"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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mercoledì 16 maggio 2018

Reddito di cittadinanza, un libro per parlarne sul serio


Lo confesso: sul reddito di cittadinanza ho cambiato idea. Sono sempre stato scettico sull’ipotesi di un sussidio universale per tutti i bisognosi, soprattutto in un Paese dove i furbi godono già di mille vantaggi, l’evasione è un fenomeno di massa, i controlli sono costosi e poco efficaci, le disuguaglianze lampanti e la burocrazia così poco efficiente da rendere irrealistica la prospettiva di pagare ogni mese una somma a milioni di italiani che rispettano alcuni requisiti da verificare periodicamente.
Non mi ha mai convinto anche perché da strumento che dovrebbe garantire protezione e sicurezza rischia con grande facilità di diventare una gabbia, nonostante la buona fede dei proponenti: chi si abitua a ricevere dallo Stato un reddito per il solo fatto di essere cittadino può perdere ogni incentivo a cercare un altro lavoro o a tornare a studiare per sviluppare nuove competenze. In Italia abbiamo sempre avuto dei sussidi nati con le migliori intenzioni – come le pensioni di invalidità e gli assegni di accompagnamento che costano 16 miliardi di euro ogni anno – che sono poi spesso degenerati in strumenti di mero assistenzialismo, soprattutto nel Mezzogiorno. 
Il Movimento 5 Stelle ha avuto il grande merito di imporre la questione nel dibattito pubblico, ma le sue proposte – che esamineremo nel dettaglio nel libro Reddito di cittadinanza che esce venerdì 18 per le edizioni Paper First del Fatto Quotidiano – sono sempre state così incerte nelle coperture finanziarie da sembrare non realizzabili, sempre circondate dal sospetto di essere soltanto la promessa di distribuire soldi a pioggia. Eppure ho cambiato idea sul reddito di cittadinanza. Per tre ragioni.
La prima: la crisi iniziata nel 2008, ormai un decennio fa, ha colpito in modo molto diseguale. Le persone più fragili, si è visto in questi anni, sono anche quelle meno protette da un sistema di welfare categoriale e diseguale, che continua a tutelare molto più i lavoratori dipendenti che gli autonomi, i pensionati rispetto ai pensionandi troppo vecchi per lavorare e troppo giovani per andare in pensione, gli anziani a scapito dei giovani, gli uomini molto più che le donne. Ci sono così tante nuove forme di povertà, improvvise e persistenti, che è impossibile immaginare ammortizzatori sociali e sussidi tali da coprire tutte le storie individuali, tutti i percorsi professionali o umani. Meglio uno strumento universale, generalizzato, semplice, prevedibile nelle modalità di accesso e nell’importo a cui si ha diritto. Almeno riduciamo l’incertezza sul futuro che rende ancora più insopportabile un presente già difficile. 
La seconda ragione che mi ha fatto cambiare idea: la velocità del cambiamento tecnologico. Tutti noi siamo circondati da persone che se perdessero il lavoro che svolgono da una vita o anche solo da pochi anni non ne troverebbero mai uno simile, per tutele o stipendio. Le guardiamo con compassione e timore ma fatichiamo spesso a riconoscere che anche i nostri lavori sono a rischio. Robot e algoritmi distruggeranno prima i lavori pesanti, poi quelli ripetitivi a basso valore aggiunto e infine quelli intellettuali. Non sparirà tutto, certo. I migliori ce la faranno sempre. Ma la qualità di una democrazia si misura dalle tutele e dalle possibilità che offre ai mediocri, ai senza talento, a chi è nato nella famiglia sbagliata, senza libri in casa, a chi sa che la “meritocrazia” premia sempre un altro, lasciando lui senza nulla. In questa crisi permanente che ci attende – che porterà tante opportunità ai pochi all’avanguardia, ma con alti prezzi sociali da pagare per i molti rimasti indietro – una rete di protezione quasi serve a tutti. O meglio, a tutti quelli che non hanno risparmi e competenze sufficienti per salvarsi da soli. 
La terza ragione che mi ha fatto rivalutare il reddito di cittadinanza è la decisione del governo Renzi di assegnare 80 euro mensili a lavoratori dipendenti che guadagnano più di 8.174 euro all’anno ma meno di 26.600. Si è molto discusso dell’efficacia di questa misura, se sia riuscita o meno a stimolare i consumi. Ma un dato è certo: è stata fatta. Un gigantesco intervento di redistribuzione della ricchezza che vale 10 miliardi all’anno, ogni anno dal 2014 in avanti (è una misura “strutturale”). Quindi si possono fare interventi ambiziosi, con cifre consistenti. Quella misura è andata alla parte bassa del ceto medio, ma non agli ultimi. Gli “incapienti”, quelli che non guadagnano abbastanza neanche da pagare le tasse, non hanno visto un euro. Idem gli autonomi, che con le loro fragili partite Iva avrebbero avuto bisogno di un aiuto assai più di chi ha contratti stabili. Ed è stata una misura iniqua, abbiamo sussidiato le mogli casalinghe di ricchi avvocati o banchieri ma non le madri single costrette a lavorare in nero. Gli 80 euro non considerano il reddito familiare ma quello del singolo individuo e neppure la sua situazione patrimoniale complessiva. Con la stessa cifra sarebbe stato – ed è tuttora – possibile sradicare la povertà assoluta in Italia, sottrarre all’indigenza chi è davvero in fondo alla scala sociale.
La lezione di quella scelta portata avanti con tanta determinazione dal governo Renzi è che aiutare chi è in difficoltà è possibile. È stato scelto, invece, di dare i soldi a chi era più incline a votare il partito responsabile dell’intervento. Quindi, quando qualcuno dice che è impossibile trovare i miliardi necessari per il reddito di cittadinanza, sta mentendo. È una scelta politica. In Italia, come vedremo, uno strumento molto simile al reddito di cittadinanza esiste già. Si chiama REI, Reddito di Inclusione, costruito durante il governo Renzi e reso operativo dal governo Gentiloni, a partire da gennaio 2018. Ora si tratta di farlo funzionare e di aumentarne la dotazione finanziaria. Non si può dare da un giorno all’altro un sussidio di 780 euro al mese a 10 milioni di italiani, come forse pensano alcuni di quelli che hanno votato Movimento 5 Stelle e come denunciano tutti i critici per sostenere che, quindi, nulla è possibile. Invece non solo è fattibile, ma anche auspicabile che la lotta alla povertà, ora finalmente in cima all’agenda politica, diventi la priorità nelle scelte di politica economica. Con un graduale ma deciso aumento delle risorse e un monitoraggio costante di come vengono spese, raggiungere l’obiettivo di cambiare la vita alle persone in povertà assoluta è realizzabile nel giro di qualche anno. 
Nel libro Reddito di cittadinanza, che trovate in edicola e in libreria o in-book, è organizzato così: partiamo con la storia di un’idea, quella che si possa distribuire un reddito a tutti cancellando la povertà, un’idea che ha avuto molti nobili avvocati e, di recente, viene presa molto sul serio in tutto il mondo. Poi vediamo chi ci ha provato, dall’Alaska alla Finlandia, per capire quali sono stati i risultati e quanto la realtà sia simile e quanto diversa dall’idea originale. Arriviamo così all’Italia. In due capitoli seguiamo la strana evoluzione delle politiche contro la povertà nel nostro Paese che hanno la peculiare caratteristica di escludere quasi la metà dei più poveri che ne avrebbero bisogno. Poi passiamo all’evoluzione più recente, durante il decennio della Grande Crisi, con il tentativo di arrivare anche nel nostro Paese a un sussidio universale. E infine esaminiamo la proposta del Movimento 5 Stelle, come funziona, quanto costa e se (e come) è realizzabile. 
Di reddito di cittadinanza si è parlato molto in questi anni. Lo scopo di questo libro non è fare propaganda a favore o contro, bensì offrire a tutti numeri e argomenti perché questo dibattito prosegua nel modo più informato possibile.

Stefano Feltri (Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2018)


martedì 13 febbraio 2018

I Cinque Stelle e le questioni immorali



Piccola avvertenza che, per ragioni poco chiare, pare essere sempre necessaria per questi pezzi: non ho mai votato Cinque Stelle e non ho intenzione di votarli il 4 marzo. Ma nonostante questo – e andiamo al punto – trovo che sia piuttosto assurda l’indignazione e lo scandalo che riguarda le ultime vicende del Movimento, cioè il fatto che alcuni parlamentari ricandidati non hanno versato quanto promesso del loro stipendio a un fondo di sostegno per le piccole imprese.
Il merito della vicenda mi interessa poco. Si sarebbe potuto risolvere nel modo in cui gli altri partiti hanno trattato gli eletti morosi, che non hanno girato al partito quanto promesso del proprio stipendio (tipo Piero Grasso al Pd): basta mandare una letterina e sollecitare la regolarizzazione pena sanzioni future. Ma la campagna contro i Cinque Stelle su questo rivela – ancora una volta – il cortocircuito che causano negli altri partiti. E spiega perché il consenso a Luigi Di Maio sia così elevato nonostante un programma economico palesamente inapplicabile e un messaggio politico complessivo in continua evoluzione (e contraddizione).
Su rimborsi, parlamentarie, candidature discutibili e tutto il resto dal punto di vista degli altri partiti, e degli opinionisti, i Cinque Stelle sono criticabili per due ragioni: perché fanno cose non condivisibili o perché sono incoerenti. E’ una trappola a cui è difficile scappare.
Prendiamo il caso dell’autoriduzione del compenso. Se Renzi contesta i Cinque Stelle perché non fanno quello che dicono (cioè restituiscono meno del dovuto) deve appoggiare la sua critica su due possibili argomenti: 1) l’idea è giusta e quindi è criticabile non applicarla fino in fondo 2) a prescindere che sia giusta o sbagliata, in politica la coerenza è tutto e molti M5S si stanno rivelando incoerenti.
La posizione 1) non è sostenibile: i deputati e senatori del Pd non si riducono lo stipendio allo stesso modo dei pentastellati, quindi se Renzi afferma che il peccato dei Cinque Stelle è non tagliare abbastanza, contestualmente deve riconoscere che il Pd fa peggio, perché non restituisce proprio nulla.
La posizione 2) è pericolosa: se la coerenza è tutto, sono così tanti i casi in cui Renzi e il Pd nel suo complesso si sono dimostrati incoerenti che dovrebbero ritirare le liste dalle elezioni (manifestano per l’articolo 18 poi lo aboliscono, liberalizzano i voucher e poi li cancellano, mettono il canone in bolletta e poi dicono di volerlo azzerare ecc.).
Ci sarebbe una posizione 3 che però né Renzi né i suoi competitor osano sostenere, anche se sarebbe più che legittima: i parlamentari devono essere ben pagati perché altrimenti chi ha una carriera o anche soltanto una famiglia da mantenere starà lontano dalla politica che rimarrà terreno di caccia di mediocri e delinquenti. Ma Renzi, come il Pd, hanno cavalcato la retorica della Casta per anni e ora non osano tornare indietro.
Lo stesso paradosso vale per le liste: d’accordo, i Cinque Stelle hanno fatto primarie on line con poche migliaia di persone, forse facilmente hackerabili, usano il ricorso alla democrazia diretta più per legittimare scelte del vertice (Di Maio candidato premier e capo politico) che per decidere davvero e così via.
Ma gli altri? Se le parlamentarie Cinque Stelle non sono “abbastanza democratiche”, cosa si deve pensare del metodo con cui il Pd ha fatto le liste in una notte di faide tra correnti? E almeno il Pd è un partito che fa congressi, che ha una struttura interna, di delega. Ma Forza Italia? Mai un congresso, dopo 25 anni resta un possedimento personale di Silvio Berlusconi gestito dalla sua corte del momento. Di nuovo: criticare i Cinque Stelle su questi aspetti serve soltanto a ricordare all’opinione pubblica che sono comunque meglio degli altri partiti. E a consolidare il loro consenso.
La questione morale la sollevava il Pci di Enrico Berlinguer per ribadire la propria superiorità etica sul sistema di potere democristiano. Qui ci sono partiti pieni di inquisiti e vecchi arnesi che sollevano questioni immorali che hanno solo il masochistico risultato di ricordare all’opinione pubblica chi sono i peggiori.
I Cinque Stelle hanno mille debolezze e confusioni, non hanno un apparato, non hanno un vero rapporto col territorio, in cinque anni di Parlamento hanno fatto pochissimi passi avanti in termini di competenze e proposte. Su alcuni punti ci sono state addirittura clamorose involuzioni, tipo il reddito di cittadinanza che prima doveva essere pagato con tagli di spesa e ora invece in deficit con un trucco di bilancio, secondo una lunga tradizione italiana in base alla quale le elezioni si vincono promettendo debito pubblico.
Se la battaglia fosse sui programmi, insomma, i Cinque Stelle non ne uscirebbero bene: il centrodestra ha un’idea sola ma radicale, la Flat Tax, il Pd ha un programma pragmatico pieno di piccole misure anche sensate ma nessuna proposta caratterizzante, l’M5S ha troppe proposte insieme tra loro incompatibili e incoerenti. Ma invece che discutere del futuro del Paese, una legislatura che era inziata attaccando i Cinque Stelle sugli scontrini dei rimborsi si chiude discettando delle loro restituzioni al fondo per le piccole imprese.
Le questioni immorali danneggiano chi le pone.


 

mercoledì 17 maggio 2017

“I robot distruggeranno il lavoro, quindi serve il reddito minimo garantito. Siate creativi o una macchina vi sostituirà”




Martin Ford, scrittore e imprenditore della Silicon Valley, nel suo libro "Il futuro senza lavoro" (Il Saggiatore) analizza come l'automazione generi disoccupazione. "Lavorare meno e lavorare tutti? Non basta senza garantire un salario adeguato e funziona soltanto per i dipendenti"


Solo il reddito minimo, garantito e universale, può proteggerci dalla distruzione dei posti di lavoro causata dalla tecnologia. Martin Ford ne è convinto: imprenditore della Silicon Valley, scrittore, speaker, editorialista, nel 2015 il suo libro Rise of the Robots è stato premiato come libro economico dell’anno da Financial Times e McKinsey. Arriva ora in Italia con il titolo Il futuro senza lavoro per Il Saggiatore. Da quando è uscito il libro negli Usa, Martin Ford ha girato il mondo per presentarlo e ha osservato la tecnologia seguire la traiettoria che lui aveva previsto, mettendo a rischio milioni di posti di lavoro in tempi ancora più rapidi di quanto si aspettava: “Ci sono ormai sistemi che possono tradurre il linguaggio parlato in tempo reale e le auto senza conducente diventeranno una realtà prima di quanto pensiate, distruggendo centinaia di migliaia di posti di lavoro”. Tutta colpa dei robot, che minano ormai i meccanismi alla base del capitalismo come lo abbiamo conosciuto.


Martin Ford, cos’è un robot?

Io uso il termine in senso molto lato: qualunque cosa determina automazione.


La tecnologia ha sempre distrutto posti di lavoro creandone però di nuovi. Cosa c’è di diverso ora con i robot?

Le macchine stanno cominciando a pensare, sostituiscono il lavoro del cervello, non più solo quello dei muscoli. A Londra la divisione di Google DeepMind che si occupa di intelligenza artificiale, ha creato un software campione di Go, un gioco di strategia molto più complesso degli scacchi, non basta avere un computer potente per vincere. La tecnologia finora ha distrutto meno lavori di quelli che creava perché noi siamo stati capaci di usarla in modo creativo. Ma che succede se la tecnologia stessa diventa creativa?


Che genere di lavori sono a rischio nei prossimi 10 anni?

Non è questione di basso salario o basso valore aggiunto, ma ripetitività. Se in teoria qualcuno può capire come funziona il tuo lavoro sulla base di dati e resoconti, allora il tuo lavoro può essere distrutto dall’automazione. E’ il caso per esempio dei medici radiologi: serve un grande investimento di tempo ed energie per sviluppare una capacità diagnostica che già ora è inferiore a quella di alcuni sistemi automatizzati.


Quindi cosa consiglia ai giovani che devono scegliere un percorso?

Evitare una carriera che sia routinaria e prevedibile. Meglio essere creativi, non solo artisti, ma anche come ingegneri o scienziati capaci però di pensare out of the box, come si dice in inglese, cioè in modo originale. Sono relativamente al riparo anche i lavori che richiedono molta interazione umana, come i servizi della o quelli che richiedono relazioni complesse e mutevoli con i clienti.


Se la troppa innovazione finisce per avere più costi che benefici, distruggendo posti di lavoro e dunque consumatori, il mercato non dovrebbe correggersi da solo rallentando il ritmo del cambiamento?

Molti lavori saranno distrutti e molte persone avranno meno soldi da spendere, ma ci sarà un’incredibile opportunità di produrre cose e servizi in modo più economico e disponibile per tutti, con incredibili innovazioni per esempio in campo medico. Non penso sia utile e salutare dire ai nostri figli “non avrete più progresso”. Dobbiamo preoccuparci che ne benefici il maggior numero di persone possibile.


In Italia c’è un dibattito intorno allo slogan “lavorare meno, lavorare tutti”. È possibile?

E’ un’idea utile, se  combinata con un reddito di cittadinanza. Ma dipende dal Paese: negli Stati Uniti certi  lavori sono pagati così poco che non puoi sopravvivere riducendo il salario in cambio di più tempo libero. Ed è un approccio praticabile per i lavoratori dipendenti ma non per i professionisti.


Perché serve anche il reddito di cittadinanza?

Se molti posti di lavoro andranno distrutti per colpa dei robot, dobbiamo assicurarci che le persone abbiano comunque soldi da spendere o l’effetto perverso dell’innovazione sarà di paralizzare tutta l’economia. Costa molto, certo: negli Usa 1000 miliardi all’anno se vogliamo darlo a tutti quelli che hanno tra i 21 e i 65 anni. Molti dicono che è  socialismo, ma in realtà è un approccio molto market oriented: l’alternativa è una massiccia ingerenza dello Stato nella vita delle persone con case sociali, sussidi, ammortizzatori ecc.


E come si finanzia?

Intanto rivedendo gli attuali schemi di welfare state. E poi con  con alcune tasse, per esempio sulla anidride carbonica.


Chi lo deve ricevere?

Tutti, anche chi ha già un reddito, deve essere universale per evitare che si trasformi in un incentivo a non lavorare. Molti Paesi soprattutto del Nord Europa hanno benefici generosi per i disoccupati ma producono un esito paradossale: chi non lavora riceve più soldi di chi accetta un posto di lavoro poco attraente, per esempio in un fast food. Le resistenze maggiori alla mia proposta le ho trovate proprio nei Paesi che hanno una solida tradizione di welfare state. Comprensibilmente, sono molto restii a metterla in discussione.


Finora l’istruzione è stata la migliore assicurazione contro il rischio di perdere il lavoro. E’ ancora così?

La ragione principale perché le persone studiano è per avere una carriera migliore. Per colpa della tecnologia, ci sono molti più college graduates che non riescono a trovare i lavori che cercavano e finiscono a lavorare da Starbucks. Se il rendimento dello studio è più basso, bisogna trattare l’istruzione come un bene pubblico: alla società servono comunque persone istruite, perché sono cittadini migliori. E quindi bisogna incentivare l’istruzione a prescindere dalla carriera che garantisce.


I robot stanno cambiando anche la politica?

Senza reddito minimo garantito e universale avremo più Donald Trump. Le persone chiedono due cose al loro lavoro: i soldi e la sensazione di fare qualcosa di importante. Ci sono molte persone che fanno un sacco di cose gratis, come i software open source senza essere pagati. Il reddito minimo incentiva queste collaborazioni gratuite ma anche l’imprenditorialità: se hai un paracadute, puoi permetterti di rischiare un po’ di più. L’alternativa è avere persone sempre più arrabbiate e frustrate che votano chi predica rabbia. Magari un robot ti ruba il lavoro e te la prendi con gli immigrati.


Bill Gates ha proposto di tassare i robot per generare risorse per la collettività.

Il problema è che è difficile definire cosa è un robot. Se hai un robot in una fabbrica è facile tassarlo, ma se una grande azienda usa un software la tassiamo comunque? E’ pur sempre automazione.  E se negli Usa tassi i robot ma la Cina non lo fa, si regala a un Paese concorrente un vantaggio competitivo. Tassare i robot è soltanto un modo di rallentare un progresso, e il progresso porta anche molte cose cui non siamo disposti a rinunciare.



domenica 8 gennaio 2017

2017, l’anno senza narrazione



 
Si avverte un certo senso di vuoto, sfogliando i giornali e guardando i siti di news in questo lento inizio di anno: è scomparsa la narrazione, è finito lo spin, si è incrinato lo storytelling. Senza più Matteo Renzi a ripetere con dedizione da studente coranico quanto sta migliorando l’economia, che boom incredibile di posti di lavoro stiamo osservando, a ricordarci la fenomenale centralità dell’Italia nello scacchiere europeo e che ottimo investimento sia il Monte dei Paschi di Siena, è sceso il silenzio. E giornali e giornalisti, molto più che i loro (ormai pochi) lettori, devono prodursi in uno sforzo da tempo dimenticato, per il quale i muscoli necessari sono da tempo rattrappiti, causa lo scarso utilizzo: pensare da soli, farsi un’opinione del mondo, scegliere in che modo presentare ai lettori quello che succede. 

Guarda caso, il dibattito sulla post-verità è arrivato con grande ritardo in Italia, solo quando ha perso forza la “verità unica”, quella decisa a palazzo Chigi e comunicata al popolo direttamente dai cellulari di Matteo Renzi e del suo braccio destro Filippo Sensi, grazie all’amplificazione di troppo ricettivi opinion maker e politici di corte. Ora che la narrazione è finita, si può finalmente ammettere che gran parte di quello che gira su siti, talk show e giornali (per non dire dei siti istituzionali) è soltanto un cumulo di balle. O, per dirla in modo più elegante, il prodotto di una propaganda tanto sofisticata quanto brutale.

Per assenza del direttore d’orchestra – il succedaneo Paolo Gentiloni mantiene una ammirevole discrezione – finalmente i suonatori possono rinunciare alla sinfonia per prodursi in una polifonia. O perfino in una assai più democratica cacofonia. 

La deflazione è un disastro per gli investimenti o l’ultima ancora dei redditi fissi? La Cgil che usa i voucher è uno scandalo di ipocrisia o la dimostrazione di quanto corrosivo è stato il loro impatto sul mercato del lavoro, eliminando le alternative? La nazionalizzazione del Monte dei Paschi è una illuminata politica industriale o l’ennesima socializzazione delle perdite dopo che i profitti sono stati da tempo privatizzati? Prima bastava un tweet, una e-news, un WhatsApp a dirimere la questione. E prima ancora, negli anni di Berlusconi ma perfino con Monti e Letta, era sufficiente attendere un segnale dai tanti volenterosi interpreti degli umori ufficiali della corte. Adesso, in questo scorcio di 2017, c’è solo il silenzio. E tocca pensare, farsi un’idea autonoma.

Di questa boccata di aria fresca, oltre a noi giornalisti, dovete approfittare anche voi lettori. Perché la gassosità del governo Gentiloni costringe anche tutti gli italiani ad accettare una scomoda verità: che le loro sorti non dipendono dal governo. Che se le nostre città sono sommerse di spazzatura, se al fisco mancano 109 miliardi ogni anno causa evasione fiscale di massa, se i turisti preferiscono Parigi e Londra alle nostre città piene di piccole frodi e trappole, se abbiamo la pubblica amministrazione più lenta e farraginosa d’Europa, non è tutta colpa di chi ci governa, dal Comune o da palazzo Chigi o da Montecitorio. Per lunghi anni l’Italia ha continuato a comportarsi come se fossimo negli anni Trenta o, al massimo, Cinquanta. Come se le nostre sorti collettive fossero appese a un qualche uomo forte, come se la politica fosse soltanto ricerca della leadership giusta. 

Oggi chi guarda a palazzo Chigi non vede nulla. Il vuoto anche se qualche cortigiano starà già meditando retroscena sulla “dottrina Gentiloni” o sulla “forza tranquilla del basso profilo”. E così sarà per lunghi mesi, forse fino a giugno, forse fino al 2018. E anche dopo le elezioni, tutto lascia pensare che ci vorranno faticose trattative per ottenere governi di coalizione dalla natura incerta e dall’agenda pasticciata. Ora che anche le promesse miracolistiche di rinnovamento del Movimento Cinque Stelle devono stemperarsi nella pratica quotidiana del governo, cercando di tradursi in scelte concrete, stanno scomparendo gli ultimi miti. Abbiamo cancellato dalla lista delle urgenze quasi tutte le soluzioni semplici a problemi complessi (e dunque di solito sbagliate). Ci rimane giusto da ridimensionare la favola per cui è tutta colpa dell’euro e della Germania, o degli Americani, e poi saremo a posto. Ma anche su questo un po’ di buonsenso sta tornando, consiglio il bel libro di Alfredo Macchiati “Peché l’Italia cresce poco” e la sua analisi della zavorra tutta italica delle nostre “élite estrattive”.

Il 2017 sarà un anno difficile, forse traumatico. Ma sembra destinato anche a essere l’anno senza narrazione, che ci costringe a pensare con la nostra testa, senza aiutini o imposizioni esterne. Approfittiamone. 


 

venerdì 16 gennaio 2015

Dieudonné, arrestato il comico. In Francia libertà d’espressione ma non troppo

Dopo aver celebrato per una settimana la libertà d’espressione senza limiti e senza censure, la Francia arresta uno dei suoi comici più contestati per un reato d’opinione, per una satira che è stata giudicata irrispettosa. Ieri mattina Dieudonné M’bala M’bal, accusato spesso di antisemitismo, è stato confinato agli arresti domiciliari. Il suo crimine: nei giorni successivi all’attacco terrorista alla sede di Charlie Hebdo ha scritto su Facebook: “Je suis Charlie Coulibaly“, mischiando lo slogan universale di solidarietà ai vignettisti uccisi e in difesa della libertà di espressione e il cognome del terrorista che si è mosso in parallelo ai fratelli Kouachi autori della strage, quell’Amedi Coulibaly che ha ucciso cinque persone prima di essere freddato dalla polizia nel supermercato kosher.
Sempre sulla pagina Facebook di Dieudonné si trova la spiegazione di quella battuta che tanto sdegno ha suscitato. E che non era affatto una battuta: “Da un anno sono trattato come il nemico pubblico numero uno anche se non faccio altro che cercare di far ridere… mi trattano come Amedy Coulibaly ma non sono affatto diverso da Charlie”. In effetti Dieudonné è stato trattato più come Coulibaly che non come Charlie. E per la sua frase, che non voleva celebrare i terroristi ma denunciare le ipocrisie della Francia, è stato arrestato proprio perché – nonostante gli slogan e la marcia, cui ha partecipato lo stesso Dieudonné – anche in Francia la libertà di satira non è affatto senza limiti. “A fianco della Francia che ha marciato dicendo Jesuis Charlie, c’è un’altra Francia più discreta, che abbiamo visto su Internet e sui social network che rifiuta quella logica e l’unità nazionale e si mette a fianco dei fratelli Kuoachi”, si indigna Cristophe Barbier dal sito del settimanale l’Express e spiegava che l’arresto di Dieudonné è “una cosa buona”.
Nei suoi 46 anni “Dieudo” ha fatto irritare parecchia gente: ha portato sul palco per uno sketch lo storico Robert Faurisson , noto e processato per appartenere al filone negazionista sulla Shoah, ha detto che Osama bin Landen è “il personaggio più importante della storia contemporanea”, nel 2003 ha indignato con un altro sketch dal titolo poco ambiguo, “Isra-Heil”, poi si è inventato il gesto della “quenelle”: è una specie di saluto nazista al contrario, col braccio testo verso il basso anziché in alto, e l’altra mano piegata all’altezza della spalla. È diventato molto popolare anche se il suo significato resta ambiguo, lo stesso Dieudonné non lo ha mai chiarito del tutto anche se lo ha usato nel 2009 sul manifesto elettorale di una lista anti-sionista in cui si è candidato, assieme a un esponente del partito di destra Front National.
È soltanto una provocazione, un modo per sfidare i tabù di un Paese che vuole rimuovere il suo passato di complicità coi nazisti vietando opinioni sgradite o è un tentativo di legittimare pregiudizi razziali diventati indicibili in pubblico? Dieudonné non risponde, ma la giustizia francese sì: il calciatore Nicolas Anelka ad aprile è stato squalificato per cinque match dopo una “quenelle” nel campionato inglese.
Dieudonné è la più celebre delle vittime della reazione francese alla strage sul piano delle opinioni: ci sono almeno una cinquantina di procedure giudiziarie per apologia di terrorismo, dopo l’attacco a Charlie. Ci sono addirittura già cinque condanne: un uomo di 34 anni ha ricevuto quattro anni di carcere per aver urlato ai poliziotti “ci vorrebbero più Kouachi”. Ma va notato che l’apologia di terrorismo è arrivata dopo un incidente mentre guidava ubriaco.
Il giornale progressista Le Monde, consapevole della stranezza di difendere la libertà di satira mentre si mette ai domiciliari un autore satirico per un post su Facebook, dedica un lungo approfondimento al tema: “Quali limiti alla libertà di espressione?”, firmato da Damien Leloup e Samuel Laurent.
I due autori partono dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 per giustificare i limiti alla libertà di espressione, “comporta dai doveri e delle responsabilità e può essere sottoposta a limitazioni”, citano un’altra legge del 1881 e arrivano fino al provvedimento anti-terrorismo approvato a novembre: l’apologia di terrorismo può essere sanzionata con condanna immediata e l’utilizzo di Internet è un’aggravante.
A questo proposito Le Monde offre un’interpretazione curiosa , un po’ contraddittoria con i proclami libertari delle piazze francesi: il diritto francese si applica anche ai post pubblicati da cittadini francesi su Facebook e Twitter, “ma questi servizi, essendo gestiti da imprese americane, sono stati concepiti sul modello statunitense della libertà di espressione, molto più liberale del diritto francese”, perché negli Usa il diritto di dire e scrivere quello che si vuole è più protetto dalla Costituzione.
Per chiudere il cerchio delle contraddizioni, va segnalato anche che Dieudonné è stato messo ai domiciliari ma, come annunciato sulla sua pagina Facebook ufficiale, ieri sera si è potuto comunque esibire al teatro La Main d’Or di Parigi con il suo spettacolo “La bestia immonda”.
Sui social network è partita la campagna Je suis Dieudo, sullo stesso fondo nero e con il medesimo font di Je suis Charlie. Ma avrà molto meno successo dell’originale.



martedì 23 aprile 2013

La pericolosa rivoluzione di Giorgio II

Lui si commuove, i partiti applaudono. Eppure non c’è alcuna ragione di celebrare questa sobria e un po’ triste cerimonia con cui Giorgio Napolitano ha giurato, per la seconda volta, da presidente della Repubblica. Ne è consapevole anche lo stesso capo dello Stato che ha rifiutato i corazzieri e la macchina scoperta: non è il momento per il fasto e per i bagni di folla. Perché quello che si è celebrato oggi a Montecitorio è il funerale della seconda Repubblica, senza che la politica dimostri alcuna prospettiva di resurrezione nella Terza.
La novità più rilevante è il passaggio dell’Italia a un presidenzialismo di fatto: Napolitano ha spiegato che la sua permanenza al Quirinale dipende da due variabili: da quanto lo sosterranno le forze e da come si comporteranno i partiti. Se non collaborano, ha lasciato intendere, lui non si sente più vincolato a restare.
Questo ha una conseguenza molto concreta: chi volesse sfiduciare il nascente “governo del presidente”, porterebbe alle dimissioni anche il capo dello Stato, non soltanto il premier. E’ uno schema alla francese: il primo ministro è un emissario del presidente, vero punto di riferimento. Non è una novità da poco. Anche perché è combinata con un elemento monarchico: la tenuta dell’istituzione è legata a quella della persona che la incarna, la salute del Quirinale dipende da quella di Napolitano (che appare in gran forma, ma ha pur sempre 88 anni). Il Vaticano ha appena sperimentato il trauma profondo che deriva dal legare l’istituzione – che per sua natura trascende le persone – alla fragilità del corpo.
La combinazione di questi due elementi porta l’Italia in un territorio inesplorato. Come dimostra il fatto che ormai non ci sia più alcuna suspense su chi andrà a palazzo Chigi. Tanto la sede del governo si è spostata al Quirinale.
Poi ci sono i partiti. Napolitano è stato durissimo con tutti mentre i parlamentari applaudivano. Come se le accuse di inconcludenza, di corruzione, di irresponsabilità riguardassero un altro Parlamento e non questo che è stato incapace di fare una legge elettorale decente, di scegliere un governo, di trovare un nuovo presidente della Repubblica. Applaudivano, si alzavano in piedi, accennavano a ovazioni. Ma la riconferma di Napolitano sancisce l’inconcludenza di questa classe politica che, come sempre, deflette ogni critica, pensando che sia colpa di qualcun altro, o magari del fato.
Il primo bilancio, comunque, è questo: il Pd ne esce distrutto, il capo dello Stato ha addossato a Bersani il peso della paralisi. Silvio Berlusconi è trionfante: come sempre Napolitano ha invocato pacificazione e dialogo, cioè larghe intese, cioè quello che il Cavaliere sperava (almeno nell’immediato, lasciando che il centrosinistra finisca di autodistruggersi, prima di chiamare nuove elezioni e riportare il Pdl al potere, magari dopo che una riforma della Costituzione avrà consentito l’elezione diretta del capo dello Stato, cioè di Berlusconi stesso).
Al Movimento Cinque Stelle viene riconosciuta la dignità e la legittimità di principale (per non dire unica) forza di opposizione. Certo, Napolitano ha invitato a evitare atteggiamenti fideistici verso la Rete, perché la democrazia ha bisogno di persone concrete e di confronto. E ha anche criticato la contrapposizione “tra piazza e Parlamento”, ma soltanto per poi sottolineare che il M5S ha scelto di incanalare il suo impegno proprio nelle istituzioni, invece che contro di esse. Non è escluso che ci sia stato un ruolo di Napolitano nella scelta di Grillo di evitare la “marcia su Roma”, usando la sua presa sul movimento per contenere la protesta invece che per cavalcarla. Cosa che avrebbe potuto fare senza fatica.
Non comincia una nuova fase, con questo discorso. Ma il sistema politico si è preso un anno o forse due in più di tempo. Una camera di compensazione che è parsa l’unica alternativa all’anarchia. Sperando che qualcosa sblocchi lo stallo: o il cambio dei protagonisti (con Barca o Renzi al posto di Bersani, prima o poi con l’uscita di Berlusconi) o un riassetto dei partiti e quindi delle alleanze (il Pd non pare in grado di reggere ancora a lungo) o dello scenario internazionale (un peggioramento o un miglioramento della situazione economica avranno il loro peso).
Non siamo più vicini, insomma, alla soluzione dei problemi che ci hanno portato fin qui. Ma la reazione del sistema, con ulteriori strappi e forzature in direzione presidenziale, potrebbe essere la premessa di ulteriori crisi future. 


 


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