. Il meglio che gli israeliani posseggono viene da fuori: questa storia delle meraviglie che essi avrebbero compiuto nel nostro paese va ridimensionata con più senso della realtà. Noi conosciamo bene quale sia e quale non sia la ricchezza della Palestina: più di tanto non si ricava dalla nostra terra, dal deserto non si fanno i giardini. Quindi la maggior parte di ciò che posseggono viene da fuori. E dalla tecnologia che viene loro fornita dagli imperialisti.

Siamo onesti, Abu Ammar: della tecnologia essi hanno fatto e fanno buon uso. E, come militari, se la cavano bene.
Non hanno mai vinto pei loro lati positivi, hanno sempre vinto pei lati negativi degli arabi.

Anche questo rientra nel gioco della guerra, Abu Ammar. Del resto hanno vinto anche perché sono bravi soldati.
No! No! No! Non lo sono, no! Corpo a corpo, faccia a faccia, non sono neanche soldati. Hanno troppa paura di morire, non dimostrano alcun coraggio. Così accadde nella battaglia di Karameh e così accadde l’altro giorno nella battaglia di El Safin. Passate le linee, piombarono con quaranta carri armati su Wadi Fifa, con dieci carri armati su Wadi Abata, con dieci carri armati e venti jeep con mitraglie da 106 su Khirbet el Disseh. Fecero precedere l’avanzata da un pesante bombardamento di artiglieria e dopo dieci ore fecero intervenire gli aerei che bombardarono indiscriminatamente tutta la zona, poi gli elicotteri che lanciarono missili sulle nostre postazioni. Il loro obiettivo era raggiungere la vallata di El Nmeiri. Non la raggiunsero mai, dopo una battaglia di venticinque ore li ricacciammo al di là delle linee. Sa perché? Perché usammo più coraggio di loro. Li circondammo, li prendemmo alle spalle coi nostri fucili, coi nostri bazooka: faccia a faccia, senza paura di morire. È sempre la solita storia con gli israeliani: attaccano bene con gli aerei perché sanno che non abbiamo aerei, coi carri armati perché sanno che non abbiamo carri armati, ma quando trovano una resistenza faccia a faccia non rischiano più. Scappano. E cosa vale un soldato che non rischia, che scappa?

Abu Ammar, che ne dice delle operazioni effettuate dai loro commandos? Ad esempio quando i loro commandos vanno in Egitto a smontarsi un radar per portarselo via? Un po’ di coraggio ci vuole per simili imprese.
No, non ci vuole. Perché cercano sempre obiettivi molto deboli, molto facili. È la loro tattica che, ripeto, è sempre intelligente però mai coraggiosa in quanto consiste nell’impiegare forze enormi in un’impresa della cui riuscita sono sicuri al cento per cento. Non si muovono mai se non sono certi che andrà tutto benissimo e, se li cogli di sorpresa, non s’impegnano mai fino in fondo. Tutte le volte che hanno attaccato in forze i fedayn, gli israeliani sono stati sconfitti. Con noi i loro commandos non passano.

Con voi forse no, ma con gli egiziani sì.
Ciò che fanno in Egitto non è un’azione militare, è una guerra psicologica. L’Egitto resta il loro nemico più forte, quindi essi cercano di demoralizzarlo e di svalutarlo attraverso una guerra psicologica messa su dalla stampa sionista con l’aiuto della stampa internazionale. Il loro gioco consiste nel propagandare un’azione esagerandola. Ci cadono tutti perché posseggono un ufficio-stampa poderoso. Noi non abbiamo alcun ufficio-stampa, nessuno sa cosa fanno i nostri commandos, le nostre vittorie passano inosservate perché ci mancano i telex per trasmettere la notizia ai giornali che del resto non la pubblicherebbero. Così nessuno sa, ad esempio, che lo stesso giorno in cui gli israeliani rubarono il radar agli egiziani noi entrammo in una base israeliana e gli portammo via cinque grossi razzi.

Io non parlavo di voi, parlavo degli egiziani.
Non c’è differenza fra palestinesi ed egiziani. Entrambi facciamo parte della nazione araba.

Questa è una battuta molto generosa da parte sua, Abu Ammar. Soprattutto considerando che la sua famiglia fu espropriata proprio dagli egiziani.
La mia famiglia fu espropriata da Faruk, non da Nasser. Conosco bene gli egiziani perché in Egitto ho fatto l’università e con l’esercito egiziano ho combattuto nel 1951, nel 1952, nel 1956. Sono bravi soldati e sono miei fratelli.

Torniamo agli israeliani, Abu Ammar. Lei dice che con voi subiscono sempre immense perdite. Quanti israeliani pensa che siano stati uccisi, a tutt’oggi, da voi?
Una cifra esatta io non posso dargliela ma gli israeliani hanno confessato d’aver perso, nella guerra contro i fedayn, una percentuale di uomini che è superiore a quella degli americani in Vietnam: in rapporto, s’intende, alla popolazione dei due paesi. Ed è indicativo che, dopo la guerra del 1967, i loro morti in incidenti automobilistici si siano decuplicati. Insomma, dopo una battaglia o uno scontro con noi, si viene a sapere che un mucchio di israeliani sono morti in automobile. Tale osservazione è stata fatta dagli stessi giornali israeliani perché è noto che i generali israeliani non ammettono mai di perdere uomini al fronte. Però posso dirle che, stando alle statistiche americane, nella battaglia di Karameh essi persero 1.247 uomini tra morti e feriti.

Anche il prezzo che pagate voi è altrettanto pesante?
Le perdite per noi non contano, a noi non importa di morire. Comunque, dal 1965 a oggi, abbiamo avuto un po’ più di novecento morti. Però bisogna considerare anche i seimila civili morti nelle incursioni aeree e i nostri fratelli morti in prigione sotto le torture.

Novecento morti possono essere molti e pochi: dipende dal numero dei combattenti. Quanti sono i fedayn in tutto?
Per dirle questa cifra io dovrei chiedere il permesso del Consiglio militare, e non credo che tal permesso lo avrei. Però posso dirle che a Karameh noi eravamo solo 392 contro 15.000 israeliani.

Quindicimila? Abu Ammar, lei vuol dire forse millecinquecento.
No! No! No! Ho detto quindicimila, quindicimila! Inclusi, s’intende, i soldati impegnati con l’artiglieria pesante, i carri armati, gli aerei, gli elicotteri, e i paracadutisti. Solo come truppa essi avevano quattro compagnie e due brigate. Ciò che diciamo noi non viene mai creduto da voi occidentali, voi ascoltate loro e basta, credete a loro e basta, riferite ciò che dicono loro e basta!

Abu Ammar, lei non è un uomo giusto. Io sono qui e sto ascoltando lei. E dopo questa intervista riferirò parola per parola ciò che mi ha detto lei.
Voi europei siete sempre per loro. Forse qualcuno di voi incomincia a capirci: è nell’aria, si annusa. Ma in sostanza restate per loro.

Questa è la vostra guerra, Abu Ammar, non è la nostra. E in questa vostra guerra noi non siamo che spettatori. Ma anche come spettatori lei non può chiederci d’essere contro gli ebrei e non deve stupirsi se in Europa, spesso, si vuol bene agli ebrei. Li abbiamo visti perseguitare, li abbiamo perseguitati. Non vogliamo che ciò si ripeta.
Già, voi dovete pagare i vostri conti con loro. E volete pagarli col nostro sangue, con la nostra terra, anziché col vostro sangue, con la vostra terra. Continuate a ignorare perfino che noi non abbiamo nulla contro gli ebrei, noi ce l’abbiamo con gli israeliani. Gli ebrei saranno i benvenuti nello Stato democratico palestinese: gli offriremo la scelta di restare in Palestina, quando il momento verrà.

Abu Ammar, ma gli israeliani sono ebrei. Non tutti gli ebrei si possono identificare con Israele ma Israele non si può non identificare con gli ebrei. E non si può pretendere che gli ebrei di Israele vadano un’altra volta a zonzo per il mondo onde finire nei campi di sterminio. È irragionevole.
Così, a zonzo per il mondo volete mandarci noi.

No. Non vogliamo mandarci nessuno. Tanto meno voi.
Però a zonzo ci siamo noi, ora. E se ci tenete tanto a dare una patria agli ebrei, dategli la vostra: avete un mucchio di terra in Europa, in America. Non pretendete di dargli la nostra. Su questa terra noi ci abbiamo vissuto per secoli e secoli, non la cederemo per pagare i vostri debiti. State commettendo uno sbaglio anche da un punto di vista umano. Com’è possibile che gli europei non se ne rendano conto pur essendo gente così civilizzata, così progredita, e più progredita forse che in qualsiasi altro continente? Eppure anche voi avete combattuto guerre di liberazione, basta pensare al vostro Risorgimento. Il vostro errore perciò è volontario. L’ignoranza sulla Palestina non è ammessa perché la Palestina la conoscete bene: ci avete mandato i vostri Crociati ed è un paese sotto i vostri occhi. Non è l’Amazzonia. Io credo che un giorno la vostra coscienza si sveglierà. Ma fino a quel giorno è meglio non vederci.

Per questo, Abu Ammar, lei porta sempre gli occhiali neri?
No. Li porto per non far capire se dormo o son sveglio. Ma, detto fra noi, io sono sempre sveglio dietro i miei occhiali. Dormo solo quando me li tolgo, e dormo pochissimo. Niente domande personali, avevo detto.

Solo una, Abu Ammar. Lei non è sposato e non si conoscono donne nella sua vita. Vuol fare come Ho Ci-min o l’idea di vivere accanto a una donna le ripugna?
Ho Ci-min… No, diciamo che non ho mai trovato la donna giusta. E ora non c’è più tempo. Ho sposato una donna che si chiama Palestina.

(stralcio dal libro "Intervista con la storia" - pubblicato nel sito Alberto Soave wordpress.com)

mercoledì 23 luglio 2025

Roberto Scarpinato, dichiarazione di voto sul Ddl ‘Separazione delle carriere’.



Intervento dell'Onorevole Roberto Scarpinato al Senato della Repubblica (<-- Video)

"Non impiegheremo i pochi minuti a nostra disposizione per lumeggiare ancora una volta l’inconsistenza delle motivazioni ufficiali poste a fondamento di questa riforma costituzionale. Andiamo alla sostanza politica.
Siamo consapevoli che si tratta di un regolamento di conti della casta dei potenti contro la magistratura, che per essere attuato richiede necessariamente uno stravolgimento dell’assetto dell’ordinamento della magistratura previsto dalla Costituzione ed un cambio di paradigma culturale.
La Costituzione ha infatti profondamente trasformato il Dna culturale della magistratura ed il suo rapporto con il potere.
Per tutto il lungo periodo storico dell’Italia monarchica e fascista, la magistratura era stata pienamente omologata al potere politico, e, tranne rare eccezioni, aveva praticato una giustizia di classe considerando il mondo del potere al di sopra della legge e non giustiziabile.
Per questo motivo in 88 anni di storia nazionale, dalla fondazione dello Stato unitario sino all’avvento della Repubblica, non si è registrato alcun conflitto tra mondo politico e ordine giudiziario.
La Costituzione ha introdotto una cesura storica rispetto a questo passato.
Garantendo l’indipendenza dei giudici e dei pubblici ministeri ha emancipato la magistratura dalla cappa dei condizionamenti diretti e indiretti del mondo del potere, trasformandola da corpo di funzionari che operava come articolazione della classe dirigente, in un potere autonomo, in una variabile indipendente dagli equilibri politici contingenti e, quindi, fuori controllo.
La progressiva perdita di controllo della magistratura, è divenuto nel tempo un fattore destabilizzante per il sistema di potere italiano che dietro la facciata dello Stato legale, ha in larga misura fondato e continua a fondare i suoi equilibri e la concreta gestione del potere su occulte pratiche illegali: dalla normalizzazione delle tangenti e della corruzione, alla normalizzazione del voto di scambio e del conflitto di interessi, alle varie forme di piduizzazione del potere, alla commistione tra politica e affari, alla sudditanza delle decisioni pubbliche agli interessi di lobbies e di gruppi di interessi, agli accordi sottobanco e ai matrimoni di interessi con le mafie in cambio di voti e di lucrosi affari.
L’incompatibilità tra la costituzione materiale del paese contrassegnata dall’illegalismo di larghe componenti delle classi dirigenti e la Costituzione formale che impone il controllo di legalità sull’esercizio del potere, ha causato nel tempo una crisi di sistema di lungo periodo con ricorrenti fasi di fibrillazione.
Tutta la storia italiana del dopoguerra dagli anni Settanta in poi, è stata segnata da una profonda crisi di insofferenza e di rigetto di larghe componenti del sistema di potere nazionale nei confronti di una magistratura che essendo divenuta a causa della Costituzione fuori controllo, ha sistematicamente messo in crisi la sopravvivenza e la perpetuazione di metodi illegali di gestione del potere.
Dai giovani pretori che negli anni Settanta scoperchiarono lo scandalo del petrolio – tangenti miliardarie di grandi petrolieri ai partiti in cambio di leggi di favore che facevano lievitare oltre misura i prezzi della benzina ai danni dei cittadini – alle indagini della Procura di Milano che portarono alla luce il verminaio della P2, esempio paradigmatico di Stato occulto e parallelo antidemocratico ed eversivo, alle indagini del pool antimafia di Palermo che con l’arresto di Vito Ciancimino e dei potentissimi cugini Nino e Ignazio Salvo, misero in fibrillazione la borghesia mafiosa, uno degli architravi del sistema di potere nazionale, ai processi della stagione di Tangentopoli e di Mafiopoli degli anni Novanta che rivelarono alla nazione il vero ritratto di Dorian Gray di larghe componenti della classe dirigente, si arriva rapidamente alle cronache giudiziarie dell’attualità.
Una attualità contrassegnata da una successione senza fine di casi giudiziari di corruzione, di commistione tra affari e politica, di collusioni con la mafia che da Milano a Palermo sembrano il replay di storie del passato, di una eterna Tangentopoli e Mafiopoli, di una coazione a ripetere di una classe dirigente irredimibile in sue larghe componenti.
Questo telegrafico excursus della storia nazionale è una premessa necessaria per comprendere le reali ragioni di questa riforma.
Una coalizione di governo costituita da forze politiche storicamente collegate ai mondi del piduismo, della destra eversiva e antidemocratica, della borghesia mafiosa e del berlusconismo, ha deciso di approfittare dei contingenti rapporti di forza attuali per chiudere finalmente la partita, mettendo le mani sulla Costituzione individuata come la causa della perdita di controllo della magistratura, con una riforma blindata e inemendabile da approvare in tempi record.
Una riforma che costituisce il primo tempo di un disegno complessivo da completare solo in seconda battuta dopo avere superato lo scoglio del referendum confermativo, mediante l’emanazione di leggi ordinarie finalizzate a sottoporre l’esercizio dell’azione penale al controllo del potere politico. Come, ad esempio, il disegno di legge numero 1440 del 2009 già predisposto dal governo Berlusconi che prevedeva il trasferimento dei poteri di direzione delle indagini dai Pubblici ministeri alle forze di Polizia, dipendenti dal governo, mediante la semplice modifica degli articoli 326, 330 e 335 del c.p.p.
Una riforma costituzionale che per i modi in cui è stata congegnata e gestita in sede parlamentare costituisce un esempio da manuale della scienza e dell’arte dell’impostura politica. Una impostura diretta a spacciare come interesse generale del paese, gli interessi di casta rappresentati da questa maggioranza.
Una impostura finalizzata a spacciare come riforma neutra rispetto all’assetto dei poteri, una riforma destinata invece a incidere profondamente sugli equilibri tra i poteri dello Stato.
Come viene realizzata questa impostura?
Celando dietro le motivazioni formali e di facciata della riforma esposte nella relazione di accompagnamento del disegno di legge, le vere ragioni politiche inconfessabili apertamente.
Reali ragioni che, tuttavia, come voci dal sen fuggite, sono state esternate apertamente a più riprese da autorevoli esponenti della maggioranza anche nelle sedi istituzionali.
Cosi nella relazione al disegno di legge di iniziativa del senatore Zanettin che proponeva l’elezione per sorteggio dei componenti togati del CSM. Soluzione poi recepita dal Governo in questo disegno di legge, si legge che la riforma è finalizzata a rimuovere l’interferenza delle correnti della magistratura nella nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari, perché tale interferenza sarebbe stata la causa di una gravissima patologia del sistema descritta nei seguenti testuali termini: “L’uso a orologeria della giustizia, il distorto pilotaggio delle indagini verso vicende selezionate nei confronti di esponenti politici poco graditi, [..] in grado di condizionare direttamente o indirettamente l’azione di settori essenziali della magistratura secondo quello che, senza timore di smentite, può definirsi un surrettizio e inammissibile esercizio politico della funzione giurisdizionale”.
Traducendo, secondo questa maggioranza bisogna modificare il sistema elettorale del Csm e separare le carriere perché sarebbe dimostrato – “senza timore di smentite” – che le condanne subite da tanti autorevolissimi esponenti politici – Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Antonio D’Ali, Nicola Cosentino, Amedeo Matacena, Cesare Previti, Giancarlo Galan, Roberto Formigoni, Denis Verdini – e qui mi fermo altrimenti facciamo notte, non sarebbero state determinate dall’accertamento dei reati da essi commessi, ma sarebbero state il frutto di una congiura diabolica delle correnti della magistratura che, dietro le quinte, avrebbero prima pilotato le indagini e poi le condanne, coinvolgendo per ciascuno di questi processi centinaia di magistrati che si sono occupati di questi casi nei vari gradi di giudizio: pubblici ministeri, giudici della udienza preliminare, giudici dei Tribunali, giudici delle Corti di Appello e persino giudici della Corte di Cassazione.
Magistrati tutti obbedienti come soldatini a direttive provenienti dagli organi di vertice delle diverse correnti che, in tal modo, avrebbero trasformato i processi in strumenti di lotta politica.
Che questa narrazione di palazzo sia unanimemente condivisa da tutti i vertici dei partiti della maggioranza è attestato da innumerevoli interventi pubblici.
Per limitarmi ad alcuni dei casi più recenti, il senatore Gasparri, capogruppo di Forza Italia in questi giorni ha dichiarato che questa è “una riforma epocale che cancella le stagioni oscure dell’uso politico della giustizia”.
La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni il 18 luglio 2025 ha dichiarato che “il governo è impegnato a riformare la giustizia per mettere fine alle storture a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni”.
Il Vice Presidente della Camera Giorgio Mulè, dopo il voto positivo alla riforma in quel ramo del Parlamento, ha sottolineato che tale traguardo costituiva il coronamento del sogno di Silvio Berlusconi il quale – è bene ricordare – nel 2003 a sostegno della necessità della riforma sostenne il seguente formidabile motivo che, bisogna ammettere, è giuridicamente imparabile: “I giudici sono matti, sono mentalmente disturbati, hanno turbe psichiche e sono antropologicamente diversi dalla razza umana”.“I giudici sono matti; bisogna proprio essere matti per fare il giudice”.
Perché non dite ai cittadini la verità e cioè che bisogna fare questa riforma perché i giudici sono matti o peggio perché sono criminali che hanno condannato fior di galantuomini solo per motivi politici?
Cosa vi trattiene dal chiamare a raccolta il popolo nel prossimo referendum confermativo intorno a questa vostra solare e scandalosa verità, e a trincerarvi invece dietro motivazioni formali, dietro algidi tecnicismi incomprensibili al cittadino medio che non scaldano gli animi?
Sapete e sappiamo bene il perché. Perché anche i più ingenui tra i cittadini, a quel punto capirebbero che questa riforma è una mela avvelenata, che si tratta di una riforma di casta che non li riguarda, che si tratta di un volano per ripristinare la vecchia giustizia classista forte con i deboli e debole con i forti del periodo precostituzionale.
Perché una campagna elettorale condotta con simili argomenti sarebbe un clamoroso autogol che vi farebbe perdere il referendum confermativo.
Dunque siete costretti all’impostura, a mentire, a tenere a freno la lingua nei convegni e nei dibattiti televisivi, a mettere a tacere l’ingenuo senatore Zanettin che vorrebbe gridare ai quattro venti le vere ragioni della riforma, e a lasciare la parola all’astuto sottosegretario Sisto, già avvocato di Berlusconi padre spirituale della riforma, incaricato di convincere il signor Bianchi e il Signor Rossi, che questa riforma non ha ragioni politiche, ma è finalizzata solo garantire che chi lo giudica non sia contaminato da chi lo accusa.
Siete costretti a mentire arrivando al punto di mescolare senza alcun pudore il diavolo e l’acqua santa.
Non potendo esibire pubblicamente e decentemente come icone e spiriti guida di questa riforma Gelli, Berlusconi, Dell’Utri, Previti, e altri personaggi simili, vi fate scudo dell’icona di Giovanni Falcone, il magistrato che proprio dai mondi di cui tali personaggi sono l’emblema – lo piduismo, la borghesia mafiosa, poteri economici conniventi con le mafie – fu osteggiato, ridotto all’impotenza e poi lasciato nelle mani dei macellai che lo massacrarono il 23 maggio 1992.
Il Gruppo Cinque Stelle dichiara dunque il proprio voto contrario in nome di tutti i cittadini consapevoli che la difesa dell’ indipedenza della magistratura è l’ultimo baluardo che ci resta per non consegnare il paese ad una politica corrotta, sottomessa alle lobbies e connivente con le mafie."

Buona luce a tutti!

© Essec

mercoledì 17 luglio 2024

"Compagni di strada, compagni di avventura, compagni di poesia" di Pippo Pappalardo.



In qualche modo si ripropone con costanza il parallelismo fra pittura e tecnica fotografica.
Ripercorrendo la genesi e l’evoluzione storica della seconda, efficacemente illustrata da Giséle Freund (Fotografia e società) e alla quale si rimanda, appare evidente come entrambe le discipline ormai costituiscono strumenti per nulla in concorrenza, diversamente da quanto temuto all’origine; anzi entrambe si rivelano oggi utili, complementari ed efficaci per svolgere percorsi intrisi di tematiche concettuali e continui intenti creativi.
L’immagine visiva, ieri come oggi, continua pertanto a costituire – e sempre più - una sintesi volta a manifestare con immediatezza ogni intendimento comunicativo. Virtuale o reale poco importa, purché si riescano a raggiungere gli scopi creativi sottostanti.
Del resto è anche risaputo che l’autorialità, in ogni caso, prescinde dagli obiettivi e dagli intenti originari, in quanto costantemente legata ai luoghi e ai linguaggi convenzionali in uso che, associati, di volta in volta condizionano ogni giudizio e risultato.
Nella sua evoluzione, nata, come fu per Eva nel racconto biblico, dalla costola di Adamo, la fotografia ha via via sviluppato nuove e diverse forme espressive, con tante tecniche, fino a innestare un interscambio spontaneo e naturale volto a confondere i generi.
Nulla di nuovo, anche qui sono ormai leggi di natura, con le contaminazioni e le influenze che connotano le esperienze umane.
Di seguito vengo a proporre l’interessante traccia che lo scorso sabato l’inesauribile Pippo Pappalardo ha sviluppato fra gli amici fotografi e i tanti artisti riuniti presso la “Galleria Vacirca" di Caltagirone, che mi piace condividere nel mio blog per permetterne la lettura e magari contribuire indirettamente a fornire spunti riflessivi ai tanti appassionati di fotografia che possono trovarsi interessati.
Dalla lettura deriva marginalmente, oltre che qualche riferimento all’argomento del giorno e che tanto preoccupa (IA), anche un aspetto un po’ accennato da Pappalardo nello scritto e che è, a mio parere, anch’esso molto importante nelle proposte artistiche di oggi, ovvero l’allestimento.
Indipendentemente dalla valenza intrinseca ad ogni opera artistica, la presentazione estetica e l’interrelazione logistica nelle mostre allestite da curatori, costituiscono elementi indispensabili e molto importanti per indicare la narrazione artistica e magari rafforzare il dialogo delle opere esposte.
Per quest’ultimo aspetto si rimanda a un eventuale altro regalo che, nel caso e se lo riterrà opportuno, l’amico Pippo, vorrà proporci.

Buona luce a tutti!


© ESSEC

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Compagni di strada, compagni di avventura, compagni di poesia.

A quale genere ascriveremo questa breve nota fotografica? In effetti non abbiamo avvertito alcuna necessità di costruirla come una presentazione sulla personalità dei nostri artisti; né l’abbiamo immaginata come un dispositivo critico ed esegetico utile per illustrare la loro opera e le loro opere; e, volutamente, non intendevamo suggerire percorsi interpretativi circa il senso e la qualità dei loro elaborati. Ed allora?
Più semplicemente, siam voluti tornare sulla “scena del delitto” e, pertanto, tentare di capire quel momento iniziale (nella contrapposta vicenda artistica tra fotografia e pittura) che ha dato il via ad un nuovo modo di vedere le cose e di rappresentarle.
E se, dapprima, fu la presunta “oggettiva visibilità” del risultato fotografico a impressionare gli occhi dei nostri antenati, ben presto la riflessione su questo risultato - che rimane pur sempre “un risultato virtuale” -, insieme con la ricerca scientifica sulle risorse e sui limiti della percezione visiva, e sul carattere effimero di quanto intravisto, ci convinsero che il reale, dentro e fuori di noi, è ancora avvolto nel mitico velo di Maja; e la fotografia e la pittura, insieme e consapevolmente, hanno compiuto, ed ancora compiono, sforzi non indifferenti, per squarciarlo.
Eppure davanti un’immagine fotografica esclamiamo ammirati: “Bellissima. Sembra un quadro”. E davanti alla verosimiglianza di un quadro, proferiamo: “Magnifico! Sembra una foto”. Sappiamo, per esperienza, che tali reazioni irritano i loro Autori: da tempo, il “combattimento per un’immagine” è senz’armi e senza ragioni di belligeranza; eppure, ancora oggi, la cosiddetta “aura artistica” è chiamata in causa allorquando alle pareti sono accostate e contrapposte paradossalmente le diverse testimonianze della medesima radice espressiva e, quindi, dell’immagine e della sua rappresentazione e condivisione.
Invero, sui due fronti, si sono schierati i migliori cervelli degli ultimi secoli, contraddicendosi e confondendosi. E noi, qui, proviamo, ancora una volta, a penetrare tale complessità arricchita da una tecnologia che non ha ancora esaurito di stupirci. Ad ogni buon conto, con l’aiuto di Benedetto Croce, sottoscriviamo che l’esperienza visiva, quando si propone come esperienza artistica, muove da un’impressione sensuale, fisica, che si fa emozione nella ricerca di una sua intima definizione e diviene espressione di un’idea che liberatasi dai suoi gravami ormai è pronta per la sua rappresentazione e condivisione. Così il nostro filosofo, che, però, non attribuiva valore estetico o artistico alle fotografie perché troppo semplici da eseguire (e non è rimasto il solo!).
Adesso, volendo allestire una sequenza fotografica che dialogasse con i nostri pittori, si intendeva mantenere le domande di cui sopra, e proporre la possibile comprensione dei due fenomeni/esperienze da tempo contrapposte e che pure invadono i pensieri dei nostri giorni: da una parte, in fotografia, la constatazione di una ricerca che va verso l’occultamento dell’autore, quasi un timore ossessivo per la sua presenza autoriale, tutta a favore di una sua scomparsa (vedi gli ultimi esempi di applicazione della cosiddetta Intelligenza Artificiale della fotografia digitale); e, dall’altro, l’orgogliosa riaffermazione dell’individualità artistica, romanticamente e titanicamente (ri)proposta quale espressione di autonomia identitaria, di individualità creatrice, di libertaria risoluzione espressiva del genere umano.
Ed allora? Si è preferito prendere lo strumento in mano (quello fotografico), portarlo all’altezza degli “occhi, del cuore, del cervello”, e farlo interloquire con le persone, con gli strumenti, con gli ambienti che con altrettanta dovizia tecnica ed altrettanta passione continuano a dare una forma al tempo, una nuova matematica allo spazio, una nuova figura alla fantasia. Badate bene: l’esperienza è assai vecchia. Conosciamo infatti lo scambio tra le due avventure visive praticato già con disinvoltura dai pittori del secolo scorso fino all’eclettico Picasso; ed a tutti è nota l’epocale mostra “Combattimento per un’immagine”, 1973 – GAM Torino, curata da Carluccio e Palazzoli; e non possiamo prescindere dal magistrale contributo di Ugo Mulas che ci ha lasciato con “New York, arte e persone” un corretto, onesto, criterio per sciogliere ogni contrasto rifuggire ogni polemica.
Pertanto, andando a casa dei nostri artisti, nei loro studi, e guardando i loro attrezzi, sbirciando i loro progetti e catturando i loro gesti , il documento fotografico che è emerso dalla loro visione si è fatto motivo di emozione, causa di espressioni diverse ed oggi è qui accanto alle opere pittoriche per parlare con il linguaggio differente non di un “attimo fuggente” ma di un laboratorio di idee e di sentimenti affidato pur sempre a superfici confinate, a colori creati, a linee connesse non dal caso ma da un pensiero a lungo meditato; molto a lungo.
Questi accessi ci hanno riportato gli scambi tra fotografi e pittori come Degas, Cézanne Matisse, Duchamp e agli scultori come Brancusi, Messina, Pomodoro, Ceroli, Alik, Paladino. E con loro, la convivenza artistica e l’arricchimento reciproco scaturito da sodalizi stupefacenti come quello tra Giacomelli e Burri, tra Berengo Gardin e Nespolo. Straordinario, aggiungo io, l’incontro dei fotografi con l’opera di Morandi e, quasi una lezione d’arte per tutti, la visione di Piero della Francesca.
Ma cosa significa fotografare un’opera d’arte pittorica, un gesto pittorico? Certamente è cosa assai diversa riprendere un momento teatrale: in studio la tela sta ferma, la statua non si muove e riceve una luce spesso assai costante. Ma davanti ai tagli di Fontana, tra gli equilibri sospesi di Calder, tra le “colature” di Pollock, dentro l’obbiettivo del fotografo non passa forse il dinamismo di un pensiero, di una ricerca, di un incontro, di una partecipazione? Non diciamo sempre che “dietro l’obiettivo c’è un’idea, e davanti c’è il reale”?
Ebbene, proprio queste sensazioni ci hanno guidato ad una comunione. Una comunione che come racconta Scianna, riportando il suo incontro con Mulas, è una sfida: “troppo facile fotografare il barbone affamato; prova a puntare la macchina da un’altra parte, scegliti il “tuo” punto di vista e fattene una ragione”.
In effetti queste sequenze sono come delle “tracce, delle tappe”, sono figure attraverso cui la nostra coscienza di visitatori della Galleria abbatte le distinzioni, le categorie enciclopediche e converge sulla condivisione, sulla partecipazione.
“Non pensiamoci, allora, come due rive opposte: noi siamo il fiume” (Borges)".
Pippo Pappalardo

domenica 3 dicembre 2023

“Ricordando Ivo’” di Francesco Cito

È morto Ivo Saglietti, 75 anni, premio World press foto nel 1992 nella categoria “Daily life, stories” con un servizio su un'epidemia di colera in Perù, e nel 1999 “menzione d'onore” allo stesso concorso per un reportage sul Kosovo.
Ci sono personaggi che hanno il dono di saper rendere gradevoli anche ricordi che altrimenti potrebbero costituire solo momenti di tristezze.
Con lo scritto riportato di seguito - che ho copiato da Facebook - il Francesco Cito fotografo viene a raccontare a tutti noi il suo amico Ivo.
Un testo che rievoca anche avvenimenti e situazioni belliche di grande attualita' e che sembrano quasi destinati a non trovare mai una fine.
Un ricordo che rappresenta l'intima raccolta di fotografie, composte non di pixel ma fatte di parole, che realizzano un ritratto delicato, ricco di molte tonalita' sottolineate da tanta stima.
Un regalo all'amico scomparso e come lo stesso Cito conclude "come se fotografasse sé stesso"

Buona luce a tutti!


© ESSEC

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"Ricordando Ivo

Se ne andato in punta di piedi questa mattina alle otto, come suo solito, senza rumore, senza un saluto.
È partito per questo ennesimo viaggio, il suo viaggio verso una meta ignota, al di là dei confini conosciuti, ma di cui ha voluto mantenere il segreto, geloso del suo lavoro come sempre guardingo nel raccontare i suoi progetti, di cui anche questo ultimo, il più impegnativo, preparato con cura e in silenzio già da lungo tempo.
Ci eravamo incontrati la prima volta verso gli inizi degli anni 80 nella stazione di Porta Nuova a Torino.
Un incontro casuale, io avevo appena lasciato la redazione di Infinito, il magazine dello Editore Vivalda, che si apprestava a pubblicare il mio Afghanistan. Lui tornava ad Alba dove viveva, anche se il suo mondo era l’America latina, e il suo amore la Cuba di Fidel Castro.
Fu la sua quasi una visione celestiale l’aver visto Fidel mentre attraversava in auto il Malecòn, il lungomare dell’Havana. Questa apparizione solenne del leader di “Hasta la victoria siempre, Patria o muerte”, era tante volte motivo di conversazione tra uno spaghetto carbonara o spaghettino alle cozze di cui andava ghiotto e qualche bicchiere di vino in più, quando si trascorreva il tempo insieme seduti alla mia tavola in via Leoncavallo 17, a Milano.
Io avevo lasciato Londra definitivamente, lui il sud America. Le nostre conversazioni difficilmente vertevano sugli aspetti lavorativi, anche se era ancora il tempo bello della fotografia, quella di reportage, la fotografia tanto ricercata dai giornali e soprattutto dai settimanali, disposti ad investire e inviarci in giro per il mondo.
Ciò nonostante si fantasticava in altri progetti, di cui uno dei quali, aprire un ristorante a Managua nel Nicaragua della guerriglia Sandinista. Un pranzo o una cena a soli due dollari e cinquanta con l’aragosta. Era una sua proposta, conosceva quei luoghi, e la mia obiezione, pratica era: A quei prezzi, quando riusciremo a mettere i soldi da parte per tornare a casa?
Era la nostra un’amicizia sincera, ma anche conflittuale.
Non sempre le nostre idee combaciavano, il suo carattere spigoloso e schivo emergeva quando i contrasti su faccende che il più delle volte e in linea teorica manco ci appartenevano, ci hanno per qualche ragione senza una logica precisa, allontanati l’uno dall’altro. Eravamo entrambi reduci da altre vite e aggiungerei differenti affetti e, forse sono stati questi affetti mancati ad entrambi in forma diversa a renderci troppo uguali.
Erano i tabù delle nostre vite che immancabilmente ci siamo sempre trascinati lungo il percorso delle nostre esistenze. Il nostro guardarci in uno specchio, le nostre immagini riflesse si dissolvevano in un'unica sofferta esistenza.
L’aver perso la madre in giovane età, credo sia stata per lui una ferita insanabile. Era il tabù della vita, il non voler riconoscere noi stessi ad averci allontanati.
Ci siamo rincontrati in Palestina durante uno dei tanti drammi di quella martoriata terra.
Era a Bethlehem con Paolo Pelligrin durante l’assedio alle città palestinesi nel 2002, a seguito della seconda intifada.
Qualche giorno dopo Paolo era altrove e io lui e l’amico di lunga data John Tordai, riuscimmo attraverso i campi, ad entrare a Jenin assediata dell’esercito israeliano. Il campo profughi di Jenin era stato raso a suolo per rappresaglia. Durante i combattimenti fra i miliziani palestinesi e l’esercito di Tzahal, furono uccisi 23 soldati della stella di Davide.
Tempo dopo insieme a Ramallah, per recarci sul luogo dove il carissimo amico Raffaele Ciriello il 13 marzo 2002, fu falciato da sei proiettili di grosso calibro sparati dalla mitragliatrice di un carrarmato e ucciso all’istante. Le autorità israeliane hanno sempre negato l’evidenza anche se la morte di Raffaele fu ripresa in diretta dall’operatore Rai che accompagnava l’inviato Amedeo Ricucci.
Qualche tempo fa Durante il foto Lux di Lucca, al termine di una lunga giornata di incontri, ci siamo ritrovati seduti nella magnifica piazza con sullo sfondo la Chiesa di San Michele.
Un’occasione per ritrovarci e dissipare quei contrasti celati per troppo tempo, e ancora ad Orbetello lo scorso anno, in cui erano esposte le nostre foto “Zone di Conflitto” nello stesso spazio, uno di fronte all’altro.
Mi aveva mostrato altresì le foto del suo progetto sui Balcani.
Guardando le tue foto mi fai ritornare il desiderio di tornare a fotografare fu il mio commento.
Gli si illuminarono gli occhi, credo non si aspettasse da me un simile commento, ma sono convinto che in quel momento sia stato felice nel sentirmi esprimere ciò che veramente credevo e sentivo di dovergli dire.
Non era la mia una gratuita smanceria, era dettato dal cuore nel vedere la bellezza ritratta attraverso i suoi occhi.
Schivo com’era, mi ha sempre tenuto nascosto il suo male, al telefono e ancora pochi giorni addietro mi rispondeva sempre di star bene, ma sapevo che così non era, ero informato del suo dramma, che forse più che la malattia, è stato capire di non poter proseguire nel suo progetto, di non poter più trasmettere quella bellezza da me tanto amata e anche invidiata, anche se voglio credere che il suo viaggio è appena iniziato.
Io lo ricorderò sempre su quell’angolo dove i palestinesi avevano eretto un cippo per ricordare Raffaele Ciriello, il fotografo italiano sgradito ai soldati israeliani e che di quel cippo ne hanno fatto scempio.
Ivo fotografava quel muro ormai annerito e imbrattato, sul quale era impressa indelebile la memoria dell’amico gentile quale era Raffaele, ed è stato in quel momento in cui Ivo apparve ai miei occhi in tutta la sua sofferta umanità.
Era come se fotografasse sé stesso.
Buon viaggio Ivo, con un grande abbraccio Francesco"

sabato 21 ottobre 2023

Come tutto cominciò.

Un lavoro di ricostruzione storica dell’origine dello stato moderno di Israele è stato quello realizzato e pubblicato a puntate su Il Fatto Quotidiano dal suo direttore nel corso di questo mese. La nostra memoria registra il sovrapporsi di tante informazioni e la massa mediatica che ogni giorno ci bombarda porta spesso a dimenticare tanti aspetti. La ricostruzione realizzata da Marco Travaglio, anche se ad alcuni potrà apparire faziosa, racconta ed è un utile strumento per richiamare e valutare tantissimi accadimenti, che dovranno essere tenuti in conto prima di procedere a riconoscersi acriticamente in qualsiasi schieramento. Del resto la storia è scritta sia dai vincitori che dai popoli oppressi, con versioni quasi sempre differenti nel sottolineare reciprocamente aspetti palesemente di parte. La riproposizione degli editoriali di Travaglio in questo spazio web non ha quindi alcun intento di pirateria o di violazione di copyright poiché, tenuto conto dell’importanza dell’argomento trattato e indipendentemente da come la si pensi o ogni schieramento, si ritiene appunto molto utile - magari per i più distratti - postarli per intero. Di seguito si riporta il testo integrale assemblato delle diverse puntate pubblicate.

Buona luce a tutti!


© ESSEC

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Come tutto cominciò. All’alba del 14 maggio 1948 il sole picchia forte su Tel Aviv, mentre un ometto polacco canuto e commosso si alza in piedi e dà l’annuncio che tutti aspettano. Si chiama Micha Berdichevsky, ma tutti lo chiamano David Ben Gurion, detto anche “il figlio del leone”. È il capo del governo provvisorio di Israele. Parla scarno, ma solenne: “Proclamo la fondazione nazionale dello Stato ebraico indipendente di Palestina, che si chiamerà Israele”. Pochi minuti prima, l’ultimo soldato inglese ha lasciato il Paese, ponendo fine al mandato di Sua Maestà Britannica sulla Palestina, la lingua di terra stretta fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, spartita l’anno prima dall’Onu con la risoluzione numero 181 in due Stati: uno ebraico, l’altro arabo. Mentre Ben Gurion viene sommerso dagli applausi, qualcuno tra i più anziani ricorda la profezia lanciata mezzo secolo prima dal padre del sionismo, il giornalista ungherese Theodor Herzl: “Oggi la gente riderebbe se annunciassi che ho fondato lo Stato ebraico. Ma forse, fra cinquant’anni, mi darete ragione”.

“A morte gli ebrei!”. A Parigi, nel gennaio del 1895, Herzl ha visto degradare in piazza un ufficiale ebreo d’artiglieria, Alfred Dreyfus, condannato per alto tradimento su false accuse, tra la folla che urla “A morte gli ebrei!”. E, sconvolto per quel rigurgito di antisemitismo nel cuore d’Europa, ha scritto un libriccino ben oltre i limiti della follia: Lo Stato ebraico. Nel 1897 presiede a Basilea il primo congresso mondiale sionista. E le sue parole accendono la speranza in decine di migliaia di ebrei, soprattutto russi, in fuga dai pogrom: gli stermini di massa ispirati dalla polizia zarista. Negli ultimi vent’anni del secolo, un milione di israeliti fuggono dalla Russia negli Stati Uniti. Poche centinaia scelgono la via più difficile verso la terra dei loro padri, la Palestina. Qui, nel XIX secolo, gli ebrei sono ridotti a un villaggio di Asterix di 25 mila anime, affogate fra 450 mila arabi. Dalla fine dell’antico Stato ebraico con la conquista romana di Tito nel 70 d. C., non hanno visto che dominazioni straniere: bizantini, arabi, crociati, mamelucchi, turchi ottomani. In 17 secoli di “diaspora”, il popolo ebraico si è disperso in ogni angolo di mondo, ma non ha mai perso la speranza. Ogni anno, a ogni cena pasquale, ogni ebreo osservante ha rinnovato la promessa: “L’anno prossimo a Gerusalemme”.

La svolta arriva a Natale del 1901. Il 5° congresso sionista di Basilea decide di distribuire a tutti gli ebrei del mondo un salvadanaio di latta bianco e azzurro. L’anno seguente, con i risparmi raccolti, nasce il Fondo Nazionale Ebraico per acquistare terreni in Palestina e ospitarvi i primi insediamenti.

Quelle messe in vendita dai grandi feudatari arabi sono terre di scarto: incolte e desertiche, o malsane e paludose, per giunta cedute a prezzi esorbitanti. Nascono così, tra mille difficoltà, i primi kibbutz, comunità agricole a gestione collettivistica, molto vicine agli ideali del socialismo. In pochi anni deserti e paludi si trasformano in agrumeti e campi coltivati. Attirando nuove e continue ondate migratorie, anche sulla spinta dei nuovi pogrom nell’Europa centro-orientale. La popolazione ebraica, nel 1914, è di 85 mila unità, nel 1923 di 120 mila, nel 1928 di 160 mila. Poi, dal 1932 al ’38, il grande esodo degli “indesiderati” dalla Germania hitleriana. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, gli ebrei di Palestina raggiungono quota 400 mila.

Balfour e il Focolaio. Sconfitto nel Primo conflitto mondiale, l’Impero ottomano si è sbriciolato e la Palestina è passata all’Impero britannico, che fa sperare gli ebrei. Nel 1917 il ministro degli Esteri, Arthur James Balfour, rilascia una celebre dichiarazione: “Il Regno Unito vede con favore la fondazione in Palestina di un Focolare nazionale per il popolo ebraico”. Poi però sono soltanto delusioni. Nel 1939 Londra pubblica un Libro Bianco che limita severamente l’immigrazione ebraica, impedendo a migliaia di ebrei di sfuggire alla persecuzione nazista. Gli ebrei di Palestina si schierano comunque in guerra a fianco degl’inglesi contro i tedeschi. Ma nel 1946 la tensione è di nuovo all’acme. Navi cariche di profughi scampati ai lager si presentano sulle coste palestinesi e vengono ricacciate indietro dalle autorità britanniche. Per rappresaglia, il 22 luglio l’Irgun Zwei Leumi, formazione paramilitare sionista, fa saltare in aria un’ala del King David Hotel, sede del quartier generale inglese: 90 morti. Il comandante della spedizione è Menachem Begin, futuro premier d’Israele e premio Nobel per la Pace. Poi finalmente il 2 aprile 1947, Londra annuncia il ritiro dalla Palestina entro due mesi.

L’Onu e i due Stati. Alle Nazioni Unite si inizia a discutere della spartizione della Palestina cisgiordana in due Stati. Anche l’ambasciatore sovietico Andrej Gromyko si dice favorevole. E alla fine i Sì sono 33, contro soli 13 No. Lo Stato ebraico comprenderà il deserto del Negev, la fascia costiera centro-settentrionale e la Galilea orientale: complessivamente il 55% del territorio, dove vivono 500 mila ebrei e 497 mila arabi. Lo Stato arabo avrà il restante 45%, con la parte centrale della Palestina, più la striscia di Gaza e la fascia sottostante tra il Negev e il Sinai, dove risiedono 725 mila arabi e 10 mila ebrei. E Gerusalemme? “Zona internazionale” sotto l’egida dell’Onu. Gli inglesi, prima di andarsene, fanno un ultimo dispetto a Israele, permettendo che il grosso delle loro armi e munizioni passi agli arabi. I quali però, aizzati dagli Stati “amici”, non accettano la risoluzione Onu. Scioperi, devastazioni, incursioni armate, massacri di ebrei. Poi, nei primi mesi del 1948, un “esercito di liberazione arabo” di 5 mila uomini attacca Israele e in pochi giorni isola Gerusalemme, il Negev e la Galilea dai restanti territori ebraici. Ma in aprile gli ebrei riprendono il controllo delle principali città, da cui – in parte spontaneamente e in parte spintaneamente – fuggono in massa le popolazioni arabe.

Battesimo di sangue. Rieccoci a Gerusalemme sotto il sole cocente di quel 14 maggio 1948. Il battesimo di Israele si celebra con una breve e frugale assemblea in una saletta del museo di Tel Aviv. Tutto in pochi minuti: il discorso di Ben Gurion e la firma di una pergamena con la dichiarazione d’indipendenza. Poi tutti in strada per un corteo festoso: in prima fila, al fianco di Ben Gurion, ci sono Golda Meir, Levy Eshkol, Yitzhak Rabin e altri padri fondatori che si alterneranno alla guida del Paese per oltre 40 anni. Piangono, ridono, si abbracciano con la folla in delirio che intona l’Halikyah (“speranza”): l’inno ebraico, più simile a una preghiera che a una marcia. Lo Stato di Israele è nato, anzi è rinato. È l’unica democrazia del Medio Oriente e viene subito riconosciuta, tra gli altri, dall’Urss e dagli Usa. Ma non c’è tempo per festeggiare. È un battesimo di sangue.

Mentre ancora Ben Gurion sta parlando, i sei eserciti della Lega Araba – Egitto, Libano, Siria, Transgiordania, Iraq e Arabia Saudita – muovono all’attacco da ogni punto cardinale per “cancellare dalla faccia della terra il cosiddetto Stato d’Israele”. L’Occidente solidarizza a parole, ma non muove un dito per difendere la risoluzione Onu del 1947. Anche l’Urss condanna l’invasione (la Pravda, da Mosca, parla di “aggressione araba contro Israele” e difende “il diritto degli ebrei a costituirsi un loro Stato indipendente; l’Unità si accoda). Ma lì si ferma. Israele deve imparare subito a combattere da solo, a mani nude. Tante mani, però: l’esodo del dopoguerra dall’Europa ha portato nella terra degli avi oltre 200 mila ebrei, scampati ai lager nazisti e ai pogrom russi, forzando il blocco britannico e aggiungendosi ai 600 mila che già vi risiedevano. Un’iniezione di forze e di intelligenze fresche che fa di Israele il Paese col più alto tasso di laureati, specialisti e tecnici del mondo. La loro competenza, capacità organizzativa e volontà di sopravvivenza diventano l’arma in più del neonato esercito Haganah (Difesa), capitanato da ufficiali giovani e agguerriti. Uno su tutti: il 33enne Moshe Dayan. Gli uomini non mancano.

Scarseggiano però i quadri militari e gli armamenti: soprattutto l’artiglieria (pochissimi cannoni), i mezzi corazzati e l’aeronautica (una trentina di vecchi aerei incollati con lo sputo), perfino le uniformi. Non basta l’esperienza di due corpi speciali che affiancano le truppe regolari: il Lehi e l’Irgun, specializzati in terrorismo e antiterrorismo negli anni del mandato britannico e delle imboscate arabe. Troppo poco, almeno sulla carta, per fronteggiare l’esercito egiziano, la Legione Araba transgiordana guidata dal mitico Glubb Pascià, le quattro divisioni siriane e irachene e un corpo di volontari libanesi e sauditi: 150 mila uomini con 800 cannoni, 120 carri armati, 80 autoblindo e 150 aerei. Davide contro Golia.

La prima guerra. Le prime ore di combattimenti, per Israele, sembrano l’inizio della fine. Le truppe egiziane, da Sud, affondano come il coltello caldo nel burro e raggiungono le porte di Tel Aviv. Gli altri eserciti, da Nord, puntano su Gerusalemme e sul porto petrolifero di Haifa. L’Onu però impone una tregua di sei settimane. E quando gli arabi la violano, ripartendo all’offensiva dopo un mese, non hanno più di fronte l’Armata Brancaleone raccogliticcia e male in arnese dei primi giorni. In quel breve lasso di tempo Israele è riuscito a mettere in piedi un miracolo di esercito e anche a procurarsi qualche arma pesante e qualche aereo in più, mentre migliaia di volontari – ebrei e non – sono sopraggiunti dai campi di battaglia di mezza Europa per dare una mano.

Gli egiziani vengono travolti sul fronte Sud da un blitz ribattezzato col nome biblico “Operazione Dieci Piaghe”. E a Nord gli altri eserciti arabi sono colti di sorpresa. Gli Spitfire israeliani, residuati bellici comprati al mercato dell’usato, sorvolano e bombardano indisturbati Damasco e Amman. E i bazooka con la stella di David distruggono la metà dei carri armati nemici. L’Onu ordina una seconda tregua e nomina mediatore il conte Folke Bernadotte, un diplomatico e filantropo svedese nipote di re Gustavo IV. Mediatore si fa per dire: impone altre due tregue, ma parteggia apertamente per gli arabi. Di lui si occupa la banda Stern, organizzazione paramilitare sionista di estrema destra dove milita il futuro premier Yitzhak Shamir: il conte viene assassinato il 17 settembre a Gerusalemme. La tregua salta e la guerra ricomincia. L’Haganah affronta separatamente gli eserciti arabi e li sbaraglia l’uno dopo l’altro.

La prima guerra arabo-israeliana si conclude alla fine del 1948. Israele non solo ha riconquistato le posizioni di partenza, ma si è ingrandito di oltre un terzo, conquistando Gaza, l’intero Negev e la Galilea occidentale. Il bilancio delle vittime è pesante: 6 mila morti ebrei (di cui 2 mila civili) e 10 mila arabi. Poi c’è l’esodo (in arabo nakba, “catastrofe”) di 711 mila profughi palestinesi musulmani e cristiani che – cacciati dalle proprie case o spinti dagli orrori della guerra – lasciano Israele e si rifugiano in Transgiordania e nella West Bank (la Cisgiordania formata da Gerusalemme Est, Giudea e Samaria). La nakba apre la piaga purulenta e mai sanata dei campi profughi per molti rifugiati e loro discendenti (censiti nel 2015 dall’Onu in 5.149.742, sparsi fra Giordania, Cisgiordania, Gaza, Siria e Libano). Anche perché, nel dicembre del 1948, l’Onu approva la risoluzione 194 che consente “ai rifugiati che lo vogliano di tornare alle proprie case e vivere in pace coi loro vicini” e promette “indennizzi per le proprietà di quanti scelgano di non tornare”, ma a patto che arabi e israeliani siglino un trattato di pace. Cosa che non avverrà mai, o troppo tardi, per il rifiuto degli Stati arabi di riconoscere Israele. In parallelo, 600 mila profughi ebrei abbandonano le loro case nei Paesi arabi e trovano riparo in Israele.

Nel febbraio del 1949, dopo la Conferenza di Rodi, gli arabi sconfitti firmano con Israele, ciascuno per suo conto, degli armistizi che di fatto gli riconoscono la sovranità sui territori assegnati dall’Onu nel 1947, più una piccola parte di quelli appena conquistati: una porzione di Galilea, subito annessa da Israele. Che si ritira dagli altri territori occupati: la striscia di Gaza viene occupata militarmente dall’Egitto e la Cisgiordania e Gerusalemme Est dalla Transgiordania (d’ora in poi Giordania). Così neppure ora i palestinesi e i loro presunti alleati arabi danno vita allo Stato di Palestina. Anzi, rinnegano gli armistizi appena siglati, pronti a tornare all’attacco per cancellare lo Stato ebraico dalla carta geografica, usando i palestinesi nei campi profughi come scudi umani e armi di propaganda.

La crisi di Suez. Nel 1955 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, il generale che tre anni prima ha rovesciato re Farouk, assume il controllo del Canale di Suez scippandolo al Regno Unito. Londra interrompe i rifornimenti di armi e i finanziamenti per la diga di Assuan e Nasser, per tutta risposta, nel 1956 nazionalizza il Canale, lo chiude alle navi commerciali di Israele, si allea con l’Urss e avvia un poderoso piano di riarmo. Francia, Gran Bretagna e Israele intervengono militarmente, con l’appoggio Usa. È la seconda guerra arabo-israeliana. Fra il 29 ottobre e il 5 novembre, l’esercito di Nasser tracolla, mentre le truppe con la stella di Davide dilagano fino a Sharm-el-Sheik al comando di Moshe Dayan, il generale con la benda nera sull’occhio sinistro perduto nella Seconda guerra mondiale. Se a bloccarle non intervenisse l’Onu per ordine americano, arriverebbero al Cairo. Bilancio finale: mille caduti e 6 mila prigionieri egiziani; 180 morti e 4 prigionieri israeliani.

La tensione si placa per dieci anni, ma il fuoco cova sempre sotto la cenere, per la gran voglia di rivalsa dell’Egitto umiliato e per la Guerra fredda tra Usa e Urss, che giocano sullo scacchiere mediorientale una partita tutta loro.

La guerra dei Sei Giorni dura quanto la creazione del mondo e scoppia per una serie incredibile di equivoci. Il 7 aprile 1967 il governo israeliano del pur mite presidente Levi Eshkol (che ha preso il posto di David Ben Gurion) risponde all’ennesimo attacco siriano dalle alture del Golan contro contadini e pescatori dell’Alta Galilea: sei Mig sovietici nuovi di zecca appena arrivati da Mosca a Damasco vengono abbattuti. Così anche la Siria – che ha iniziato a foraggiare al Fatah, l’organizzazione palestinese fondata da Yasser Arafat e protagonista di continui attacchi terroristici contro Israele – ha una gran sete di vendetta. Il 3 maggio re Hussein di Giordania, inviso alla Siria per il suo doppiogiochismo, firma un accordo militare con Nasser, pone il suo esercito (la mitica Legione Araba) sotto il comando egiziano e consente il rientro del capo dell’Olp Ahmed Shukeiri a Gerusalemme Est per riprendere la propaganda di annientamento d’Israele. L’Urss preme su Nasser perché solidarizzi con Damasco, con cui ha siglato nel novembre 1966 un patto di mutua assistenza militare. Nasser non è pronto a un’altra guerra (il meglio del suo esercito è impegnato nello Yemen) e nicchia. Ma Mosca lo imbottisce di fake news su un imminente attacco israeliano alla Siria. Nasser se la beve e si prepara allo scontro con la più classica delle provocazioni. Il 14 maggio, mentre Israele festeggia il 19° compleanno, ammassa truppe nel Sinai. In ossequio all’armistizio, il governo Eshkol evita di far sfilare i carri armati nella parata militare. Ma i sovietici convincono Nasser che è perché i mezzi corazzati israeliani sono già dislocati altrove, contro di lui. Così, in una settimana, le truppe egiziane nel Sinai salgono a 100 mila soldati e quasi mille carri armati. Il 16 maggio l’Egitto chiede e ottiene il ritiro dei caschi blu dell’Onu che, dopo la guerra del 1956, fanno interposizione nel Sinai. Il 22 maggio Nasser annuncia il blocco navale allo stretto di Tiran, sul golfo di Aqaba, dove si affaccia il porto israeliano di Eilath, cruciale per i rifornimenti petroliferi a Tel Aviv. E precisa graziosamente che “la questione per i Paesi arabi non riguarda la chiusura del porto di Eilat, ma il totale annientamento dello Stato di Israele”. Non che voglia la guerra, anzi: le solite fonti diplomatiche farlocche gli assicurano che gli Usa fermeranno Israele. Ma non è vero. Washington, impegnata nella disastrosa guerra del Vietnam, ha altro a cui pensare.

E l’Unione sovietica non vede l’ora che scoppi la guerra, per assestare agli israeliani, dunque agli americani, un colpo mortale dopo il golpe dei colonnelli in Grecia propiziato dalla Cia. Del resto, per lo Stato ebraico, lo strangolamento economico è la goccia che fa traboccare il vaso.

Assediato da assembramenti di truppe ai suoi confini su tre fronti (egiziano, siriano e giordano), minacciato dagli urli di guerra in tutte le capitali arabe, Israele è visto di nuovo dal mondo come Davide contro Golia e riceve un’ondata di solidarietà da tutto l’Occidente, anche e soprattutto a sinistra. In Francia intellettuali come Jean-Paul Sartre firmano un appello pro Tel Aviv. Pietro Nenni, leader del Psi, annota nei suoi diari: “Per primo ha sparato Nasser quando ha chiuso il golfo di Aqaba”. Molti giovani, ebrei e non, si arruolano volontari nei vari consolati israeliani d’Europa per andare a combattere. Il presidente Eshkol vara un governo di unità nazionale, con Menachem Begin (leader del Likud, l’opposizione di destra finora esclusa dagli esecutivi laburisti) ministro senza portafoglio e Dayan alla Guerra. Laburista ma inflessibile, Dayan è il generale-eroe del ’56, noto per il rispetto dei diritti umani anche nella più cruenta delle battaglie: “Il massimo di tortura che un prigioniero deve subire – raccomanda ai suoi uomini – è mangiare il rancio dell’esercito israeliano”. Al solo annuncio del suo ritorno, i soldati di Tsahal s’abbracciano in lacrime. Il piano d’attacco lo mette a punto il capo di Stato maggiore Yitzhak Rabin, futuro premier e Nobel per la pace.

I Sei Giorni. Con un blitz a sorpresa, tipico della “guerra preventiva”, scattato alle ore 7.10 del 5 giugno 1967 e battezzato Operazione Focus, l’aeronautica di Tel Aviv guidata dal generale Motti Hod vola a bassa quota per sfuggire ai radar, raggiunge 13 basi egiziane e annienta quella del Cairo senza lasciare il tempo a uno solo degli aerei di Nasser di levarsi in volo. Un pilota su tre ucciso, 286 aerei da combattimento su 420 polverizzati sulle piste. La stessa sorte, in simultanea, tocca a quelli siriani e giordani. Le truppe della Lega Araba restano decapitate della copertura aerea. Nel Sinai egiziano una divisione corazzata al comando del trentanovenne generale Ariel Sharon occupa la penisola in un batter d’occhio. La battaglia più aspra è quella tra giordani e israeliani per Gerusalemme, finora spaccata in metà. I cecchini di re Hussein, sostenuti da una divisione inviata dall’Iraq, sono nascosti ovunque nei luoghi santi, persino dentro le moschee. Ma Dayan resiste alle pressioni dei falchi e vieta l’attacco frontale e le armi pesanti: “Circonderemo Gerusalemme, se necessario, ma non entreremo. Niente artiglieria né appoggio aereo. Nessun danno ai luoghi santi”. È un soldato, ma anche un archeologo e il secondo prevale sul primo. Il 7 giugno gli israeliani raggiungono il Muro Occidentale (o “del pianto”, ultimo residuo di quello distrutto da Tito nel 70 d. C.): è il momento che il popolo ebraico attende da 2 mila anni e a cui non vuole mancare il vecchio Ben Gurion. Dayan proclama: “Siamo tornati nei nostri luoghi più sacri. E tendiamo la mano ancora oggi ai nostri vicini arabi, con più solennità che mai”. Torna la libertà di culto per tutti, negata agli ebrei nei 19 anni di occupazione giordana e ora suggellata dal generale bendato con una preghiera insieme ai palestinesi nella moschea Al-Aqsa.

Si combatte anche sul fronte siriano, ma molto meno del previsto. Damasco, rimasta finora a guardare, il 9 giugno lancia un debole attacco via terra, subito respinto dall’esercito di Israele, che occupa l’altopiano del Golan. E potrebbe arrivare a Damasco se non fosse fermato da Dayan, nel timore di un intervento sovietico.

Il cessate il fuoco scatta l’11 giugno. Israele ha occupato in sei giorni territori tre volte più grandi di sé (68 mila chilometri quadrati) perdendo 700 uomini; gli arabi, sbaragliati su tutti i fronti, piangono quasi 20 mila caduti. Nasser dà le dimissioni, poi le ritira a furor di popolo. La Giordania deve ripiegare dietro il Giordano e cedere Cisgiordania e Gerusalemme Est; l’Egitto mollare Gaza, il Sinai fino a Suez e Sharm-el-Sheik; la Siria rinunciare a parte del Golan. Territori che Israele non può annettere per non snaturarsi in uno Stato a maggioranza arabo-islamica, e che afferma di voler restituire in cambio della pace. Mentre gli israeliani festeggiano la riconquista di Gerusalemme Vecchia, il mite presidente Eshkol fa stecca nel coro: “Abbiamo ricevuto una buona dote, purtroppo accompagnata da una sposa che non ci piace”. Si è aperto il vaso di Pandora della città santa per le tre religioni monoteiste. E Davide è diventato Golia.

Il 22 novembre 1967 l’Onu adotta la risoluzione 242 per la pace nei territori occupati e il ritorno ai confini pre-guerra. Israele la viola annettendo Gerusalemme Est, e proclamando sua capitale la città santa riunificata. Anche i paesi arabi la infrangono, rifiutando di negoziare la pace con Israele. Egitto e Siria in primis iniziano a fomentare il terrorismo palestinese dentro e soprattutto fuori lo Stato ebraico. Ma senza riuscire a controllarlo, come apprendisti stregoni.

Il Settembre Nero. A farne le spese è l’Egitto, con la polveriera di Gaza, dove sono stipati centinaia di migliaia di palestinesi sempre più inferociti nei campi profughi, a cui il regime di Nasser – come tutti i governi arabi – si guarda bene dal concedere la cittadinanza e il diritto di voto. Ma soprattutto la Giordania. Qui, fra il 1968 e il ’69, le organizzazioni dei fedayìn palestinesi riunite nell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) usano i campi profughi della West Bank come avamposto per attaccare il regime di re Hussein, ritenuto troppo remissivo con Israele. Si comportano come uno Stato nello Stato scorrazzando con rapine, estorsioni, stragi e scontri con le forze armate del Regno, fino a tentare di uccidere o di rovesciare il sovrano.

Il leader più carismatico della galassia di sigle riunite nell’Olp è Yasser Arafat, detto anche Abu Ammar, nato nel 1929 al Cairo anche se dirà sempre di aver visto la luce a Gerusalemme. Il padre è un palestinese di Gaza, la madre di Gerusalemme. Al Cairo, Arafat compie gli studi fino alla laurea in Ingegneria civile. Non va d’accordo col padre, mentre il suo vero mentore è lo zio paterno Haj Amin al-Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme (una delle massime autorità religiose dell’Islam sunnita), animato da un forte antisemitismo e antisionismo al punto da allearsi negli anni 30 e 40 con la Germania nazista di Hitler e l’Italia fascista di Mussolini e da reclutare truppe palestinesi per le SS durante la Seconda guerra mondiale.

Dopo il conflitto, il Muftì si trasferisce al Cairo diventando il padre spirituale di Yasser. Che, dopo la débâcle di Nasser nel ’56, si avvicina ai Fratelli Musulmani. A Gaza non può stare perché i fedayìn ne sono banditi, così va a lavorare in Kuwait. E lì, alla fine degli anni 50, fonda con un gruppo di rifugiati palestinesi il gruppo Al Fatah (acronimo arabo di Movimento di Liberazione Nazionale Palestinese), che si propone la lotta armata per liberare tutta la Transgiordania e distruggere Israele, ma da posizioni più autonome dagli Stati arabi rispetto alle altre formazioni dell’Olp. Nel 1969 diventa il portavoce dell’Olp e si installa in Cisgiordania sotto l’occupazione di Amman.

Quando, fra il 6 e il 9 settembre 1970, i guerriglieri dell’Olp dirottano e fanno esplodere quattro aerei nell’aeroporto di Zarqa, re Hussein scatena una ferocissima repressione militare contro guerriglieri e civili, sterminandone fra i 3 e i 5 mila. È il Settembre Nero: la più grande strage di palestinesi della storia è opera di un regime arabo. Seguono mesi di guerra fratricida in tutto il Regno, con decine di migliaia di morti. Alla fine il regime di Hussein riprende il controllo del Paese ed espelle l’Olp in Libano. Un gruppo di terroristi palestinesi si stacca da al Fatah per fondare Settembre Nero, un gruppo estremista che nel 1972 sequestra e stermina undici atleti olimpici israeliani a Monaco di Baviera.

Lo Yom Kippur. Il 6 ottobre 1973 Israele celebra la festività più sacra del calendario ebraico, lo Yom Kippur. Gli eserciti di Egitto e Siria, col supporto di unità inviate da Giordania, Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Marocco, Libia e Algeria, lo colgono di sorpresa con un attacco concentrico. Otto giorni di resistenza e terrore per lo Stato ebraico, che rischia un’altra volta di scomparire. Poi l’esercito si riorganizza a tempo di record e sferra una micidiale controffensiva, riesce a scavalcare le linee egiziane e ad accerchiare la III Armata di Anwar el Sadat, il successore di Nasser. Un apporto decisivo lo dà quel cavallo pazzo di Sharon, che dopo la guerra del 1967 ha lasciato l’esercito in polemica con l’arcirivale Dayan ed è stato appena eletto deputato del Likud. Ma ora, dopo lo choc, la premier Golda Meir e il ministro Dayan lo richiamano in servizio. Lui miete successi nel Sinai, ma con le sue insubordinazioni si scontra con i vertici militari che chiedono a Dayan di destituirlo, stavolta invano. È lui, con un’azione temeraria, ad attraversare il Canale di Suez e a fissare la testa di ponte sulla riva occidentale da cui altre unità israeliane partono per aggirare a sud le truppe egiziane. Poi marcia dritto verso il Cairo, ma l’11 novembre, quando è alla periferia di Ismailia, a 115 km. dalla capitale egiziana (e mentre Tsahal a Nord è a 30 km da Damasco), viene fermato da Tel Aviv su pressione degli alleati occidentali. Gli arabi, sconfitti un’altra volta, accettano il cessate il fuoco. Sharon lascia definitivamente la divisa, in polemica col governo Meir che preferisce negoziare anziché stravincere. La conferenza di pace di Ginevra, sotto l’egida dell’Onu, tenta di far applicare la risoluzione 338 (che a sua volta richiama al rispetto della 242), ma fallisce per il solito rifiuto dei Paesi arabi a negoziare con Israele. Che nel 1974 accetta unilateralmente la richiesta del segretario di Stato Usa Henry Kissinger di ritirarsi dai territori egiziani e siriani appena occupati. Intanto l’Onu attribuisce all’Olp lo status di rappresentante del popolo palestinese, mentre il suo leader ribadisce il proposito di cancellare Israele dalla faccia della terra.

Camp David. Nel novembre del 1977, invitato dal premier israeliano Begin, il presidente egiziano Sadat rompe 30 anni di ostilità e visita Gerusalemme. Poi riconosce il diritto di Israele esistere e inizia a negoziare la pace. Che viene firmata il 26 marzo 1979 nello storico vertice di Camp David sotto gli occhi del presidente Usa Jimmy Carter. Israele restituisce il Sinai all’Egitto, che però non rivuole Gaza, divenuta con i suoi campi profughi invivibili una terribile incubatrice di odio, estremismo e anche terrorismo. La striscia-polveriera rimane dunque sotto occupazione israeliana.

Nuovo fronte: il Libano. Nel 1976 la Siria invade il Libano, dilaniato da anni di guerra civile fra le milizie delle varie tribù islamiche (proprio nel 1982 nasce Hezbollah, il “partito di Dio” foraggiato da Teheran) e quelle cristiano-maronite, ciascuna aizzata da Usa, Urss, Israele, Iran, Siria, Arabia Saudita ed Emirati del Golfo, con l’aggiunta della presenza destabilizzante delle varie sigle dell’Olp cacciate nel ’70 dalla Giordania. Dopo i giordani, anche i siriani fanno a pezzi i palestinesi. Nel 1981 l’Olp di Arafat&C. attacca il Nord di Israele dal Sud del Libano e si scontra con i cristiano-maroniti alleati di Tel Aviv. Il governo Begin risponde nel 1982 invadendo il Paese dei Cedri. L’operazione è diretta dal ministro della Difesa Sharon. Il quale non muove un dito quando le milizie falangiste maronite entrano nei campi profughi di Sabra e Chatila facendo strage di palestinesi, senza distinguere fra miliziani dell’Olp e civili inermi, per vendicare l’assassinio del presidente cristiano Amin Gemayel (reo di avere firmato un accordo di pace con Israele). Un’inchiesta imposta dalla Corte Suprema israeliana incolpa i comandanti militari locali e il capo di Stato maggiore dell’esercito. Sharon, pur scagionato da responsabilità dirette negli eccidi, lascia il ministero della Difesa. Alla fine, ritirandosi dal Libano, Israele manterrà (fino al 2000) una “fascia di sicurezza” di 10 miglia lungo il confine, affidata agli alleati maroniti.

Vincere senza reagire. La guerra libanese del 1982 e l’indagine su Sabra e Chatila lasciano Israele sotto choc per un bel pezzo. I nemici, anziché indebolirsi, si rafforzano e si moltiplicano. Soprattutto l’Iran dell’ayatollah Khomeini, che nel ’79 ha spodestato lo Scià, prepara la bomba atomica (Tel Aviv ha bombardato il suo reattore nucleare di Osiraq nell’Operazione Babilonia del 1981) e patrocina Hezbollah, il “partito di Dio” che riunisce un milione di sciiti nel Sud del Libano, ma è presente anche in Siria e nel Golan occupato da Israele. E martella con missili e razzi i kibbutz dell’Alta Galilea. Ogni guerra fomenta nuovo terrorismo, anziché spegnerlo. E dal 1981 è venuto a mancare un argine fondamentale all’estremismo: il presidente egiziano Sadat, assassinato da un killer della Jihad per punirlo della pace con Israele e rimpiazzato dal vice Hosni Mubarak. Neppure i palestinesi se la passano bene, sempre più ostaggi di Israele nei Territori, ma anche stritolati dai finti amici arabi che li usano per giocare ciascuno la propria partita. Arafat e gli altri capi dell’Olp, espulsi nel 1971 dalla Giordania dopo averla incendiata, vengono cacciati anche dal Libano e traslocano in Tunisia, con strascichi di polemiche interne per i troppi lussi.

La spaccatura nell’opinione pubblica israeliana si fa sentire alle elezioni del 1984: il Likud di Yitzhak Shamir, subentrato nell’83 a Begin, perde la maggioranza. Nasce un governo di unità nazionale guidato dal laburista Shimon Peres. Nel 1985 l’Olp di Arafat dimostra un’altra volta tutta la sua ambiguità: il gruppo Fplp del filosiriano Abu Abbas dirotta e sequestra in acque egiziane la nave da crociera italiana Achille Lauro. Arafat fa il doppio gioco: si dichiara estraneo al gesto, ma poi media col premier Bettino Craxi e il ministro degli Esteri Giulio Andreotti per la liberazione degli ostaggi. Però si scopre che i feddayin hanno trucidato a sangue freddo un anziano ebreo americano paraplegico, Leon Klinghoffer, gettandone il corpo e la carrozzella in mare. Il presidente Usa Ronald Reagan sospetta che Craxi voglia sottrarre i terroristi alla giustizia, fa dirottare l’aereo che li trasporta e lo costringe ad atterrare nella base Nato di Sigonella, per portarli in America e processarli. Craxi si scontra violentemente con lui e schiera i carabinieri sulla pista, bloccando il blitz dei marines. Poi però, dopo aver giurato che l’intero commando sarà giudicato in Italia, lascia fuggire Abu Abbas su un aereo jugoslavo a Belgrado, ospite del maresciallo Tito, da dove il capo del Fplp raggiungerà lo Yemen e poi l’Iraq di Saddam Hussein. Le truppe di invasione americane lo scoveranno nel 2003 in una villetta appena fuori Baghdad e lo uccideranno.

L’Intifada. Nel 1987, ventennale dell’occupazione di Gaza e Cisgiordania, i palestinesi si rivoltano in massa contro Israele: è l’Intifada (“sollevazione”). Durerà sei anni, fra proteste, scioperi, boicottaggi, violenze e repressioni. Alla fine i morti palestinesi saranno circa 2 mila e gli israeliani 160. Le immagini dei ragazzini armati di fionde che lanciano sassi contro i soldati fanno il giro del mondo, campeggiano a lungo sui notiziari e sono un altro duro colpo per Israele, sempre meno Davide e sempre più Golia. Ma l’aspetto più mediatico dell’Intifada nasconde quello più truculento: il ruolo del neonato Hamas (acronimo di Movimento Islamico di resistenza), un’organizzazione politico-militare palestinese sunnita e fondamentalista filiata dai Fratelli musulmani egiziani, installata soprattutto a Gaza e finanziata dai regimi sunniti. Hamas ha un volto pubblico, che gestisce programmi sociali portando nella Striscia ospedali, scuole e biblioteche, si propone di distruggere Israele e tornare alla Palestina pre-1947 e polemizza con i vertici corrotti dell’Olp. Ma anche uno clandestino: l’ala militare delle Brigate al-Qassam, che organizzano e rivendicano attentati kamikaze contro obiettivi civili israeliani. Gli Scud di Saddam. Nel 1988 Arafat dichiara di rinunciare al terrorismo e nel 1989 crolla il Muro di Berlino. La dissoluzione dell’Urss sembra portare un po’ di calma anche in Medio Oriente, ma è solo il preludio a una nuova tempesta. Il 2 agosto 1990 l’Iraq di Saddam invade e annette il Kuwait, minacciando l’Arabia Saudita. Il 17 gennaio 1991 la coalizione fra gli Usa di George Bush e altri 34 Paesi, inclusi gran parte di quelli arabi, ottiene l’avallo dell’Onu e scatena l’operazione “Desert Storm”, che in poco tempo caccerà l’Iraq dal Kuwait senza però rovesciare Saddam. La sera dell’attacco, Tel Aviv e Haifa vengono colpite da missili Scud iracheni: otto il primo giorno e 33 nelle cinque settimane successive, quasi sempre di notte. Israele, che non fa parte della coalizione, ripiomba nell’incubo: è dal 1948 che le sue città non venivano bombardate. I cittadini vivono per due mesi barricati nelle case o nei bunker, con le maschere antigas e le finestre sigillate col nastro adesivo, mentre l’esercito distribuisce fiale di atropina, nel timore – per fortuna infondato – che qualche testata sia caricata con agenti biologici o chimici, tipo Sarin e gas nervino. Arafat, in barba alla rinuncia al terrorismo, si schiera con Saddam: invita “musulmani e arabi a opporsi alla guerra americana e sionista contro un Paese fratello”, esalta “l’epica determinazione del popolo iracheno sotto il comando del mio fratello Saddam”, sostiene che l’uso del napalm da parte degli Usa dà all’Iraq “le ragioni e il diritto di usare armi chimiche” contro Israele. Ma il suo appello cade nel vuoto, a parte i giovani palestinesi dei Territori che esultano sui tetti a ogni suono di sirena e schianto di missile. Il bilancio delle vittime sarà molto più contenuto dello choc emotivo: due israeliani morti per gli Scud, qualche decina per infarto, migliaia di feriti e di senzatetto. E una vittoria ottenuta senza muovere un dito: una lezione che vale anche oggi.

Shamir vince, Arafat no. Al governo, dal 1986, c’è di nuovo il Likud di Yitzhak Shamir, che sotto la pioggia di Scud dà una formidabile prova di sangue freddo e lungimiranza: per la prima volta nella sua storia, Israele non risponde a un attacco nemico. Bush parla con Shamir e lo convince a soprassedere al blitz già pronto contro l’Iraq. In cambio, installa subito in Israele batterie anti-missile Patriot e dalle portaerei nel Golfo bombarda le rampe di lancio irachene. È chiaro che Saddam tenta di nobilitare con la causa palestinese la sua bieca mossa imperialista in Kuwait, trascinare in guerra Israele e spaccare la coalizione arabo- occidentale. Missione fallita.

A fare le spese della doppiezza di Arafat, che ancora una volta ha puntato sul cavallo sbagliato, è il suo popolo: appena liberato dagli invasori, il Kuwait espelle il mezzo milione di palestinesi che lì vivevano e lavoravano (il 30% della popolazione). Intanto le monarchie e gli emirati d’Arabia tagliano i fondi all’Olp. Il vecchio leader è a un bivio: o sparigliare i giochi e trattare la pace, o sparire. E sceglie la prima strada. Anche perché, dopo sei anni di Likud, nel 1992 in Israele tornano i laburisti: Rabin premier e ministro della Difesa, Peres ministro degli Esteri.

Miracolo a Oslo. Il 13 settembre 1993, dopo un anno di trattative top secret, mediate in parte dalle amministrazioni americane di Bush padre e di Bill Clinton (che s’è insediato alla Casa Bianca in gennaio) e in parte dall’Ue con l’avallo della Russia di Boris Eltsin, Rabin e Arafat firmano a Oslo uno storico accordo di pace. L’Olp rinuncia formalmente alla lotta armata e riconosce a Israele il diritto di esistere; Israele riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese, con il diritto di governare su una buona porzione dei territori occupati nel 1967. Nella Dichiarazione di principio su un’autonomia palestinese transitoria di cinque anni siglata dai due leader, Israele si impegna a ritirarsi entro il 1998 da gran parte della striscia di Gaza e Cisgiordania e di affidarle a una Autorità nazionale palestinese (Anp). La Cisgiordania sarà divisa in tre zone: la A sotto il pieno controllo dell’Anp, la B cogestita da palestinesi (per gli aspetti civili) e israeliani (per la sicurezza), la C (la più folta di insediamenti ebraici) ancora sotto Israele. Alcuni dei nodi più intricati – Gerusalemme, i rifugiati palestinesi e le colonie israeliane – sono rinviati a un nuovo negoziato. Rabin e Arafat vengono ricevuti sul prato della Casa Bianca da Clinton e dall’altro garante dell’accordo: il ministro degli Esteri russo Andrei Kozyrev. Un anno dopo vengono insigniti, insieme a Peres, del premio Nobel per la Pace.

L’effetto-Oslo, oltre alla fine dell’Intifada, produce il secondo accordo arabo-israeliano fra Stati dopo quello di Camp David del 1978 fra Israele ed Egitto. Nel 1994 anche la Giordania fa pace con Tel Aviv, dopo una storica stretta di mano fra re Hussein e Rabin alla Casa Bianca. Nascono l’Autorità nazionale palestinese e la sua polizia nei Territori. Israele lascia subito una parte di Gaza e si ritira dall’enclave di Gerico, anche se non allenta la morsa sui lavoratori palestinesi della West Bank e di Gaza, sigillate anche per chi va a lavorare nello Stato ebraico. La Lega Araba, dopo 46 anni, toglie l’embargo a Israele e ai Paesi che vi fanno affari. Sembra scoccata l’ora della pace. Ma è solo un’altra quiete prima dell’ennesima tempesta.

10 anni di stop&go. I sogni muoiono all’alba, ma anche la sera. Tel Aviv, piazza dei Re d’Israele, 4 novembre 1995, ore 21.30. Il premier Yitzhak Rabin termina il suo discorso a una manifestazione di sostegno agli accordi di Oslo che dilaniano il Paese: “Vorrei ringraziare ognuno di voi che è venuto qui oggi a manifestare per la pace e contro la violenza. Questo governo, che ho il privilegio di presiedere con il mio amico Shimon Peres, ha scelto di dare una possibilità alla pace, una pace che risolverà la maggior parte dei problemi di Israele… La via della pace è preferibile alla via della guerra. Ve lo dice uno che è stato un militare per 27 anni”. Poi scende dal palco e, mentre sta per raggiungere l’auto blindata della scorta, uno studente israeliano di estrema destra, Yigal Amir, gli spara due colpi di pistola. Rabin muore poco dopo in ospedale: ucciso, come Sadat 14 anni prima da un fanatico jihadista, per avere firmato la pace proibita. Ai suoi funerali a Gerusalemme, insieme a un milione di israeliani e a molti capi di Stato e di governo da tutto il mondo, partecipano diversi leader arabi che non hanno mai messo piede in Israele.

La prima volta di Bibi. A Rabin succede Peres, ma dura pochi mesi. Le elezioni del 1996 le vince il nuovo leader del Likud, il 47enne Benjamin Netanyahu detto “Bibi”, che diventa il primo premier israeliano nato nello Stato ebraico. Militare, politico, uomo d’affari e di malaffari, vissuto per anni negli Usa, in campagna elettorale Bibi ha vellicato la pancia e le viscere degli ebrei più diffidenti sul percorso di pace, promettendo agli elettori di fare a pezzi gli accordi di Oslo. Mette in piedi il governo più a destra della storia di Israele, alleandosi con gli ultranazionalisti e i partiti religiosi. E inizia a demolire tutto ciò che non solo Rabin e Peres, ma anche i padri del suo partito Begin e Shamir, hanno costruito negli ultimi 18 anni da Camp David in poi. La nascita del suo governo è il “tana liberi tutti” per il ritorno all’odio e alla violenza. Gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza, frenati da Rabin, riprendono a spron battuto. Intanto Arafat è stato eletto presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Netanyahu, pur ritirando l’esercito dai territori occupati come previsto dagli accordi di Oslo, li sabota nei fatti con continue provocazioni. E così, come già aveva fatto Rabin prima di Oslo, rafforza consapevolmente Hamas, suo vero alleato occulto all’insegna del “tanto peggio tanto meglio”, che moltiplica gli attentati suicidi contro i civili israeliani. Clinton si danna l’anima per ricucire la tela e sembra farcela: Bibi, complice il suo primo scandalo di corruzione, vede sfarinarsi la sua coalizione di governo: nel 1999 perde le elezioni anticipate e lascia la politica per dedicarsi ai suoi affari.

Barak, l’occasione mancata. Il nuovo premier è il generale ed economista laburista Ehud Barak, ritira subito Israele dalla “fascia di sicurezza” nel Libano del Sud e riprende i negoziati con l’Olp. È convinto che perpetuare l’occupazione dei Territori “condurrà inevitabilmente o a uno Stato non-democratico o ad uno Stato non-ebraico. Infatti, se i palestinesi voteranno, saremo uno Stato binazionale; se non voteranno, saremo uno Stato segregazionista”. E nel 2000, a Camp David, sotto lo sguardo di Clinton, offre ad Arafat una soluzione tutt’altro che perfetta, ma la più vantaggiosa mai proposta da Israele dal 1967: uno Stato palestinese nel 73% della Cisgiordania (che entro 25 anni salirebbe al 90% e intanto verrebbe integrato da una porzione di Negev) e nel 100% della striscia di Gaza, con Gerusalemme Est capitale, il ritorno di un certo numero di profughi e un indennizzo per quelli restanti. Arafat rifiuta senza neppure avanzare una controproposta, fa fallire il summit e imbocca il viale del crepuscolo. Anche il governo Barak, rimasto col cerino in mano, entra in crisi. E il Likud torna a spopolare, non più con Netanyahu, ma con Sharon.

L’eroe del Kippur, azzoppato dalla guerra libanese e dall’inchiesta su Sabra e Chatila (nel 1983 la Corte Suprema israeliana ne aveva ordinato la rimozione da ministro della Difesa), si rilancia con uno dei suoi temerari gesti dannunziani. Il 28 settembre 2000 passeggia platealmente e provocatoriamente sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, con un migliaio di militari di scorta, per proclamare anche la città orientale “eternamente israeliana”. Le furibonde proteste palestinesi sfociano nella seconda Intifada, molto più cruenta della prima, sia per la sempre più massiccia presenza di Hamas con i suoi attentati ormai fuori dal controllo dell’Anp, sia per la durezza della repressione israeliana. Durerà fino al 2005, mietendo oltre 4 mila vittime palestinesi e mille israeliane.

Muore Arafat, risorge Sharon. Nel 2001 l’Onu torna protagonista sullo scacchiere mediorientale dopo decenni di latitanza per la Guerra fredda: il segretario generale Kofi Annan convince gli Usa di George W. Bush, la Russia di Putin e l’Unione europea a dare vita insieme con lui a un “Quartetto per il Medio Oriente” per riannodare il filo spezzato di Oslo. Nello stesso anno Israele torna alle urne e vince Sharon. Il suo primo atto è chiudere ogni rapporto con l’ormai inutile e screditato Arafat, confinato e assediato nel suo quartier generale di Ramallah. Il secondo è una raffica di bombardamenti su Gaza e Cisgiordania, con almeno tremila case distrutte, oltre al porto della Striscia. Nel 2004 un missile israeliano uccide lo sceicco Ahmed Yassin, cofondatore e capo spirituale di Hamas, mentre esce da una moschea a Gaza. Israele inizia a costruire un muro divisorio dai Territori: ufficialmente serve a fermare gli attentati kamikaze, che si assottigliano drasticamente; nei fatti complica vieppiù la vita già infame dei palestinesi. Sembrano tutte mosse per seppellire gli accordi di Oslo, ma ciò che accade di lì in poi dimostra che c’è dell’altro.

Arafat è ormai isolato anche fra i suoi, dopo tanti errori politici e sospetti di corruzione. Il suo ultimo atto è licenziare il suo stesso premier Abu Mazen. Poi entra in coma e l’11 novembre muore. Di cosa, nessuno lo saprà mai, perché sul corpo non viene effettuata alcuna autopsia prima della sepoltura a Ramallah. Qualcuno parlerà di Aids, chi di altre cause naturali, chi di avvelenamento da polonio. Sepolto il vecchio Yasser, sparita la sua corte, si rafforza una nuova classe dirigente palestinese in grado di trattare con Israele attorno ad Abu Mazen, confermato dalle elezioni come premier dell’Anp. Addio a Gaza. Nell’estate del 2005 Sharon fa la mossa del cavallo: ritira unilateralmente l’esercito da Gaza. Il 12 settembre l’ultimo soldato di Tsahal lascia la Striscia, che passa sotto il pieno controllo dell’Anp. Israele però vigila a distanza via terra, cielo e mare. Il momento più drammatico del “disimpegno” è la rimozione forzata degli 8.500 coloni ebraici, che non vogliono saperne di sloggiare da Gaza e vengono sgomberati con le maniere spicce dai loro 21 insediamenti. Altri sgomberi di coloni Sharon li ordina dal Nord della Cisgiordania, scatenando altre proteste e scontri con l’esercito. Che succede nella testa del superfalco? Si è rammollito? No, sta soltanto seguendo il percorso di altri “duri”, come Begin, Shamir e Rabin: la Storia chiama anche lui a guardare oltre se stesso, a elevarsi da politicante a statista. E lui, a 77 anni, risponde. Il suo discorso alla nazione del 15 agosto 2005 dice tutto: “Israeliani, il giorno è giunto. Diamo ora inizio alla fase più difficile e dolorosa: l’evacuazione delle nostre comunità dalla Striscia di Gaza e dal nord della Samaria. Per me è un momento particolarmente difficile… Come tanti altri, credevo e speravo che Netzarim e Kfar Darom rimanessero nostri per sempre, ma l’evolversi della realtà in questo Paese, in questa regione e nel mondo ha richiesto una rivalutazione e un cambiamento di posizione. Gaza non poteva rimanere nostra per sempre: ci abitano oltre un milione di palestinesi, un numero che raddoppia a ogni generazione. Vivono in campi profughi affollati all’inverosimile, immersi nella povertà e nello squallore, in focolai di odio crescente, senza nessuna sorta di speranza all’orizzonte. Questa decisione costituisce un segno di forza, e non di debolezza… Adesso l’onere della prova ricade sui palestinesi: dovranno combattere le organizzazioni terroristiche, smantellarne le strutture e dimostrare di ricercare sinceramente la pace per potersi sedere accanto a noi al tavolo dei negoziati. Il mondo aspetta la reazione dei palestinesi, aspetta di vedere se tenderanno la mano in segno di pace o continueranno il fuoco terroristico. A una mano tesa in segno di pace risponderemo con un ramo di ulivo; ma se sceglieranno il fuoco, noi risponderemo con il fuoco, con più forza che mai”.

La strana coppia. Ormai, nel Likud, Sharon è guardato con sospetto, come una specie di traditore. Il redivivo Netanyahu, tornato alla politica come ministro delle Finanze, lascia il governo in polemica col ritiro da Gaza. Ariel taglia corto: il 21 novembre pianta in asso il suo partito e ne fonda uno nuovo di centro liberale, Kadima (“Avanti”), a cui aderisce subito l’avversario di sempre, Shimon Peres, che molla i laburisti. I due grandi vecchi, il simbolo del pugno di ferro e quello del guanto di velluto, gli ultimi statisti nati prima di Israele si danno la mano per accompagnarlo nella traversata del deserto più difficile: quella verso il futuro. Ma la nuova speranza durerà meno di un mese.

Un ictus cambia la storia. Il 18 dicembre 2005, quattro mesi dopo il ritiro da Gaza e un mese dopo la fondazione del partito Kadima, Sharon è colpito da ictus. Viene dimesso dall’ospedale due giorni dopo, ma il 4 gennaio 2006 una grave emorragia cerebrale lo mette definitivamente ko. A marzo, mentre è in coma, il suo vice Ehud Olmert vince le elezioni e diventa premier ad interim in attesa del suo risveglio. Che non arriverà mai: il suo cuore smetterà di battere otto anni dopo, nel 2014, quando il successore Netanyahu avrà riportato Israele indietro anni luce, vanificando gli sforzi degli ultimi statisti. Hamas vince le elezioni. Il 25 gennaio 2006, mentre Sharon lotta fra la vita e la morte in ospedale, i palestinesi di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est vanno alle urne per eleggere il loro Parlamento, il Consiglio legislativo dell’Autorità nazionale (Anp). Il presidente Abu Mazen, con mossa lungimirante, ha convinto Hamas a partecipare al voto con suoi candidati, in cambio della fine degli attacchi e degli attentati a Israele. Sharon s’è opposto all’idea, ma il Quartetto per il Medio Oriente Onu-Usa-Ue-Russia l’ha incoraggiata. E Hamas ha accettato di formare una sua lista, ha smesso di predicare la distruzione di Israele e ha accettato, almeno a parole, l’ottica di Oslo: “due popoli, due Stati”. Dalle urne esce un risultato a sorpresa: vince Hamas, battendo al Fatah di Abu Mazen col 44% contro il 41. E va al governo: un po’ grazie all’apparente svolta moderata, un po’ per la disciplina e la sobrietà dei suoi leader opposta alle spaccature e alla corruzione di al Fatah. Il 30 gennaio il Quartetto si congratula col popolo palestinese per come ha partecipato alle elezioni, ma subito dopo si attiva per isolare il nuovo governo democraticamente eletto. Usa e Ue intimano ad al Fatah di non entrare nel governo di coalizione proposto Hamas e bloccano gli aiuti (e financo i rapporti bancari) non ad Hamas, ma all’Anp. Il boicottaggio crea gravi danni alla sanità, all’istruzione e all’occupazione nei Territori, prima incoraggiati a votare e poi puniti per aver scelto il partito sbagliato. È un altro regalo dell’Occidente ad Hamas che, forte dei finanziamenti dal Qatar e dalle monarchie sunnite, si accredita sempre più come unico baluardo del popolo alla fame. D’ora in poi Abu Mazen non indirà più elezioni per evitare di riperderle. E si condannerà a un crescente discredito agli occhi dei suoi. Ancora fuoco. Il risultato è il ritorno dell’estremismo e della violenza. A giugno Hamas rapisce il soldato israeliano Ghilad Shalit (sarà liberato solo cinque anni dopo, in cambio del rilascio di 1.027 detenuti palestinesi) e Israele ne approfitta per scatenare nella striscia le operazioni Pioggia d’Estate e Nuvole d’Autunno.

Intanto il governo Olmert lancia un’altra offensiva nel Sud del Libano contro Hezbollah che bombarda la Galilea: 1100 morti in un mese.

Nel 2007 esplode una sanguinosa guerra civile fra palestinesi. Le milizie di Hamas cacciano con la forza al Fatah da Gaza e ne assumono il controllo, mentre in Cisgiordania al Fatah uccide o rimpiazza molti deputati di Hamas, messa fuori legge da Abu Mazen. Con tanti saluti alle elezioni democratiche, al Fatah torna al potere in Cisgiordania con l’appoggio di Usa e Ue. Israele e l’Egitto mettono Gaza sotto embargo, peggiorando vieppiù la vita della popolazione (oltre la metà è disoccupata). E la Striscia diventa la rampa di lancio per razzi e missili di Hamas contro Israele. Che nel 2008 riparte all’assalto di Gaza con le operazioni Inverno Caldo e Piombo Fuso (1.200 morti).

Il ritorno di Bibi. Il governo dello sbiadito Olmert, azzoppato da un processo per finanziamenti illeciti e dal flop della campagna libanese, cade nel 2009. Le elezioni le rivince Kadima con la nuova leader Tzipi Livni, ma non ha i numeri per governare. Ce la fa Netanyahu, grazie a un accordo col capo dell’estrema destra Avigdor Lieberman. È il suo secondo governo, a cui ne seguiranno altri cinque: Bibi batte il record di Ben Gurion come premier più longevo della storia d’Israele con 13 anni di potere ininterrotto, dal 2009 al 2023, tranne la parentesi dei governi Bennett e Lapid (giugno 2021-dicembre 2022). Nel 2010 Obama riavvia negoziati a distanza fra Netanyahu e Abu Mazen, che però si interrompono quando Bibi riprende a spron battuto la colonizzazione della Cisgiordania. Straccia gli accordi di Oslo. E torna a colpire Gaza nel 2012 con l’operazione Colonna di Nuvola e nel 2014 con Margine di Protezione (2.200 palestinesi e 71 israeliani uccisi). Nel 2015 riesce a dichiarare al Congresso sionista mondiale che “Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli”, poi però fu traviato dal Muftì di Gerusalemme (lo zio di Arafat). Ma la maggioranza degli elettori continua a votarlo. Anche quando dopo che va a giudizio in tre processi per corruzione, frode e abuso d’ufficio. E persino quando inizia a foraggiare Hamas contro l’Anp di Abu Mazen.

L’amico di Hamas. Nel 2018 accetta che il Qatar trasferisca milioni di dollari all’anno al governo di Hamas a Gaza. In una riunione del Likud ammette che “chiunque vuole ostacolare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas. Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi di Giudea e Samaria” (anche con il famoso muro divisorio ampliato con una barriera sotterranea). Concetto ribadito persino davanti alla polizia che lo interroga in uno dei suoi processi: “Abbiamo dei vicini che sono nostri acerrimi nemici… Io mando loro messaggi in continuazione, li inganno, li destabilizzo, li prendo in giro e li colpisco in testa… Noi controlliamo l’altezza delle fiamme”. S’illude, da apprendista stregone, di pilotare le fiamme di Hamas per bruciare Abu Mazen. Così come pensa di rimuovere il bubbone palestinese senza curarlo, ma ignorandolo in attesa che scompaia da solo. Il refrain è lo stesso di Zelensky: “Non si tratta con il nemico”. Infatti il 13 agosto 2020 firma gli Accordi di Abramo con gli Usa di Trump, gli Emirati Arabi e il Bahrein, in attesa di farlo con l’Arabia Saudita. Il tutto sulla testa e sulla pelle dei palestinesi: l’ideona prevede l’annessione del 30% della Cisgiordania.

Ma i dati demografici sono impietosi: Israele ha 10 milioni di abitanti, di cui 7,5 ebrei, 2 palestinesi e 500 mila di altre etnie (tutti cittadini con diritto di voto); in Cisgiordania i palestinesi sono 3,5 milioni e a Gaza 2,4. Traduzione: i palestinesi sono ormai più degli ebrei e fanno più figli. Un’annessione della Cisgiordania consegnerebbe loro la maggioranza parlamentare e addio Stato ebraico. Sharon l’aveva capito nel 2005. Netanyahu neppure ora: nasconde la vecchia polvere sotto il tappeto e ne accumula di nuova. Nove mesi di proteste. Nel 2022, per tornare al potere, arriva ad allearsi con Potere Ebraico del fanatico suprematista Itamar Ben-Gvir: condannato per istigazione al razzismo contro i palestinesi, varie volte incriminato, celebre per aver minacciato pubblicamente Rabin due settimane prima del suo assassinio, Ben-Gvir diventa ministro della Sicurezza nazionale. Il duo inizia a picconare la democrazia israeliana con due controriforme che demoliscono la divisione dei poteri: quella della giustizia espropria la Corte Suprema del potere di cassare le decisioni “irragionevoli” del governo (come ha appena fatto bloccando la nomina a ministro di un pregiudicato per corruzione e frode fiscale e come potrebbe rifare se Netanyahu fosse condannato); e quella dell’ordine pubblico crea una polizia speciale, la Guardia Nazionale per Israele, alle dipendenze di Ben-Gvir. Due vergogne che spaccano il Paese: 40 settimane di proteste con migliaia di persone in piazza, inclusi militari e riservisti.

Netanyahu frattanto continua a finanziare nuovi insediamenti in Cisgiordania: nel 1993, l’anno di Oslo, i coloni erano 110 mila, ora sono circa 500 mila (più 220 mila a Gerusalemme Est). Occupando ben 157 kmq di Territori, sono invisi ai palestinesi invasi ed espropriati di terre e falde acquifere. E costringono Israele a sforzi immani per proteggerli: 500 posti di blocco e gran parte dell’esercito ridotto a loro scorta armata.

L’ultima mattanza. Infatti è lì, sul fronte Nord cisgiordano e libanese, che il 7 ottobre 2023 stazionano 26 battaglioni, lasciando senza bussola i servizi segreti (un tempo i migliori del mondo) e sguarnito il fronte Sud di Gaza, presidiato da appena due compagnie di reclute e dalla polizia locale. E proprio sul fronte Sud alle 6.30 del 7 ottobre 2023, all’indomani del cinquantennale della guerra del Kippur, mentre Israele festeggia il Simchat Torah (“Gioia della Torah”), Hamas sferra l’operazione Alluvione Al-Aqsa: 2.500 terroristi s’infiltrano da Gaza in Israele su autocarri, camioncini, moto, persino deltaplani e colpiscono vari kibbutz e un rave party. Lo Stato ebraico viene colto totalmente impreparato, malgrado gli allerta dei servizi egiziani e americani su un pericolo imminente. È una mattanza, la più grave strage di civili subìta da Israele: circa 1.400 uccisi in un giorno, compresi molti bambini e donne, e oltre 200 ostaggi. Netanyahu, giunto ormai al capolinea, tenta di ricompattare il Paese che lui stesso ha spaccato con un governo di unità nazionale. E scatena su Gaza l’operazione Spade di Ferro: 3.500 palestinesi morti, di cui mille bambini, in undici giorni. Si avvera la profezia di Gandhi: “Occhio per occhio e il mondo diventa cieco”.

(Fonte: articoli de Il Fatto Quotidiano acquisiti dal web)

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Monte Pellegrino visto dalla borgata di Acqua dei Corsari

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