"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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martedì 5 dicembre 2023

“Narrazioni diversive”, sottotitolo “Come il complottismo protegge il potere”



Nella genesi di questo articolato saggio, Tobia Savoca indica in suo padre colui che ha acceso in lui la luce e nello zio chi ha innescato l’evoluzione del suo pensiero critico. Lo studio e continui approfondimenti hanno fatto il resto.
Innescando così reazioni a catena volte alla ricerca di verità forse impossibili, in un vortice senza fine che trova un positivo sfogo nell’attività didattico-scientifica in cui si avventura per documentare tante possibili tracce, in una meritevole mission d’indubbio valore divulgativo.
In ogni caso, a prescindere dal livello dottrinale, anche analisi derivanti da assunti popolari (socialmente aggettivate come “dal basso”) presi in esame, forniscono chiavi di lettura sapienti, basate su esperienze culturali consapevoli dei limiti umani.
Emblematico, al riguardo, appare utile osservare anche il diffuso “lapsus froidiano” che viene spesso manifestato dall’attuale classe politica – neoliberista e non soltanto - quando si auto definisce, nel ruolo istituzionale di rappresentanza, come nell’esercizio di un “lavoro” e non già come nel pieno svolgimento di una missione sociale, seppur remunerata nel libero e autonomo nobile esercizio.
Riguardo al complottismo intrinseco, oggetto centrale del saggio di Tobia Savoca, occorre osservare con maggiore attenzione l’assetto sociale contemporaneo, che organizza e accomuna in sette/tribù, lobbie e gruppi vari, dove elementi anche variegati condividono passioni o - più pragmaticamente - si inter-relazionano per mantenere privilegi e scambiandosi favori.
Augusto Cavadi, nella sua recensione, ha efficacemente sintetizzato la “sinapsi sintattica” del saggio, concludendo con questa considerazione: "Il libro di Savoca mi ha evocato l’immagine dei giochi pirotecnici: non fai in tempo a seguire le tracce luminose successive a un primo scoppio in cielo che ciascuna di queste scie esplode a sua volta, diramandosi in tante altre direzioni."
Un libro che affronta questioni d’attualità con analisi articolate che mettono in luce i tanti aspetti correlati negli argomenti trattati. La formazione classica, rafforzata dalle diverse lauree specialistiche, consentono all'autore di diversificare i punti d'osservazione e di mettere in risalto spunti e considerazioni focalizzanti, corroborate da citazioni e pensieri di filosofi e letterati di ogni tempo. Un saggio fitto di concetti e informazioni che merita attenzione.
Oggettivamente, nella lettura delle pagine si vola alto e si atterra per rispiccare nuovamente in volo. Fotografando i tantissimi punti possibili su ogni tipologia di complottismo: sostenitori e negazionisti compresi.
Credo che non si può, anche volendo, aggiungere altro. Per rendersene conto occorrerà procurarsi copia del libro, di poco meno di duecento pagine, dal costo di venti euro e pubblicato da Diogene Multimedia.

Buona luce a tutti!


© ESSEC

venerdì 8 novembre 2019

La radicalità come strategia retorica delle destre. La finestra di Overton


Qualcuno si stia svegliando dal torpore, dopo aver passato decenni a sottovalutare le destre, ripetendo il mantra che si tratti di quattro cretini, o comunque di comportamenti minoritari. Dicono che hanno vissuto gli anni’70, poi gli “anni di piombo” e che il pericolo in fondo è già scampato.
Se oggi sentiamo il bisogno di mettere sotto scorta i testimoni diretti del nazi-fascismo, ridotti sempre di più dal ricambio generazionale, evidentemente la nostra memoria collettiva si è indebolita oltre misura.
Questa amnesia generalizzata, sotto i colpi delle crisi cicliche del sistema capitalista, come quella del 2008, dimostrano che non siamo abbastanza immuni da quella che Croce chiamava “una malattia morale” e che oggi assume sempre più marcatamente anche i caratteri di una malattia culturale.
I suoi sintomi febbrili riscaldano il corpo sociale che individua quel virus che è sempre lo stesso, confezionato e conservato per essere scatenato al momento opportuno al fine di vessare gli ultimi e dividerli e governarli.
Eppure questa febbre nera ormai si è diffusa in molti paesi. E forse quei “tiepidi” che hanno sottovalutato questo pericolo se ne stanno pentendo. Forse pensano che, nell’illusione che la lotta sia tra sovranisti ed europeisti, alla fine il mercato vincerà, come se il mercato non fosse uno dei due volti dello stesso potere, quello (forse) “più esteticamente accettabile” rispetto a quello dei muscoli dei nazionalismi.
Molti oggi sono sorpresi nel vedere Lega e Fratelli d’Italia al 40%. Ma se ci chiedessimo in quale momento nell’opinione pubblica abbiano iniziato a fare strada le idee di destra, convinti che la gente non avrebbe ripetuto gli orrori del passato, limiteremmo la risposta agli effetti della crisi economica e al fatto che nel disagio da essa provocato, serpeggiano i semi del consenso di queste destre.
Ma il consenso si produce diffondendo delle idee e spesso sottovalutiamo i messaggi radicali che vengono da tempo iniettati nel dibattito pubblico, prima ancora della crisi economica.
Il punto è quindi eminentemente culturale e riguarda il modo in cui vengono sdoganate le idee razziste nell’opinione pubblica. Non si tratta di un procedimento improvviso, bensì lento e invisibile, che passa attraverso dei pensieri radicali prima estremi ed inaccettabili, ora chiamati solo “duri” o “forti”, inoculati periodicamente, non direttamente o non solo, dai politici di estrema destra, ma anche dai loro intellettuali e giornalisti.
La strategia è semplice: le estreme destre influenzano la cultura di massa per vincere le elezioni. Un’idea radicale diventa moderata se sorpassata da un’idea ancora più radicale, fino alla conquista dell’egemonia culturale.
Il ruolo chiave spetta ai media, in mano ai gruppi di interesse o di potere che rincorrono una sola logica, quella dell’audience. L’elemento più grave è che l’audience o le visualizzazioni, le “leggi supreme” del mercato televisivo o social, favoriscono questo tipo di pensieri radicali o estremi, dandogli visibilità.
I vari provocatori come Sgarbi, Feltri, Giordano, Belpietro, Ferrara, Grillo, Salvini, Meloni, hanno spinto il limite dell’accettabile, introducendo nel dibattito idee, prima inaccettabili. Sgarbi, il meno politico tra questi, e per questa ragione il più fintamente innocuo, è l’esempio più eclatante di questa funzione.
Sia che si prenda sul serio quello che dice, sia che lo si bolli come personaggio provocatore costruito, sia che si rida per la sua violenza verbale “fuori le righe” questo non gli impedisce di introdurre qualcosa di nuovo che entra nel dibattito.
Le loro idee inizialmente impensabili, radicali, a forza di essere dette, spostano a colpi di risata, di un poco il campo, o meglio “la finestra” dei pensieri possibili.

Un sociologo ha spiegato questo con la “finestra di Overton”.
Overton descrive uno schema di idee dalla “più libera” alla “meno libera” riguardo l’azione del governo, rappresentata su un asse.
Prendiamo l’esempio del cannibalismo che è considerato immorale e condannabile nella società studiata. A questo stadio il cannibalismo si trova al livello più basso di tolleranza nella finestra: è impensabile ed inaccettabile.
Per fare cambiare l’opinione pubblica si trasforma il tema in argomento scientifico, che per statuto non ha limiti di investigazione. Un piccolo gruppo di “estremisti” pro-cannibalismo espone l’idea nei media e questa opinione diventa radicale. Il cannibalismo non è più un tabù.
Il passaggio seguente è che l’idea radicale diventi piano piano accettabile. Chi continua a percepirli come intransigenti verranno tacciati di fanatici che si oppongono alla scienza, contribuendo a modificare il linguaggio. Ad esempio nel caso del cannibalismo si parlerà di antropofagia o di antropofilia. Il dibattito pubblico integra progressivamente questa idea anche se non è ancora completamente accettata.
In seguito il cannibalismo può passare da accettabile a ragionevole portando esempi di giustificazione in casi estremi, come in quello di una carestia e del relativo spirito di sopravvivenza. Esempi di giustificazione vengono poi generalizzati.
Infine l’idea diventa popolare tramite canali culturali, per esempio (banale) dei film di zombies. Infine i gruppi di pressione cercano una rappresentazione politica che legalizzerebbero l’idea inizialmente impensabile.
Questo procedimento rappresentato dal sociologo si è svolto e si svolge quotidianamente sotto i nostri occhi, spostando ogni giorno i limiti di questa finestra allargata nella direzione voluta dai centri di potere.
Esso è accompagnato da una tendenza generale a minimizzare gli eventi, come lo dimostrano i fatti di Verona (cori a Balotelli), al Lucca Comics, o la dichiarazione dello “stato d’emergenza nazismo” a Dresda. Il partito di Angela Merkel ha infatti parlato di “puro simbolismo” e di “errore linguistico”.
Lo sdoganamento di pensieri e comportamenti razzisti è calcolata ed accettata persino da quei tiepidi e moderati liberali-liberisti che pensano di poter giocare “al lupo al lupo” contro l’ondata nera credendo di poterla cavalcare. Speriamo che, come già accaduto in passato, non finiscano per aprirgli definitivamente le porte. Noi restiamo vigili.


 

domenica 16 settembre 2018

I giovani: una classe politica mancata


Quando ero al liceo agli inizi del 2000 sentivo dire che quando si è giovani si è di sinistra e poi, da adulti, ci si sposta verso posizione più conservatrici perché si raggiunge uno status quo e si tende a difenderlo. Le sfiorite ideologie del Novecento indicavano un orizzonte verso cui le società volevano tendere, dei modelli di società migliore. Il miglioramento delle condizioni di vita era di solito possibile attraverso un fisiologico scontro generazionale, una stimolante e sana competizione tra padri e figli che innescandosi nell’adolescenza permetteva la crescita dei giovani educandoli all’indipendenza. Il cambiamento in politica era portato avanti da chi era nuovo, dai giovani, secondo una dialettica che tendeva a portare avanti le istanze di nuove classi o di nuovi gruppi sociali.
Eppure come diceva Mentana in un recente evento organizzato da Gino Strada, nelle aziende trilionarie della Silicon Valley oggi l’età media è di 30 anni, mentre in Italia alle riunioni di Confindustria l’età media è di quelli della piscina di Cocoon, senza gli effetti della piscina. In pratica in Italia questo conflitto generazionale non si è completamente verificato. I giovani infatti sono stati (e si sono?) completamente esclusi da tutto.
Nelle famiglie più fortunate un patto implicito infatti ha legato il padre e il figlio secondo cui, il primo paga al secondo una formazione sempre più lunga e dispendiosa, mentre il secondo, mantenuto dalla famiglia restando sotto il tetto familiare, impegnandosi nello studio, ambisce a posizioni lavorative sempre più rare in un contesto di allargamento della classe media.
Questo patto scellerato ha creato una “classe disagiata”, la cui teoria è stata elaborata da Raffaele Alberto Ventura, che dovendo accettare spesso il declassamento della propria posizione sociale, poiché esclusa dalla competizione ai sempre più rari posti di lavoro, nasconde il proprio disagio con pratiche ostentatorie di un tenore di vita che non può permettersi.
Noi giovani siamo stati quindi esclusi dal mondo del lavoro, principale elemento di affermazione personale e sociale. Con una retorica volutamente paternalista, facendo affidamento nel ricatto dell’ ”esercito di lavoratori a gratis di riserva”, i datori di lavoro possono ottenere la massima produttività con una paga prossima allo zero, giustificandola con la logica del “devi imparare il mestiere”. Dopo anni e anni di esami, i giovani escono dall’università e gli si dice che non sanno lavorare, che quella fatta finora era teoria, la pratica è altro.
Complici di questo paternalismo lavorativo sono paradossalmente i genitori stessi. Coscienti di aver contribuito ad un mondo più ingiusto e chissà alla crisi economica, mossi da un senso di colpa di inadeguatezza, si comportano contemporaneamente in due modi. Da un lato ci accolgono sotto il loro tetto, mantenendoci, lasciandoci come unica responsabilità economica, quella di decidere come spendere il sabato sera la paghetta o i 500 euro gentilmente concessi dallo sfruttatore di lavoro. Dall’altro lato talvolta ci screditano poiché nel periodo del boom economico sono riusciti a fare quello che noi non saremo capaci di fare.
Secondo questa logica familiaristica che ha fondato le politiche giovanili fino ad oggi, si è sempre sperato che garantendo un sistema fiscale per i genitori e i nonni, si potesse per effetto cascata, costruire un welfare familiare che aiutasse i giovani, senza capire che tale sistema li rende ancora più dipendenti delle morbose braccia familiari. Da qui l’idea dell'”italiano mammone”.
Il fisiologico conflitto generazionale che porta cambiamento è stato pacificato dall’emergenza della crisi ed ha quindi fatto venir meno una classe politica di giovani.
Escludendo coloro che restano in uno stato di disoccupazione e sotto il tetto familiare, non rimangono che tutti coloro che hanno voluto o dovuto tentare la via dell’emigrazione e quei sempre meno fortunati che sono riusciti a trovare un lavoro in Italia, spesso ripiegando rispetto alle iniziali ambizioni, e che sono riusciti a fondare una famiglia, non si sa se per meritocrazia o per conoscenze personali.
Se una parte dei disoccupati sono pacificati dal paternalismo familiare e lavorativo, e se l’altra parte si imbatte nel calvario dell’emigrazione, vera valvola di sfogo sociale e politica delle conflittualità generazionali, portando via con sé rivendicazioni ed entusiasmo, chi si fa avanti per un cambiamento politico?
Chi deve portare avanti le politiche giovanili che mirano all’indipendenza economica ed abitativa se non i giovani stessi? Di sicuro non saranno i “vecchi” contenti di averci ancora sotto il loro tetto, elargitori di una paga che non si sa quando diventerà produttiva e quindi bruciando nel frattempo importanti risorse economiche.
Di certo nessuno delle vecchie generazioni si farà da parte e nessuno delle nuove leve abbozza una qualche forma di riscatto generazionale.
Condannati al presentismo della cultura del consumo e dei social, disillusi dalle delusioni politiche dei nostri genitori, non crediamo nel cambiamento perché non crediamo, purtroppo, che la politica possa contribuirvi, sia perché non l’abbiamo mai sperimentata, sia perché a scuola ci hanno sempre scoraggiato a trattarne, sia ancora perché non abbiamo fiducia nel prossimo così come non abbiamo fiducia in noi stessi. Il prossimo non è visto come un compagno di lotta ma come un possibile concorrente di un posto di lavoro che ci garantirebbe l’obiettivo di costruirci una vita.
Increduli ad un cambiamento che non abbiamo mai vissuto, incapaci di organizzazione e destinati a sopravvivere in maniera individualista, dobbiamo per la sopravvivenza stessa della società e di noi stessi, riprendere in mano il nostro destino attraverso la partecipazione politica personale. 

Tobia Savoca (Pressenza - 15 settembre 2018)


martedì 21 agosto 2018

Confini o frontiere: perché innalziamo muri?


Impaurito dalla narrazione ansiogena dalla politica della paura, disorientato dalla velocità della globalizzazione, l’uomo che si è impoverito e si trova ai margini di questo processo reagisce.
In ragione di un meccanismo fisiologico irrazionale, sente il bisogno di ritrovare i propri punti di riferimento identitari e comunitari grazie all’esclusione del diverso e di chi si trova al di sotto della piramide sociale, credendolo “causa dei propri mali”. Per potere escluderlo, ha bisogno di porre un limite fisico e di tenerlo a distanza.
Nella logica della ridefinizione della propria identità vi è quindi un fattore coinvolto in questo processo, oggetto di studio di due discipline apparentemente distanti quali la psicologia e la geografia: lo spazio.
Sotto la spinta della globalizzazione, se si immagina quanto siano collegate le metropoli di oggi, quanto siano avvicinabili due persone da un lato all’altro del mondo, e quanto il tempo, necessario a raggiungere qualsiasi meta, si sia deformato, si può affermare che tutte le distanze si siano relativizzate se non annullate. Alcuni geografi si sono persino interrogati sull’apparente scomparsa della nozione di spazio, provocata dall’avvento della rete telematica come di un “non-luogo”, e quindi sulla “fine della geografia”.
Se a questo si aggiunge il fatto che il liberismo predica la libera circolazione di persone e merci questo effetto viene indubbiamente moltiplicato. Sempre meno padroni dello spazio abbiamo iniziato a preoccuparci di ridefinire quello sotto il nostro dominio, un po’ come accade quando da piccoli cerchiamo di stabilire delle linee immaginarie con i propri fratelli o sorelle o compagni di classe in macchina o nei banchi di scuola, promettendoci di non invaderle, per delimitare quali siano gli spazi di competenza.
Si è così scatenata una facile rivolta sovranista a tutti i livelli spaziali: nazionale e continentale con la chiusura delle frontiere e dei porti, ma anche personale con la volontà d’estensione della legittima difesa nella propria casa; un sovranismo persino digitale, che permette ad ognuno di essere padrone di un proprio spazio virtuale in cui realizzare i propri “bisogni sociali”, e nel quale si accenna uno sforzo di autodeterminazione della propria libertà attraverso il consenso prestato a termini della privacy, cookies e similari.
Per capire come questa rivolta si concretizzi nell’innalzamento di muri occorre ripercorrere in modo sintetico l’uso delle parole confine e frontiera.
“Finis” e “limes” sono i due termini latini che restituiscono una differenza: nel primo caso si tratta di una linea, il solco definito dal rex di epoca monarchica romana, in quanto autorità religiosa e morale; nel limes invece vi è l’idea di zona di contatto tra il mondo civilizzato e il mondo barbaro.
Col passare del tempo, in epoca moderna, confine e frontiera hanno finito per coincidere in lingua italiana perché, con l’affermazione degli Stati-Nazione, le divisioni territoriali si fondavano sulla definizione di con-fini, in cui si riconosceva l’”altro” insieme alle sue pretese territoriali.
Il termine frontiera è sopravvissuto nella sua veste americana o inglese nelle conquiste del west o nell’espansionismo mondiale inglese.
Contrariamente ai confini, il limes romano e le frontiere americane definiscono un’ interfaccia in cui si tendono a gestire dei flussi. La gestione dei flussi prevede che alcuni passino, ed altri no, sulla base di criteri sempre discriminanti. Quali siano le caratteristiche umane o economiche che definiscano il diritto di entrare o meno, è oggetto di dibattito politico, ma la volontà di chiudere le frontiere sembra una reazione non ponderata di “chiusura a riccio” di chi vuole difendersi da qualcosa. Il ritorno all’idea di frontiera come limite, come barriera, dopo anni di abbattimento di frontiere e muri per facilitare la circolazione delle merci e l’imperialismo commerciale delle multinazionali, rappresenta un ritorno all’idea che lo Stato possa ancora avere un ruolo.
Eppure prima si costruivano muri di con-fine nel quale si riconosceva il limite tra se stessi, la propria nazione e quella vicina, implicitamente riconoscendo quindi l’Altro, seppur in concorrenza o in conflitto con la propria nazione.
Prima si costruivano frontiere che servivano a conquistare, come la Frontiera del West o il Limes romano che rappresentavano, agli occhi dei conquistatori che così giustificavano l’espansione, l’avanzare della civiltà in un mondo “arretrato”, “incivile”.
Oggi le frontiere ed in particolare i suoi muri fisici, le sue barriere, assumono un ruolo completamente diverso alle funzioni precedentemente svolte.
Prima rappresentavano l’affermazione di un potere, quello dello Stato, ora la sua crisi.
Come afferma Dario Gentili (1), “la loro costruzione svolge una funzione diametralmente opposta rispetto al passato. Nel violare il sacro recinto murario tracciato da Romolo, trovò la morte il fratello gemello Remo, avversario di Romolo nella disputa per diventare il re di Roma: le mura di confine e la loro violazione comportano simbolicamente – in quanto reductio ad Unum dell’ambivalenza mitica della gemellarità – l’istituzione della regalità, che, ricorda Cicerone nel De re publica, può essere uno soltanto a impersonare. Il rito della fondazione intendeva affermare prima di tutto, prima della stessa costruzione della città, il fondamento sacro del potere. […]
Anche oggi, la costruzione di muri sembra essere dettata, più che dall’efficacia, dall’esigenza di affermazione simbolica del potere, di rinvigorirne la sacralità perduta. Eppure, ciò che si rappresenta è soltanto la crisi e la fragilità – se non proprio il fallimento – della sovranità dello Stato-nazione […]
I muri oggi non vengono eretti per definire confini bensì frontiere; ma non si tratta della tipologia della frontiera mobile americana – e di ogni colonialismo in generale. Questi muri di frontiera sono immobili. Pur non riconoscendo alcun ordine politico al di fuori, non sono frontiere di conquista, bensì di difesa; a differenza del con-fine, non definiscono entrambe le parti, ma soltanto la rettitudine di una parte, quella interna: sono i baluardi di difesa contro gli attacchi alla democrazia, all’ordine interno, (o ad una presunta identità), così se ne giustifica sovente la costruzione.”
Su altra scala, un’esempio è dato dai muri che dividono le bidonville dalle guard gated communities (o in america latina, condomìnio fechado), ovvero quartieri ricchi blindati da mura e sistema di sicurezza, essi ghettizzano i benestanti che non solo non vogliono mischiarsi con la gente comune, ma esigono un sistema di sicurezza privato che non condividono con il resto della popolazione.
La creazione di barriere, filo spinato, frontiere è dovuta alla necessità di definire lo spazio che si sente proprio e quindi una promanazione di sé stesso e alla necessità di dominarlo dato che tendenzialmente scompare sotto la spinta della globalizzazione. Dietro ogni muro c’è un processo politico di esclusione e inclusione di gruppi sociali, di perdenti e vincenti e quindi di ingiustizie.
Creare delle barriere, crea spesso delle ingiustizie e quindi conflitti.
Illudersi che queste possano fermare la mondializzazione è utopia pura e non offre niente più che la manifestazione clinica di un sintomo che serve solo a provocare divisione ed odio: il terrore di riconoscere nell’Altro, la proiezione del nostro futuro e l’ineludibile necessità di accettarlo, insieme alle nostre responsabilità.

(1) http://www.master-territorio-environment.it/wp-content/uploads/2015/12/Dario-Gentili-Confini-frontiere-muri.pdf

 Tobia Savoca (Pressenza - 21 agosto 2018)


venerdì 3 agosto 2018

Tra il dire e il fare c’è in mezzo un barcone


Ultima lezione di liceo, consigli di classe già passati. Classe composta essenzialmente da italiani emigrati in Francia, e magrebini che hanno vissuto prima in Italia e ora oltralpe. Avevo intenzione di far vedere il discorso del Grande Dittatore di Chaplin ma ho chiesto se avessero seguito l’attualità e se avessero notizie del barcone. Rapidamente la situazione scivola su frasi del tipo: “non hanno lavoro e lo cercano in Italia dove non ce n’è”, “é meglio che restano dove sono”, “meglio aiutarli a casa loro”.
Fortunatamente per me, la maggior parte della classe non poneva la questione in questi termini, altrimenti avrei potuto considerare tutto l’insegnamento di questi mesi completamente vano. Dopo aver studiato l’avvento della società industriale, l’alienazione e i movimenti operai, l’imperialismo, il primo dopo guerra coi suoi odiati trattati, la nascita del Fascismo, l’incapacità della comunità internazionale di far fronte all’espansionismo tedesco ed il resto del l’obbrobrio causato dalle ideologie nazifasciste, ho scoperto che l’attualità appare in modo diverso ai ragazzi e la storia un mondo lontano che non gli appartiene.
Nella mia mente si è così spalancata la visione di un vuoto enorme, una desolazione totale tra tutti i valori che avevo cercato di trasmettere e quelli sottesi dalle domande dei ragazzi che sembravano quelle di un assiduo ascoltatore di programmi sullo stile “Dalla vostra parte” o di un raro elettore de Il giornale o Libero.
Si tratta degli stessi ragazzi che erano capaci di spiegarmi che durante la crisi post bellica i Fasci di Combattimento erano un mix di istanze rivoluzionarie e nazionalismo, che lo stato si totalitario si costituisce sul principio di esclusione di un gruppo di persone individuato come capro espiatorio e via di seguito.
Eppure in quel momento, la storia non li tangeva, la realtà era un’altra ed era quella proiettata dai media della retorica dell’invasione, della sicurezza e del “già abbiamo i nostri problemi”.
Ho sudato freddo per un attimo, anche se il discorso valeva per pochi ragazzi, un anno di lezione era li, idealmente sospeso sopra il cestino, pronto per essere buttato al macero.
Inizialmente ho cercato di portare dati, riflessioni, argomenti consolidati, ma mi sono accorto che continuava ad esserci un fossato enorme tra quello che viene detto, raccontato e studiato, e le loro esistenze: se non sono capaci di riconoscere quanto del passato sia attuale, come potrei fare capire che le loro domande partono dal loro punto di vista di Franco-Italiani e non da quello dei migranti? Come posso fare capire che le domande che si pongono sono quelle che vengono rimbalzate sui social, dagli « avvelenatori di pozzi »?
Ho loro posto le seguenti domande: Marco, qual è la differenza tra tuo padre che è arrivato qui in Francia dall’Italia e quella di un libico che vuole attraversare il Mediterraneo? Qual è la differenza, tra i tuoi genitori, Fatima, che sono venuti dall’ Italia in Francia in ragione della crisi economica, e la donna che col figlio sta su quel barcone in questo momento? Qual è la differenza tra il sottoscritto che è venuto in Francia per trovare un lavoro che in Sicilia non c’era e il ragazzo del Mali che in questo momento soffre di mal di mare tra la Sicilia e Malta?
Fatima mi risponde che è diverso, perché io sono italiano, quindi dell’Unione Europea e avevo avuto un’educazione simile a quella dei francesi, quindi potevo entrare in Francia, mentre invece il ragazzo del Mali no.
Marco afferma che tra suo padre e il libico non è mica la stessa cosa. Gli chiedo perché. Il silenzio come risposta non mi basta e gli chiedo se sapesse che ad Aigues-Mortes durante la fine del XIX° secolo quando, a causa della diffusione di una falsa notizia, furono massacrati numerosi immigrati italiani che lavoravano nelle saline francesi. Gli chiesi se sapesse che in tutto il sud-est e nel nord-est del paese della “Fraternité”, gli italiani come i suoi genitori erano vittime di xenofobia e violenze per il semplice fatto di non essere francesi, che non scappavano da guerre ma dalla crisi, che secondo i francesi non c’era abbastanza lavoro per loro e che sarebbe stato meglio che restassero dov’erano.
Questo ragazzo e questa ragazza, di fatto figli del mondo, un pò italiani, un pò francesi, un pò magrebini, proprio loro che dovrebbero essere i più simili alle persone che cercano fortuna, si sono dimenticati o non conosco le sofferenze patite dai loro genitori immigrati per potere garantire loro la possibilità di studiare e vivere una vita serena. Figuriamoci se ricordano la lezione di storia.
Ho cercato quindi di lacerare quella bolla che non gli permette di vedere quanto le loro vite siano immerse nella Storia umana.
Colmato con la riflessione sulle loro esperienze quel fossato tra i valori studiati a lezione e quelle domande frutto di un egoismo dilagante, mi sono sentito un pizzico più sereno, ma una serie di altri mari di incertezze e di dubbi si sono rivelati.
Ho in seguito spiegato che gli argomenti delle destre che leggo oggi, sono le stesse dita dietro le quali ci si è sempre nascosti.
Tra il dire che si vogliono eliminare gli interessi di chi lucra sui migranti e il compiere un’azione diretta a stanare tutti i pezzi grossi del caporalato, c’è una mare di ipocrisia rivelata dalla lotta allo sbarco, come se il problema fossero i migranti, non chi eventualmente vi lucra.
In una scala di valori non può essere confuso il valore della vita umana con quello della sicurezza, evocato stupidamente dai media col solo scopo di favorire la radicalizzazione delle fazioni e del dibattito, e falsato da una percezione distorta. Complici di questo ingigantimento tutti gli schieramenti politici che hanno trattato la questione migratoria come un problema sulla sicurezza e non come un fenomeno umano fisiologico che dura dalla notte dei tempi.
Tra il dire, da un lato, che si vogliono spezzare le catene di chi vuole essere sfruttato e, dall’altro, l’azione di tutte le persone unite dalla condizione di subalternità nei confronti del capitalismo finanziario e dell’ingiustizia sociale, c’è un mare che è fatto di lotta tra sfruttati e disoccupati del “sud” dell’Europa contro sfruttati del “sud” del mondo. Come posta uno stimatissimo collega, Matteo Saudino, “la storia delle destre sovraniste è sempre la stessa: a parole attaccano i poteri forti quali la finanza, le banche, l’UE, la Nato, nella realtà dei fatti costruiscono comunità in cui si limitano diritti civili e sociali e in cui crescono sentimenti di odio e guerre tra poveri”.
Infine non potevo che concludere la lezione con quel capolavoro che mi ero promesso di proiettare, sicuro che sarebbe, in ogni caso, caduto a pennello anche in quella discussione. I grandi classici servono proprio a questo.
“L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio, condotti a passo d’oca verso le cose più abiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. […]
Uniamoci tutti! Combattiamo tutti per un mondo nuovo, che dia a tutti un lavoro, ai giovani la speranza, ai vecchi la serenità ed alle donne la sicurezza. Promettendovi queste cose degli uomini sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. E non ne daranno conto a nessuno. Forse i dittatori sono liberi perché rendono schiavo il popolo. Combattiamo per mantenere quelle promesse. Per abbattere i confini e le barriere. Combattiamo per eliminare l’avidità e l’odio. Un mondo ragionevole in cui la scienza ed il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti!»

Tobia Savoca (Pressenza - Ingernational Press Agency - 21 giugno 2018)


venerdì 13 luglio 2018

Noi e loro: la politica della paura


«La paura è la via per il Lato Oscuro. La paura conduce all’ira, l’ira all’odio; l’odio conduce alla sofferenza» Maestro Yoda
Nel discorso politico di oggi, sempre più assimilabile al tifo da stadio o alla propaganda militare, difficilmente riusciamo a mettere a fuoco le dichiarazioni dei capi politici per comprendere gli obiettivi e le reazioni che tendono a suscitare. Questo campo è stato studiato dalla psicologia politica che ha scoperto perché la cosiddetta “politica della paura” riesce a guadagnare sempre più sostenitori, svelando quali siano gli interessi elettorali, e i valori in gioco posti dietro il conflitto politico attuale.
Per “politica della paura” si intende la politica che mira ad agitare volutamente dei fenomeni, narrati come problemi, che minerebbero la sicurezza e il benessere della popolazione su base nazionale. Che si tratti di sostituzione etnica, concorrenza di manodopera straniera, pericolo di infiltrazione terrorismo, migrazioni di continenti interi, la retorica contro il presunto “diverso” agita talvolta spettri infondati.
Vi starete chiedendo come mai siamo ancora capaci di mettere in secondo piano diritti umani e libertà, lasciando che l’egoismo e l’odio siano le direttrici della politica mondiale odierna. In un mondo in cui siamo sempre connessi agli altri, mai come oggi, paradossalmente sentiamo un crescente bisogno di innalzare barriere, come mostrato dalla cartina. In un mondo sempre più veloce che ci costringe a sradicarci dalla propria casa per spostarci alla ricerca di lavoro, la nostra identità viene messa in discussione, e nella babele di informazioni che ci colpiscono continuamente, diviene sempre più difficile essere empatici con il prossimo. Questi ultimi due elementi determinati dalla globalizzazione si rivelano fondamentali nel creare il terreno su cui può attecchire la politica della paura.
Vedremo quindi perché, da un punto di vista clinico-scientifico, la politica della paura vince sulla razionalità facendo leva sui nostri istinti, in seguito cercheremo di capire perché la politica della paura, legata alla crisi di identità, attecchisce in periodo di crisi facendo leva sul bisogno di appartenenza.
L’efficacia della politica della paura ha origini antropologiche: tocca le corde della nostra specie e della nostra evoluzione sfruttando meccanismi primordiali che trascendono luoghi e periodi storici.
La politica della paura fa infatti perno su un riflesso che non coinvolge la razionalità, bensì l’amigdala. “I nostri organi di senso (vista, udito, olfatto..) ricevono dall’ambiente informazioni che segnalano la presenza o la possibilità di un pericolo: ad esempio un serpente o qualcosa che gli assomiglia. Tali informazioni raggiungono l’amigdala attraverso percorsi diretti[…] (1) innescando così una risposta meramente emotiva. Questo percorso consente di rispondere a stimoli potenzialmente pericolosi, prima di sapere esattamente cosa siano”. “Meglio trattare un bastone come un serpente, che accorgersi troppo tardi che il bastone in realtà è un serpente” J. LeDoux.
La riflessione è successiva. La paura è un’emozione primitiva essenziale per la sopravvivenza, che per salvarci da un presunto pericolo ci spinge a reagire prima ancora di pensare.
Secondo l’articolo di Giovanni Sabato nella rivista Mind “c’è chi vede questi meccanismi inscritti nell’architettura stessa del cervello, il “centro della paura”, che invia una profusione di connessioni alla neocorteccia, sede dei pensieri più ponderati, mentre i collegamenti in senso inverso sono molti meno. Perciò la paura si impone così facilmente sulla ragione, mentre controllarla razionalmente è così faticoso e funziona solo in parte”.
Nonostante vi sia chi sostiene che in politica i meccanismi non siano legati alla paura ma all’ansia, che sfrutterebbe l’incertezza dettata da immigrazione, disoccupazione, terrorismo, crisi, il principio fondamentale di questa politica resterebbe immutato: scatenare un’emozione indotta proponendo immagini negative, per presentarsi come i risolutori.
Secondo gli studi portati avanti dalle ricerche di psicologia politica questa strategia funzionerebbe con maggior efficacia lì dove vi sono bassi livelli di istruzione.
Riuscire a smontare e de-costruire la paura indotta, è un’operazione che richiede investimenti in educazione e che richiede il tempo dell’educazione di nuove generazioni.
“No! Non diverso! Solo diverso in tua mente. Devi disimparare ciò che hai imparato!” disse il maestro Yoda a Luke. Intanto la psicosi collettiva infragilisce le menti e trasforma la società, le sue pulsioni e i suoi bisogni.
Per capire come si è arrivati a tutto questo, intanto occorre ricercare gli elementi che collegano globalizzazione e crisi d’identità.
La globalizzazione ha ridotto la percezione dello spazio, e nella velocità dei flussi si perdono riflessione e ponderazione.
Da un punto di vista umano essa ha aumentato la quantità e il ritmo dei flussi umani ed ha provocato una crisi di identità che Paul Mason (2), prendendo come esempio una piccola cittadina inglese, descrive così: “Il neoliberismo ha sostituito i vecchi principi di collaborazione e coesione con un racconto i cui protagonisti sono gli individui. Persone astratte con diritti astratti: il cartellino sull’uniforme era solo a beneficio del cliente o del capo, non serviva a esprimere un’identità. I lavoratori delle comunità sconfitte e abbandonate si sono aggrappati a ciò che rimaneva della loro identità collettiva. Ma dal momento che la loro utopia trainante, il socialismo, era stata dichiarata impossibile da chiunque tranne che dai partiti socialisti, essi hanno iniziato a fondare la propria identità su ciò che restava loro: l’accento, il luogo, la famiglia e l’etnia.”
E da siciliano, vale la pena ricordare quanto la “famiglia” abbia rappresentato l’àncora di salvataggio dei meridionali in cerca di giustizia e lavoro, in mancanza di uno stato. Ai siciliani avendo tolto tutto, non è rimasto altro che fondare la propria identità, la loro società, sulle uniche cose che si pretende che non possano essere tolte: onore e famiglia.
La politica della paura soffia costantemente su questo ardente bisogno di appartenenza, riproponendo i vecchi richiami mitologici del sangue, del territorio nazionale, del maschio bianco, avendo chiaro un progetto identitario e raccogliendo i delusi e gli emarginati dal benessere, che la sinistra non è riuscita a realizzare minimamente.
D’altro canto la sinistra liberale ha narrato il mito dell’universalismo che alimenta e non risolve questa crisi d’identità. Baumeister e Leary (1995) hanno studiato il bisogno di appartenenza come bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto.
Nell’idea di uniti nella diversità, l’universalismo della pseudo-sinistra ha raccontato agli individui che le proprie peculiarità, la propria identità sono uguali a quelle degli altri, senza spiegare sufficientemente che, per uguale, non si intende senza differenze, ma di ugual diritto. Questa ambiguità, mal raccontata cozza con l’atavico bisogno di appartenenza dell’individuo che si identifica nei valori, simboli e rituali di una comunità. Così adesso c’è chi, nel discorso fondativo di un nuovo corso, si presenta come il “padre” di una famiglia di figli disorientati in cerca di identità(3).
Ora, sicuramente la crisi economica è un fattore decisivo per l’efficacia della strategia della paura, come lo dimostrano gli studi sulla proporzionalità tra voti dati ai partiti di estrema sinistra e destra durante gli anni’30 in Germania, alternata a periodi di diminuzione degli stessi nel periodo di ripresa che precede il crollo del’29, pur se posteriore alle rivendicazioni internazionali dei Trattati di Versailles.
Ma, come mai, l’identità si sente minacciata in periodo di crisi, e non durante un periodo di benessere economico? Perché cerchiamo di ridefinire i criteri della nostra società soltanto allo scatenarsi della crisi economica, pur avendo un numero totale di immigrati più o meno costante nel periodo antecedente e posteriore alla stessa? I soldi e il benessere corrompono la nostra identità oppure scopriamo quanto essa sia importante soltanto quando ci stiamo impoverendo?
Intanto si potrebbe affermare che, come detto sopra, l’identità, l’onore e il bisogno di appartenenza siano tutto ciò che resta ad una persona a cui è stato tolto qualcosa. Ma non basta. Di fronte ad un’espropriazione, ad un fallimento, alla negazione di futuro possiamo reagire in due modi.
Il primo modo di reagire è infatti il più semplice. Possiamo mettere la testa sotto la sabbia e individuare in coloro che sono già ultimi, l’alibi dei nostri fallimenti, la causa dei nostri mali. La nostra identità diventa così l’elemento più rilevante, perché é l’unica cosa che ci rimane nel momento in cui rischiamo di perdere la nostra posizione sociale, o la libertà di vivere dignitosamente.
La politica della paura scatena quel bisogno di appartenenza frustrato dalla globalizzazione, evidenziando l’ importanza di ciò che ci distingue da coloro che consideriamo gli ultimi e che rischiamo di raggiungere in basso alla “piramide sociale”: l’identità di essere italiani, bianchi, non troppo poveri, quindi ricchi, educati, buoni e lavoratori.
Così ci definiamo, dando importanza a come ci vediamo idealmente rispetto alla realtà, non ci resta che sentirci più forti puntando il dito contro il debole, per issarci un attimo sopra qualcuno e sentirci un po’ meglio.
Questo meccanismo non è altro che la teoria del “capro espiatorio”, studiata ed elaborata da René Girard, secondo la quale, gli individui e le società scaricano la responsabilità e le colpe su degli outsider, dei capri espiatori, la cui eliminazione riconcilia gli antagonisti riportando l’unità. La redenzione dalle colpe di una cattiva gestione personale e collettiva della politica viene fatta attraverso il sacrificio redentore degli ultimi. Su scala diversa è un po’ quello che accade nel caso del bullismo. Proiettando nei difetti del più debole, le proprie debolezze il bullo rafforza la propria immagine all’interno del gruppo e l’immagine del gruppo stesso. Ognuno si sentirà più al sicuro di far parte di un gruppo che incarna le proprie caratteristiche ed elimina gli elementi di differenza.
Il terrore di ogni membro di subire la stessa fine dell’escluso, pur somigliandovi, lo porterà a “farsi amico” il bullo e a simularne imitandone i comportamenti. Egli ne diventa inconsapevolmente complice.
Lasciando stare in questa sede gli argomenti che spiegano che la nazione non è altro che un mito, una costruzione sociale e politica dell’Ottocento (4), a questo punto, se proprio non riuscissimo davvero ad uscire dall’idea che ci sia un gruppo, un “noi” e un “loro”, allora potremmo scegliere un criterio diverso che definisca il “noi”.
Potremmo definire “noi” come i belli, e “loro” i brutti, oppure noi gli intelligenti e loro gli stupidi. Prendercela con i brutti e con gli stupidi ci farà sentire meglio e sarebbe facile, ma alla lunga dubito che risolverebbe i nostri problemi.
Ma intanto è quello che stiamo facendo, giustificando il tutto con teorie darwiniste della legge del più forte, raccontando che la società umana sia retta dagli stessi principi del mondo animale. Peccato che queste teorie, oltre usate a sproposito in quanto strumentali, siano anche scientificamente false, dato che l’uomo, in quanto mammifero, è l’essere con il più alto tasso di inclusione del malato e del diverso attraverso le cosiddette cure parentali.
In effetti scegliere come criterio di “diverso” colui che è ricco, vigliacco, corrotto e che evade, potrebbe anche significare puntare il dito contro uno specchio; scegliamo quindi volutamente di mettere nel contenitore di “diverso” ciò che non vogliamo essere e ciò che temiamo di più essere: poveri, ultimi, senza nulla da perdere, emigrati, ma in fondo è tutto ciò che siamo e non abbiamo il coraggio di raccontarcelo.
Quale sarebbe quel gruppo che esalta come caratteristiche proprie, persino dell’italianità, la povertà, la disperazione che ti porta in molti casi ad andare via? La memoria delle nostre emigrazioni è fin troppo corta, e quando rievocata, viene fatta con toni agiografici di chi descrive i nostri avi come gente seria che si è dovuta sudare tutto, di fronte ai migranti di oggi, scansafatiche a cui tutto è dovuto.
Se scegliamo invece come criterio di definizione del “loro”, non quello del “povero”, del “non italiano” ma quello di scoprire chi siano i responsabili della crisi e del peggioramento della nostra situazione, il quadro si fa inquietante.
Il secondo modo di reagire infatti consiste nel cercare di riprenderci quel che ci è stato tolto da chi ne è il responsabile; ci vuole una buona dose di coraggio nel dire e dirsi la verità, nel guardarsi bene allo specchio e chiedersi cosa ho fatto per evitare questo, oppure cosa posso fare oggi per riprendermi quanto ci è stato tolto. E ci vuole ancora più coraggio nel riconoscere i veri responsabili della situazione. Mettere in discussione se stessi e quello che è stato il nostro modo di essere, persino le responsabilità di chi ci ha preceduto, della nostra famiglia, chiedendosi se i nostri hanno fatto il loro dovere, se hanno pagato le tasse, se si sono opposti quando dovevano farlo, se hanno scelto il proprio tornaconto quando questo cozzava con l’interessa generale.
Chi ha abbastanza coraggio nell’identificare i responsabili dell’attuale situazione nella politica di favore alle banche, nella corruzione e nell’illegalità diffusa a tutti i livelli, negli imprenditori che sfruttano il lavoratore precario o stagista?
Chi ha abbastanza lucidità da definire come responsabili coloro che hanno fatto sentire la nostra generazione come inadatti al mondo, di non essere all’altezza di lavorare, e quindi di dovere necessariamente vivere uno status di apprendista perpetuo fino ai 40 anni e oltre, fino a quando non si potranno ereditare i benefici di una fantomatica “gavetta”?
Chi si sente abbastanza onesto nell’individuare nei responsabili coloro che, compreso la generazione dei nostri genitori, ci ha raccontato che non eravamo all’altezza di avere una responsabilità, al punto che a loro abbiamo affidato quella politica, insieme alla nostra indipendenza economica?
E chi ha abbastanza senso della verità per affermare che responsabili di uno stato spendaccione, oltre alla politica, vi sono milioni di evasori che ci hanno, con il loro egoismo, tolto servizi, opportunità e investimenti?
Basterebbe un briciolo di quel facile coraggio usato quotidianamente dietro le nostre tastiere per affermare che il criterio che stabilisce il “noi” e il “loro” dovrebbe essere quello dello sfruttamento, sotto ogni sua forma: il rider di Foodora, l’impiegato controllato di Amazon, lo stagista in nero o pagato in voucher presso il libero professionista, l’operaio della fabbrica Whirpool che delocalizza per colpa di una fantomatica crisi che si racconta per coprire i miliardi di dividendi guadagnati dai consiglieri d’amministrazione della stessa azienda.
Il dito andrebbe quindi puntato contro il datore di lavoro che ti tiene in continuo ricatto, contro il politico corrotto che ha preferito qualcun altro a te, o a cui hai chiesto un favore per preferire te a qualcun altro, contro il padre tuo o del tuo amico che ha evaso il fisco, pretendendo dal politico che vota un comportamento più virtuoso del proprio.
Insomma significherebbe in molti casi mettersi contro i propri padri, i propri amici, o noi stessi che, oberati dal peso del dovere di riuscire a tutti i costi, e sfruttati da qualcuno, abbiamo invece scatenato volentieri le nostre frustrazioni contro chi sta sotto di noi, evadendo, corrompendo o umiliandolo.
Un’esame di coscienza è quindi l’ostacolo posto davanti ad un futuro migliore. Una presa d’atto sulle nostre responsabilità sarebbe la ruspa che sfonda le mura della complicità su cui abbiamo costruito la nostra pseudo-sicurezza minacciata dalla concorrenza migrante e più in generale dell’Altro.
Invece di procedere a questa analisi, intanto scegliamo la prima reazione, la via più comoda e facile, quella che consiste nel serrare i ranghi e attaccare colui che è stato definito diverso da chi ha paura di diventare povero, con criteri identitari, comunitari, di gruppo. Accettiamo la guerra tra poveri perché in quella contro i ricchi non ci crediamo. Ecco perché la politica della paura attecchisce in periodi di crisi: come una vera scorciatoia mentale collettiva, essa permette di auto-assolverci dalle nostre responsabilità, di evitare il confronto con noi stessi, rendendo impossibile il confronto con l’Altro.


Link utili e approfondimenti:
(1)http://www.stateofmind.it/2017/06/amigdala-percezione-paura
(2) https://www.linkiesta.it/it/article/2017/06/20/paul-mason-questa-globalizzazione-crollera-loccidente-sta-vivendo-la-s/34645/
(3) https://www.internazionale.it/bloc-notes/christian-raimo/2018/07/03/salvini-pontida
(4) https://www.internazionale.it/video/2018/03/07/identita-nazionale-invenzione

lunedì 12 marzo 2018

Populismo: una parola pericolosa


Puntualmente alla vittoria di Trump, di Le Pen, del Brexit, della Lega o Cinquestelle, opinionisti e giornali analizzano il voto con valutazione quasi infantile. I popoli sceglierebbero i “partiti della paura”, della sicurezza, spesso sottintendendo che il popolo, votando per nuove formazioni politiche, sia irrazionale, voti con la pancia e non sia capace di intendere e di volere, accecato dalla crisi. Probabilmente, senza nemmeno essercene accorti, da qualche anno c’è una parola che è tornata di moda e attorno alla quale si è creata un’ambiguità pericolosa: il “populismo”. Un’analisi di questa parola permette di capire molto del mondo politico attuale nell’era post-ideologica del superamento della logica “destra-sinistra”.

Populismo è un concetto che ha varie accezioni a seconda del periodo storico e che occorre riprendere per potere comprendere a fondo la logica dell’utilizzo attuale.

I primi ad essere definiti “populisti” furono nei primi del Novecento i membri di un movimento contadino e popolare russo che esaltava il carattere tradizionale delle campagne russe e promuoveva tendenze socialiste contro il mondo occidentale industriale, ben lontano quindi dal significato attuale. Poi fu il momento di un’accezione più vaga di populista, che dagli anni’30 indicava ciò che era destinato in favore del popolo: il “premio populista” in Francia era un premio destinato a scrittori che, stanchi di rappresentare un mondo borghese di élites cittadine, davano spazio a personaggi e a vicende popolari.
Infine da qualche decennio l’uso del termine si riferisce ad un atteggiamento politico volto a soddisfare e ad ammaliare il popolo tradito da una “casta” o “classe dirigente” a lui ostile. La confusione con il termine demagogia è lampante.

L’uso di questo termine comporta una serie di conseguenze solitamente ignorate.

In primo luogo viene utilizzato come un’ “insulto gentile” nei confronti di qualsiasi movimento politico che non faccia parte dello schieramento tradizionale: i primi furono i leghisti ad essere additati di questo “crimine”, poi i Cinquestelle che vennero definiti come “l’anti-politica”.
In pratica secondo il sottotesto di questa etichetta il mondo sarebbe diviso, da un lato da un gruppo di “politici ragionevoli” (liberali di centro sinistra e di centro destra) contro, dall’altro, i populisti che sarebbero agli estremi ovvero gli incompetenti che parlano alla pancia del paese, all’irrazionalità o che, peggio ancora, creano paure per sfruttare l’odio in veste elettorale.
Nel caso specifico italiano se è vero che la Lega appartiene ad un populismo di destra, i Cinquestelle si mantengono in maniera ambigua in un contesto post-ideologico che rassicura la popolazione educata dai tempi del dopoguerra alla paura degli estremi e del totalitarismo.
Insomma, secondo questa logica, l’elettore è ragionevole se accetta l’economia di mercato, oppure è demente e si fa abbindolare dai populisti.

Se la conseguenza dell’uso di questo termine fosse soltanto quella di rappresentare i lamenti di una vecchia classe dirigente che si sente insidiata da quella nuova e che la sottovaluta, questa analisi sarebbe piuttosto velleitaria. Le conseguenze, senza voler essere catastrofista, si possono spingere fino alla legittimazione di comportamenti estremisti.

Se è vero che l’Italia è un paese di analfabeti funzionali, l’argomento di un popolo stupido incapace di votare non permetterebbe di far luce su alcune dinamiche importanti, e questo atteggiamento paternalistico nei confronti del popolo non fa altro che allontanare non solo la politica dalla gente, ma certa sinistra sempre più radical-chic dalla realtà e dalle masse.

L’abuso di questo termine, per screditare il nemico politico, ha ed avrà delle conseguenze pericolose.

La più importante, come scrive Guillaume Roubaud Quashie, membro della direzione del PCF (Partito Comunista Francese) e autore della rivista “Cause Commune“, è che si rinuncia a definire l’estrema destra come tale e gli si fa un regalo enorme poiché non sarà più qualificata come “estrema” e spesso non sarà nemmeno qualificata di “destra”. Spogliarla di questi due termini significa non solo legittimarla costituzionalmente, ma anche vestirla di un aggettivo, quello “populista” sul quale la gente, seppur rappresenti qualcosa di negativo agli occhi dei media espressione di una classe liberale, sente vicino e in un certo senso capito dal politico “populista”.

L’abuso di “populista” viene poi allargato come accusa anche ad istanze politiche di sinistra: Syriza, Podemos e Mélenchon, che in Francia ha provocatoriamente affermato “Se populista significa denunciare le collusioni, allora chiamatemi pure populista”.

Ora, si parla tanto della perdita di identità della sinistra, a seguito delle sue sconfitte in moltissimi paesi, ma non si è fatto altro che alimentare questa perdita di identità, dimenticando o non riadattando un vocabolario vetusto come quello di “lotta di classe” e si è invece adottato un vocabolario che era creato ad arte per cancellare le differenze tra sinistra e destra, perché tendenzialmente estreme e quindi negative.

Il populismo attuale non solo nasconde in sé la vecchia “lotta di classe”, ma ne è diventato l’erede mascherato e depotenziato perché privo di una “coscienza di classe”. Parlare poi di una classe risulta antistorico poiché occorrerebbe parlare di una serie di classi sociali subalterne alla ragione economica, con grande sdegno della sinistra che oltre ad aver tradito i contenuti politici di uguaglianza e lavoro, ha anche abbandonato la retorica e il vocabolario degli “esclusi” e degli “ultimi” che non si sentono così più rappresentati. Vocabolario che è stato ripreso dai partiti anti-casta ed anti-sistema. Se è scomparsa quindi la differenza tra destra e sinistra, non è scomparsa quella tra chi è escluso dalla mondializzazione e chi invece ne trae benefici.

Un esempio analogo a quello dell’abuso della parola “populista” vale per parole come “complottista” o “totalitarismo”.

Complottista è diventato un insulto nei confronti di qualsiasi persona si opponga ad una verità costituita, quali che siano gli elementi di prova portati. Se ci sono elementi di denuncia all’interno delle informazioni che talvolta circolano, queste sono facilmente qualificate come “fake news“, permettendo così ai media tradizionali di tenersi stretto un posto sempre più precario, ma con il rischio per l’opinione pubblica di gettare il bambino con l’acqua sporca.

La nozione, imparata o meno a scuola, di totalitarismo invece è stata una nozione coniata per equiparare gli elementi comuni di fenomeni storici completamente diversi come comunismo, fascismo e nazismo. Così facendo, la nostra tradizione del dopo guerra filo-americana e democristiana ci allontanava dalle tentazioni sovietiche ricordando quanti morti avesse fatto il comunismo in pieno clima di guerra fredda. E quante volte recentemente abbiamo letto commenti sui social di gente che, a proposito delle marce antifasciste e del ritorno di atti violenti e di clima da “anni di piombo”, voleva l’equiparazione del divieto di costituzione del partito fascista a quello comunista o più in generale un atteggiamento politico di odio degli estremismi.

Tutte queste parole hanno una carica politica latente che condiziona il modo in cui vediamo il mondo politico stesso.
Gli italiani, stufi delle ideologie del XX secolo, prima ancora che della politica, hanno abbracciato la neutralità ideologica del populismo pentastellato. Questi potrà prendere la strada delle correnti in stile DC o, molto più probabilmente, la strada delle correnti in stile fascista, data la portata rivoluzionaria iniziale del movimento, senza per forza diventare un partito unico o una dittatura.

Ma, quello che appare evidente, nonostante sia sempre scientificamente scorretto fare paragoni storici decontestualizzando i fenomeni, è che ad un’ideologia nazionalista nel caso dei 5S si è sostituita una ideologia anti-casta digitale, in cui la ricerca del consenso non si manifesta attraverso la mobilitazione continua delle masse nelle piazze (come sostiene De Felice nel caso del fascismo) ma come mobilitazione continua della “rete” attraverso la piattaforma Rousseau, che mira a legittimare la nuova “democrazia liquida”. De Felice sosteneva che la caratteristica peculiare del fascismo italiano rispetto ad altri totalitarismi fosse proprio questa necessaria mobilitazione continua della base per la creazione del consenso.

Alla piccola e media borghesia postbellica che aveva fatto l’esperienza della violenza, che quindi imparava ad incidere nella realtà con i muscoli, e che intendeva proiettarsi come nuova classe dirigente che soppiantava quella post-unitaria, si sostituisce ora una massa di haters che hanno fatto l’esperienza del commento sul social, fiera di avere contribuito ad una decisione del movimento. Il fascismo si proponeva di applicare una “terza via” tra capitalismo e socialismo, i Cinquestelle vogliono lasciare intendere che la loro post-ideologia, oltre a permettere di acchiappare consensi qua e là, permette di riproporre una visione pragmatica della politica che piace agli italiani, poiché permette di unirli attorno ad un progetto, una visione, indipendentemente dal contenuto ideologico che spesso fuggono. O meglio, il contenuto ideologico è lo strale lanciato alla vecchia classe dirigente, privo della difesa di un valore specifico se non quello della legalità, che è pur sempre qualcosa, anche se insufficiente e che difficilmente resisterà di fronte ad un popolo corrotto per definizione e natura dalla sua storia.
Chiaramente nel passaggio da “movimento”, come espressione dei ceti medi emergenti e portatore di forti istanze di rinnovamento, a “regime”, in quanto prodotto dei compromessi con i poteri tradizionali, si vedrà poi la vera natura del populismo pentastellato che ha già strizzato l’occhio all’Europa e a Confindustria.

Infine il confine tra demagogia (attuale accezione della parola populismo) e democrazia è sottilissimo e passa attraverso la realizzazione concreta di punti programmatici con un contenuto politico preciso. Dubito che un progetto politico possa essere vuoto di contenuti ideologici: essi possono essere nascosti, taciuti o smussati ma devono necessariamente essere presenti, perché la politica è scelta, non solo raccolta del consenso, altrimenti, come dice Emilio Gentile, diventa “democrazia recitativa”.

Il problema è che oggi il tecnico si è spesso sostituito al politico, che dovrebbe indicare obiettivi e scelte. Il tecnico invece dovrebbe indicare il come si arriva all’obiettivo stabilito dal politico. Il centro di sinistra e destra, non compiendo più scelte politiche, si è limitato al “governo tecnico” e la sinistra raggiungendo la destra nella politica economica e soprattutto nei diritti sociali e del lavoro, ai quali ha sostituito quelli civili (trattasi di “populismo culturale”), ha perso completamente la sua identità. Ed insieme alla sinistra, l’autorità statuale appare vanificarsi rispetto a quello europea.

Da anni ormai, si fa sentire la voce di coloro che rimangono esclusi dalla mondializzazione e non vedendo effetti benefici nell’immigrazione e nella Unione europea hanno deciso di inseguire nuove forme politiche, nuovi rappresentanti che effettuino scelte in loro nome.

Essere demagogici non è un male, purché si è in tanti: in fondo, secondo la Teoria della scelta pubblica i politici non sarebbero altro che dei mercanti di idee.

La democrazia non è altro che la “concorrenza delle demagogie” (Marcel Gauchet), l’importante è non farla diventare un monopolio, poiché in quel caso saremmo di fronte ad un totalitarismo.



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Monte Pellegrino visto dalla borgata di Acqua dei Corsari

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