"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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domenica 29 settembre 2019

Vilem Flusser – Per una filosofia della fotografia



Quando si dice vederci lungo nelle cose. Nel ricercare nuove letture attinenti alla fotografia capita pure di imbattersi in qualcuno che ha anticipato i tempi, intuendo innovazioni e sviluppi.
In un saggio pubblicato all’incirca trentacinque anni fa, Vilem Flusser ebbe a prevedere peculiarità attinenti ad alcuni aspetti della fotografia del nostro tempo.
Nel volume intitolato “Per una filosofia della fotografia” (titolo originario “Für eine Philosophie der Fotographie”), edito in Germania nel 1983 e rieditato nel 2006 da Bruno Mondadori, l’autore, disquisendo sulla “filosofia della fotografia”, evidenziava già le complesse interconnessioni esistenti tra la tecnologia fotografica, l’azione umana e la casualità. Flusser scriveva, infatti, che: “la fotografia è un’immagine generata e distribuita automaticamente e necessariamente nel corso di un gioco basato sul caso da apparecchi programmati.”
Tralasciando le sue teorie e i pur importanti aspetti, riguardanti le concettualizzazioni sul significato delle immagini fotografiche, sul loro ruolo sociale e sulle varie metodologie di lettura, particolarmente interessante e premonitrice è risultata anche la sua visione rispetto agli aspetti tecnologici, inerenti alla robotizzazione crescente del mondo fotografico, inteso come sistema.
Al riguardo teorizzava, infatti, che, seppur alimentato da creatività e fantasie individuali dell’uomo, il mondo della fotografia andava sempre più sviluppandosi attraverso automatismi tecnologici utili a ripetere “combinazioni sperimentate”.
Osservava altresì che, anche se ogni progresso fotografico rimaneva sempre ancorato alla cultura del tempo, i fotografi si sono da sempre e comunque distinti nel ricercare costantemente combinazioni e chiavi di  ripresa innovative.
Attraverso il loro apporto di ricerca sperimentale, gli apparecchi fotografici sono via via divenuti delle “black box scientifiche” che in qualche modo creano “cultura simulando pensiero” (in quanto racchiudono in sé moltitudini sempre crescenti di “combinazioni intelligenti” create dall’uomo per realizzare scatti fotografici predeterminabili e voluti).
La ricchezza delle opportunità possibili ha quindi fatto sì che la così detta “cultura” delle macchine ha alimentato nel tempo produzioni di eccellenze tecnologiche, con strumenti di ripresa sempre più complessi e avanzati.
Già negli anni ottanta Flusser immaginava come la robotizzazione avrebbe consentito all’uomo di emanciparsi rispetto agli aspetti artigianali connessi alla manualità. Quelli che connotava come degli ‘utensili intelligenti’ andavano cioè ad affrancare il fotografo dalla mera funzione di operatore, lasciandogli sempre più ampi margini da poter dedicare al “processo fotografico ludico/creativo”.
Del resto, Flusser intuiva pure perfettamente che nel tempo l’hardweare avrebbe assunto sempre meno importanza rispetto al softweare, poiché quest’ultimo (elemento molle ovvero cultura intelligente) era destinato a espandersi grazie all’assorbimento di ogni innovazione tecnologica sperimentata (possibilità/combinazioni prontamente disponibili), incrementata da nuovi automatismi e facili soluzioni “infinitamente superiori a ogni fantasia umana”.
Col tempo è effettivamente accaduto quanto immaginato, ovvero che le macchine fotografiche sono diventate dei sofisticatissimi robots, volti a assicurare sempre, attraverso un loro giusto utilizzo e grazie ai tanti innumerevoli automatismi combinati, una elevatissima serie di risultati certi.
Il tutto ha fatto quindi sì che il fotografo potesse scegliere di mantenersi sempre più libero per essere principalmente creativo e innovativo; in modo autonomo rispetto alle tante combinazioni certe e disponibili, “preconfezionate nella black box” (“Il fotografo si impegna così a individuare le possibilità ancora inesplorate: maneggia l’apparecchio, lo gira e lo rigira, vi guarda dentro e attraverso”).
Il successo di nuove immagini così prodotte ha continuato a garantire con costanza evoluzioni tecniche nelle nuove macchine di ripresa che, nel loro insieme (hardweare e softweare), oggi inglobano tutte le tecniche fotografiche che si sono mano mano validamente sperimentate.
Come in tutti i campi di ricerca, l’evoluzione tecnologica e le diverse scuole di pensiero hanno portato a innalzare sempre più l’asticella, ponendo all’uomo moderno nuovi e più ambiziosi traguardi.
Tutto però, come già sostenuto in premessa dallo stesso Flusser, è rimasto e rimane - comunque e sempre - ancorato ai vincoli culturali “spazio/tempo” che caratterizzano ogni contesto; legati ai costumi e alle diverse scuole di pensiero che continuano a disciplinare le diverse civiltà, negli angoli del mondo.
In questo disquisire fondamentale rimane ancor oggi la frase che il saggista riserva ai circoli e alle associazioni laddove costituiscono luoghi in cui si tende a sublimare le mode e le tendenze del momento. Sostiene al riguardo Flusser che “i Circoli di fotoamatori sono luoghi in cui ci s’inebria delle complessità strutturali degli apparecchi, sono luoghi di trip, fumerie d’oppio postindustriali”.
In verità si riferisce ai casi in cui gli automatismi prevalgono, se non proprio egemonizzano l’utilizzo di una macchina fotografica ovvero, più in generale, alla progressiva democratizzazione dell’attività fotografica osservando che “chi sfoglia l’album di un dilettante non vi riconoscerà esperienze, conoscenze o valori di un uomo fissati in immagine, ma possibilità dell’apparecchio realizzate in modo automatico”.
Scrive anche che quasi tutti scattano foto, ma “benchè la macchina fotografica si fondi su principi scientifici e tecnici complessi, è molto semplice farla funzionare. E’ un giocattolo strutturalmente complesso ma funzionalmente semplice. In questo, è il contrario del gioco degli scacchi, che è strutturalmente semplice e funzionalmente complesso: le regole sono facili, ma difficile è giocare bene a scacchi. Chi tiene in mano una macchina fotografica può creare fotografie eccellenti, senza avere la minima idea di quali processi complessi metta in moto schiacciando il pulsante di scatto”.

Buona luce a tutti!

© Essec


Marco Travaglio: "Il Pap’occhio"


Mentre Facebook chiude pagine satiriche e letterarie perché gli algoritmi non capiscono le battute e tantomeno l’arte, e i giornaloni continuano a prendersela con le fake news dei social perché rivogliono l’esclusiva sulle bugie, un fatto di cronaca rimette le cose a posto. L’ex pm ed ex deputato forzista Alfonso Papa, condannato in primo grado a 4 anni e mezzo di galera in un filone dello scandalo P4, se la cava per prescrizione in appello. Ma l’AdnKronos, che vanta come presidente l’ex generale Michele Adinolfi (a suo tempo intercettato, indagato e poi archiviato nell’inchiesta P4), “informa” che è stato “assolto da tutti i reati”. E raccoglie le lacrime e la gioia dell’imputato perché è stata “accertata la verità” dopo i “lunghissimi anni” di persecuzione in cui “ho perso una famiglia e un lavoro”. Povera stella. Tutti i siti, trattandosi di un’agenzia di stampa, se la bevono e rilanciano. “Papa assolto”, dunque il suo arresto era “illegale”. Ergo il pm Woodcock che l’aveva indagato è un puzzone. E ora “chi risarcirà” il povero martire? La Corte (come già quella di Palermo sulla balla “Andreotti assolto”) invita i somari a leggersi il dispositivo, che non è di assoluzione, ma di “non doversi procedere per intervenuta prescrizione” degli stessi “reati per cui l’imputato era stato condannato in primo grado”.
Quindi Papa non è un innocente perseguitato, ma l’ennesimo colpevole che l’ha fatta franca. Grazie agli avvocati e al tribunale che sono riusciti a far durare 6 anni il processo a un solo imputato. Roba da ispezione ministeriale. Anche perché gli altri tre processi di primo grado a carico del noto galantuomo durano da 7 anni. Un legislatore degno di questo nome avrebbe bloccato la prescrizione vent’anni fa, quando falcidiava i processi di Tangentopoli. Invece B. (per i noti motivi) e il centrosinistra (per i noti motivi) allungarono i processi e dimezzarono la prescrizione. Dovettero arrivare i 5Stelle, noti incompetenti, per bloccarla dopo la sentenza di primo grado: se l’avessero fatto gli altri, il processo Papa non si sarebbe prescritto. Nessun avvocato o giudice avrebbe perso tempo e il processo sarebbe durato pochi mesi. E, se anche fosse durato 6 anni, la prescrizione non avrebbe ripreso a correre in appello. Ora Salvini e B. sperano di neutralizzare la legge Bonafede prima che entri in vigore il 1° gennaio. E pare che parte dei renziani e del Pd, la stessa che tentenna sulle manette agli evasori, dia loro manforte. Se così fosse, il Conte 2 nato per combattere Salvini&B. coi fatti non avrebbe più senso e il M5S dovrebbe aprire subito la crisi. La paura di Salvini&B. non può giustificare un governo che fa le stesse porcate di Salvini&B.

Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2019)


Massimo Fini: "San Francesco, Greta e il nostro sistema di vita"



Solo in un’epoca ipocrita, superficiale, ipnotizzata dai media, attenta al clamore e ignara della sostanza, si poteva creare un fenomeno come quello di Greta Thunberg diventata nel giro di un solo anno una superstar, invitata all’Onu e corteggiata dai grandi della terra e anche da importanti e globalizzanti imprese del mondo. Il problema non è Greta i cui obbiettivi sono sacrosanti anche se incompleti (salvare la Terra e gli uomini che la abitano dall’inquinamento). Il fatto è che Greta e le anime belle che la seguono, credo in buona fede (le grandi imprese sono invece in totale malafede perché sanno benissimo che dal vibrante discorso della ragazza non sortirà nulla) sembrano non rendersi conto che per salvarci non solo ecologicamente, ma per salvare, cosa ancora più importante, la qualità della nostra vita, bisognerebbe sradicare completamente l’attuale modello di sviluppo. Bisognerebbe cioè, come sostengono alcune correnti di pensiero americane, il bioregionalismo e il neocomunitarismo, “ritornare in maniera graduale, limitata e ragionata, a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano necessariamente per il recupero della terra e il ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario”. Bisognerebbe tornare a una vita più povera e più semplice. San Francesco che coniuga insieme il rispetto della natura (cioè della terra, dell’aria, dell’acqua, del vento e di tutti i fenomeni che l’accompagnano) con la povertà aveva capito tutto. Il fraticello di Assisi che non a caso era figlio di un mercante capì per primo, con cinque secoli di anticipo, che l’ascesa di quella classe sociale, fino ad allora disprezzata da quasi tutte le culture del mondo, ci avrebbe portato alla situazione in cui ci troviamo oggi. Il problema dell’inquinamento è addirittura di secondo grado, perché l’uomo è un animale molto adattabile, superato in questo solo dal topo. In primo piano c’è la nostra vita che la Rivoluzione industriale, col trionfo progressivo della Scienza tecnologicamente applicata e dell’Economia, ha reso complessa, faticosa e in definitiva disumana. Insomma bisogna tornare a essere più semplici e ragionevolmente più poveri (un accenno a questa consapevolezza nel discorso di Greta Thunberg c’è quando si scaglia contro il mito della crescita infinita). Se Greta e coloro che la seguono sono disposti a fare nella loro vita molti passi all’indietro noi siamo con loro. Sono la produzione e il consumo che vanno radicalmente ridimensionati. Altrimenti tutto si ridurrà alle truffe della green economy e della bio, che non solo sono pannicelli caldi di fronte all’enormità del problema, ma si risolveranno in un ulteriore rilancio dell’attuale modello di sviluppo e per questo sono viste con favore dalla grande imprenditoria internazionale. In quanto ai 500 scienziati che hanno inviato una lettera all’Onu vantando la loro competenza contro l’incompetenza di Greta e dei suoi è un modo di sgravare la propria coscienza sporca perché è proprio l’idolatria della scienza, non messa in discussione da nessuno, mi pare nemmeno da Greta, che ci ha portato al modello disumano in cui oggi viviamo.
Tutte, o quasi, le cose di cui si sta anfanando in questi giorni io,  senza la pretesa di essere un ‘illuminato’ come Francesco (lui, frate, crede in Dio, io no) le avevo scritte 35 anni fa ne La Ragione aveva Torto?, dove per Ragione va intesa quella illuminista diventata il solo Dio unanimamente riconosciuto, insieme al Dio Quattrino suo stretto congiunto. Ne La Ragione facevo piazza pulita di tutti i luoghi comuni che hanno portato i vincitori illuministi a definire “bui” i secoli del Medioevo europeo, mentre i secoli veramente bui, secondo il mio modo di vedere, sono quelli che abbiamo vissuto a partire dalla Rivoluzione industriale e che ancora stiamo vivendo in forme sempre più oppressive. Comunque non ci sarà lotta che potrà abbattere il mostruoso apparato che abbiamo costruito e  in cui ci siamo infognati. Crollerà da solo sotto il suo stesso peso. Ma ai giovani, e non solo a loro, e in questo Greta torna ad avere una ragione piena, bisogna lasciare almeno la speranza: pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà come diceva Antonio Gramsci.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2019)

domenica 1 settembre 2019

Giuseppe Turani: “In Italia sono 1,5 mln quelli che vivono di politica. Ecco dove sta la corruzione”


Tra i primi punti attualmente in discussione nella formazione di un potenziale governo "giallorosso" vi è anche la riduzione del numero dei parlamentari ..... ma in verità il problema è ben più complesso e l'articolo di Giuseppe Turani del 2016, che indico di seguito, ci descrive molto chiaramente taluni dei tanti vari aspetti. 


© Essec
 
“In Italia sono 1,5 mln quelli che vivono di politica. Ecco dove sta la corruzione” di Giuseppe Turani
Pubblicato il 5 Agosto 2016

Lo sapevate che in Italia sono un milione e mezzo quelli che vivono di politica? Un numero spropositato, pari quasi a quello dei metalmeccanici che sono pochi di più: 1,7 milioni. Giuseppe Turani, in un articolo pubblicato anche su Uomini e Business con il titolo “Le ali della corruzione” riflette su questo numero, dietro il quale, è inutile girarci attorno, si annidano corruzione e sprechi.
Si riparla di corruzione italiana. Ne riparla un soggetto autorevole e cioè la Banca centrale europea. A quanto poi ammonti questa corruzione non si sa. Girano diverse stime, ma ovviamente sono solo ipotesi. Comunque si sa che è tanta e si sa anche da dove nasce e come si potrebbe fare per combatterla.
In Italia sono un milione e mezzo le persone che vivono di politica: deputati, senatori, consiglieri e presidenti regionali, sindaci, assessori, più tutta la pletora dei loro assistenti. Nel mucchio vanno messi anche gli amministratori (si fa per dire) delle quasi otto mila società che appartengono a comuni, regioni, ecc. Una sorta di immenso Iri spezzettato sul territorio, con aziende che, di norma, sprecano soldi.
Un milione e mezzo di persone sono tanta roba. Solo un po’ meno dei metalmeccanici, che in Italia sono in tutto 1,8 milioni.
Tutta questa gente che cosa fa? Diciamo che per almeno la metà 700-800 mila si dedica soprattutto a far “scorrere” le pratiche, insomma a agevolare gli affari, a riscuotere piccole tangenti (sull’asfaltatura della vostra strada, sulle mensa per l’asilo die vostri bimbi, ecc.). Poi ci sono quelli che fanno gli affari in grande, ma lì la magistratura ogni tanto arriva e mette giù un po’ di manette. Quelli “piccoli” (700-800 mila) agiscono invece indisturbati: inseguirli sarebbe troppa fatica e costerebbe troppo allo Stato.
Il primo rimedio contro la corruzione, quindi, sarebbe quello di dimezzare quelli che in Italia vivono di politica.
Una qualunque, discreta, società di consulenza manageriale potrebbe dirvi che metà, appunto, di quel milione e mezzo di persone che vivono di politica non servono a niente: il paese potrebbe funzionare benissimo anche senza di loro. Stanno lì solo perché sono amici di amici e perché “producono” un po’ di soldi in nero per le loro famiglie e per la politica.
E sono una specie di costo invisibile, ma che comunque si paga, ormai insopportabile. Tutti loro infatti, oltre a uno stipendio o a gettoni di presenza, poi “portano a casa” anche il frutto delle piccole tangenti sulla riverniciatura della scuola o sul rifacimento della fontana della piazza principale.
Insomma, abbiamo almeno 700-800 mila persone il cui lavoro principale è appunto gestire la corruzione. Se questa stima vi sembra troppo alta, dimezzatela pure. Ne restano sempre 300-400 mila, un esercito.
La seconda ragione di corruzione sta nel regime delle autorizzazioni: una catena quasi infinita. Sembra più di 20 per aprire una scuola o per sistemare un chilometro di fibra ottica. E, come ha detto il Pm Carlo Nordio, ogni porta che va aperta per fare qualcosa è un’occasione perché qualcuno pretenda una tangente. Diciotto funzionari, magari, sono onesti e fanno solo il loro dovere, gli ultimi due, invece, possono essere tentati di far pagare un “dazio” non previsto dalle normative.
Anche in questo caso la soluzione è semplice (a dirsi): semplificare, semplificare e ancora semplificare. Avere una caterva di norme non ha risparmiato all’Italia una sorta di devastazione edilizia, ad esempio. Anzi, è solo servita a far incassare un sacco di tangenti a tanti solerti assessori. E così via.
In conclusione, la lotta alla corruzione non è impossibile. Basta che ci siano pochi soldi pubblici in giro, poca gente che li maneggia e pochissime norme.
Il che significa però fare un terremoto politico. Chi pagherà più manifesti e i “santini” del deputato in cerca di rielezione?


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