"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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Fotogazzeggiando: Immagini e Racconti

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lunedì 30 gennaio 2023

Sura Bizzarri



Come ho avuto di osservare in un'altra occasione, il buon Massimo Troisi, nel personaggio del film “Le vie del signore sono finite” argomentava …… “io sono uno a leggere, loro sono un milione a scrivere”.
Con l’avvento della scrittura la produzione libraria si è sviluppata in maniera galoppante e, grazie a racconti, saggi, testi scolastici e tanto altro prodotto, sono innumerevoli oggi gli strumenti accessibili in tutte le culture democratiche.
L’amica Sura Bizzarri, che ama raccontare, può ben annoverarsi fra gli autori che, con una scrittura affabulata, riesce a trasmettere messaggi che oltrepassano sempre le apparenze.
La lettura dei suoi testi, che è scorrevole e coinvolgente, al termine di ogni racconto induce a rimestare sul vero messaggio da lei immaginato e abilmente nascosto tra frasi che miscelano parole e allusioni.
Nella sua operazione, diversificata nell’affrontare temi e problematiche sempre importanti e differenti, la Sura mostra un talento che le è innato.
Basta una scintilla per metterla in moto nel concepimento di una storia che, con fantasia, riesce sempre a mescolarsi col presente e con le tante problematiche apparentemente invisibili che ci circondano.
I vari temi - sui quali si sofferma - sfiorano con leggerezza argomenti spesso complessi, difficili, talvolta pure urticanti; rendendo comunque ogni cosa leggera e comprensibile attraverso lo scorrere fluido delle tante parole appropriate usate e consone al racconto.
Il lieve amaro, quasi sempre rilasciato nel corso della sua scrittura si riesce a cogliere, attraversando specchi e andando, quindi, oltre i riflessi narcisistici delle tante pozze che abilmente illustra.
È la morale quasi una costante che vuole andare a concludere ogni suo racconto; concettualizzando per sintesi questioni articolate, in genere nascoste perchè complesse o sgradite a molti.
Il talento non s’inventa, tutt’al più si può educare, magari proponendosi agli altri anche attraverso il confronto che, nella scrittura, aiuta a depurare le idee confuse da tante scorie.
Brava la Sura, anche per la magia delle creazioni che ragala a chi ama leggere.


Buona luce a tutti!

© ESSEC

Editatoria di Sura Bizzarri (https://www.unilibro.it/libri/f/autore/bizzarri_sura)

sabato 28 gennaio 2023

"Messe a fuoco - Storie e battaglie di 40 donne fotografe"



Le autrici sono due donne e nel libro tracciano con efficacia le biografie di quaranta fotografe che, per diversità, estrazioni sociali, epoche storiche di appartenenza, tematiche trattate e peculiarità di genere, definiscono un panorama con una visione del mondo della fotografia al femminile.
Un lungo e quasi invisibile filo rosso femminista è evidente nella narrazione delle due autrici, che è messo in mostra con la scelta operata sulle quaranta fotografe, tutte accomunate da una determinazione e una concretezza che lega e fa da collante per le singole tessere.
Potrebbe ben dirsi che, con l’operazione, offrono una loro visione amalgamata ed efficace della fotografia al femminile dell’ultimo secolo.
In tutte le storie è costante un approccio delle protagoniste con l’universo fotografia che parte da una attrazione quasi naturale e che, con metodologie anche differenti ma vissute oltre che come vera passione, come mezzo di indipendenza economica e di emancipazione sociale, approda a un modo diverso di osservare, leggere, immaginare e scrivere la fotografia.
In taluni casi la fatidica “chiamata” per talune è corrisposta alla necessità di evadere da cliché classici “conservatori” che, in un assetto sociale apertamente maschilista, non offriva tanti spazi e reali opportunità all’universo diverso.
La visione e la pratica di una fotografia al femminile, seppur brevemente narrata nel libro dal duo “John/Sparapani”, riesce sapientemente e indirettamente a illuminare anche molte delle zone d’ombra culturali che i fotografi maschi hanno sempre palesato, scoprendo un “lato oscuro della luna” connotato da differenti sensibilità o crudezze (secondo il caso) che nei fatti solo gli altri generi hanno saputo ben mettere in campo.
Goware nell’operazione editoriale ha anche saputo confezionare un volume moderno che, anche attraverso rimandi innovativi a una serie di QR Code, ha arricchito il prodotto con fotografie e video virtuali presenti nelle varie piattaforme pubbliche disponibili nel web, atte a esemplificare con efficacia molti punti dei vari capitoli.
Il volume è disponibile anche in Ebook e chi lo andrà ad acquistare non rimarrà certamente deluso. In forma cartacea il costo è di 16 euro circa e per chi ama o si approccia alla fotografia e vuole avere informazioni (seppur succinte) sulle quaranta fotografe selezionate da Susanne John e Giovanna Sparapani, può costituire un ottimo strumento.
Amazon consente di avere un indice completo delle fotografe illustrate nel libro e di consultare anche alcuni capitoli contenuti nel volume.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

mercoledì 25 gennaio 2023

L’empatia in fotografia



Sono molti i fotografi, anche professionisti, che raccontano come l’approccio nell’attività fotografica presuppone spesso un inserimento nel contesto in maniera soft e progressivo; con un avvicinamento che di frequente induce, nell’immediato, a mettere da parte lo strumento di ripresa per prima cercare di sviluppare una situazione empatica atta a scongelare lentamente il rapporto tra soggetti sconosciuti.
La fregola di catturare immediatamente l’immagine innesca sempre, nell’ambiente in cui si intende operare, diffidenze e ritrosie che di certo non aiutano; ancor di più se ci si è prefissati di svolgere un reportage che, seppur filtrato dall’occhio di chi riprende, difficilmente consentirà di riuscire - d’acchitto - a catturare i famosi “momenti di verità” che ci si prefigge ambiziosamente di cogliere.
Ancor di più l’empatia risulta importante quando, entrati in un ambiente affollato di personaggi, ci si sofferma sull'assai complessa ricerca di ritratti. Allorquando una forma di complicità si deve necessariamente sviluppare tra chi accondiscende a fare da modello e il fotografo. Negli occhi di chi si mette in posa (per come è) traspaiono amalgamati oltre all’ovvia curiosità, vanità e gentilezza, anche l’accenno di un dialogo cerebrale che si sviluppa attraverso lo scorrere di flussi, di frequenze, prodotti da entrambe le parti.
Non necessita parlare la stessa lingua e, anche se il soggetto fotografato e chi fotografa appartengono a mondi culturalmente lontani, quasi naturalmente, il più delle volte, s’innesca in automatico un’intesa che stabilisce un dialogo muto che produce frutti.
La barriera di un’ottica fotografica in ciò concorre positivamente, filtrando in qualche maniera le diffidenze e far sì che le menti, incrociandosi, riescano a sviluppare quasi un confronto che, come detto, non necessita uso di parole. Talune volte bastano anche soli gesti per l'intesa.
Altro aspetto di empatia si evidenzia quando si vuole raccontare con il solo utilizzo di fotografie, ad esempio in un portfolio.
Nelle narrazioni che i fotografi creano attraverso un portfolio, supportato da sinossi introduttive, può manifestarsi o meno nelle letture una certa sorta di empatia che può condizionare.
In questo caso il rapporto empatico interessa direttamente l’autore e il lettore, chiamati entrambi a sviluppare un confronto fra posizioni di partenza non necessariamente parallele.
E' indubbio che l’autore è sempre certo nel proporre una sua idea, che viene ad illustrare con una breve sinossi utile a introdurre e supportare la lettura.
Dall’altro lato del tavolo il lettore, tenuto conto dell’introduzione testuale (anche se taluni non leggono, a loro dire per lasciarsi liberi nella visione oggettiva delle foto), nel visionare l’insieme manifesta una serie di considerazioni.
Qualora abbia letto la sinossi (ma, come detto, non tutti lo fanno), il primo esame è quello rivolto a valutare la coerenza di quanto è stato scritto con la sequenza fotografica presentata; una seconda, l’armonia e la fluidità del racconto. Ci sarà infine da osservare la completezza dell’insieme di tessere, in funzione dell’esaustività complessiva della narrazione.
Ma, poiché autore e lettore appartengono al genere umano, le empatie e le antipatie entrano non di rado prepotentemente in campo, delle volte pure a gamba tesa; prevaricando l’oggettività richiesta e necessaria. Sentimenti e impressioni, sempre di parte, che si palesano attraverso esternazioni assai condizionate.
Può tranquillamente capitare, per esempio, che l’occasionale lettura non corrisponda per nulla (a parere del lettore) alla sinossi o all’insieme sequenziale delle fotografie proposte; perseguendo un percorso logico derivante da cognizioni culturali e visioni differenti.
Ed è per questo motivo, assai frequente, che letture di uno stesso lavoro fatte da lettori differenti non di rado si discostino fra loro notevolmente.
Ma in ogni caso, è certo che l’empatia non potrà mai essere esclusa perché è un accadimento naturale non facilmente gestibile. L'empatia condiziona i rapporti, come ripetutamente capita in qualunque incontro/scontro fra esseri viventi.
Emblematiche appaiono al riguardo le tante frasi che, rischiando di scivolare nel viscido sentiero dell’“autoreferenzialità”, spesso taluni lettori recitano all’autore di turno alla fine delle loro letture. Non considerando, nel caso, che chi si sottopone a quell’esame rivendica quel minimo sindacale che chiede almeno la comprensione del progetto e la coerenza complessiva rispetto al "teorema".
Che l’impressione finale, per il lettore, possa risultare negativa o positiva poco importa, purché egli sappia giustificare, con argomenti potabili, il giudizio che ha, nell'eventualità, liberamente espresso.
Per chiudere sull’empatia è utile considerare che la fotografia, tutto sommato, è anch’essa una delle tante formule comunicative, forse oggi una delle più in voga, che è spesso oggetto di compromessi e tante convenzioni, più o meno condivisibili, presenti nelle regole insite ai giochi che amiamo praticare.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

lunedì 23 gennaio 2023

“Domani è un altro giorno” (Via col Vento)



I metodi per valutare le proprie fotografie sono svariati e presuppongono, comunque nell'analisi, di mettere sempre in campo un certo distacco. Si dovrebbe procedere come se si andasse a visionare foto realizzate da autori a noi sconosciuti. In ogni caso l'approccio presuppone doti di obiettività non comune, specie quando - come spesso capita - l’immagine realizzata coinvolge, per l'andare a contenere anche dell'altro, spesso inerente alla sfera personale, oltre all’evidenza estetica che viene a compore la foto. 
Nell'esame, ad ulteriore aiuto può anche tornare un metodo, oggi facilmente praticabile per l’immediatezza, di osservare la fotografia in versione bianco/nero; per guardare con un altro occhio e una visuale “depurata” dagli elementi che possono distrarre. Provare per credere!
Chi è esperto in materia conosce bene quanto il colore sia importante e quanto esso possa incidere, specie quando si vogliono artatamente accendere e sviluppare messaggi subliminali per indirizzare e indurre verso scelte/comportamenti specifici.
Nell’arte in genere e anche in fotografia il colore può delle volte generare confusione, allontanando talvolta – paradossalmente - anche da quanto avrebbe voluto comunicare lo stesso autore.
Al giorno d’oggi è universalmente riconosciuto che ciò che noi chiamiamo “colore” è in realtà una sensazione soggettiva generata da radiazioni elettromagnetiche.
Non si può certamente negare la grande potenzialità del colore di evocare sensazioni emotive. I colori inducono reazioni istantanee nel cervello e nel sistema nervoso. I colori caldi sono più stimolanti dei colori freddi.
In estrema sintesi, soffermandosi sugli effetti psicologici connessi all'uso di dieci dei colori più usati e all'aspetto comunicativo, studi evidenziano, ad esempio, come:

- il bianco è considerato un colore freddo e rappresenta la purezza che evoca innocenza e fedeltà;
- il giallo si evidenzia cone il colore più positivo e ottimista di tutto lo spettro; perché legato al sole, è un colore “illuminante”, che irradia calore, gioia e spontaneità;
- il rosso è un colore stimolante e coinvolgente, esprime slancio, velocità, potere e gioia, ma anche pericolo e passione;
- il blu, invece, è molto rilassante e rassicurante, costituisce anche il colore che si trova maggiormente in natura;
- il verde, specie se chiaro, è considerato il colore più rilassante di tutto lo spettro; estremamente positivo e riposante, rappresenta anche la sicurezza;
- il colore rosa unisce le caratteristiche positive del rosso al candore e alla moderazione tipica del bianco. È considerato il colore più passivo, favorendo l’affabilità e dissuadendo da qualsiasi comportamento aggressivo;
- l’arancione, che si ottiene con la mescolanza di giallo e rosso, di conseguenza in quanto derivante dalla vivacità del giallo e dall’energia del rosso, rappresenta un colore positivamente "attivo";
- il marrone è un colore caldo, confortante, associato anche al legno, al mattone, quindi alla casa; da qui la grande sensazione di affidabilità, di apertura e di sincerità;
- Il grigio è il simbolo del compromesso, della luce e delle tenebre, pertanto rappresenta il colore neutro per eccellenza;
- il nero rappresenta l’autorevolezza e l’aggressività se usato in modo eccessivo. In fotografia, il nero è uno dei colori più utilizzati; per la sua neutralità e profondità, lo si può usare con qualsiasi accostamento.

Comunque è indubbio che, oltre al colore, gli elementi compositivi in fotografia sono molteplici. Più degli altri, è il “caso” l'elemento che aiuta/influisce nella realizzazione di ogni scatto. Ciascuno ormai riconosce quanto possa incidere nell’attimo fuggente di un click il classico e ormai riconosciuto Fattore C. Sull’argomento si rimanda ai molteplici testi che si dilungano sul tema.
Si può cominciare già dalla scelta a monte, della macchina fotografica alle relative ottiche che si vanno a mettere in borsa prima d'iniziare ogni battuta.
Indipendentemente dalle conoscenze tecniche e dallo strumentario disponibile, la casualità rimane elemento decisivo e ingovernabile.
Un fotografo conosce bene le genesi di ogni sua foto e in forza di ciò è in grado di capire anche, nel caso, le fattispecie che possono interessare le foto altrui. È proprio il fatidico fattore che rende possibili fortune o disfatte.
Nell’approccio di ogni intrapresa, quindi, chi ha passione e pratica la fotografia dovrà sempre prepararsi a tutto e indossare quel sereno fatalismo che gli consentirà di recitare serenamente l'eventuale “mea culta” e poter dire a sé stesso: “che peccato”.
Quando per tanti motivi (deleteria pigrizia, lentezza di riflessi o altre indolenze) ci si sarà sbagliati nell’approccio, nei tempi o altro, nel non essere riusciti a fermare quello che l’intuito aveva lucidamente previsto come accadimento possibile, il famoso personaggio di Nino Frassica d'arboriana memoria - del circolo pseudo-culturale di “Quelli della notte” - avrebbe di certo detto fra sé la stessa cosa, forse aggiungendo: che il “Bravo fotografo” deve saper abbozzare in ogni sua disfatta.
Per concludere positivamente, potrebbe venire in aiuto la celebre battuta del “domani è un altro giorno”, pronunciata da Rossella O’Hara nel famoso film. Frase saggia e di ampia portata, che propone un’analisi universale dell’indole umana, del modo di confrontarci con il resto del mondo e di affrontare ogni difficoltà del quotidiano. Anche perché, facendo tesoro degli errori commessi, ci si potrà correggere nelle opportunità che si presenteranno in futuro e cogliere vantaggi nei nuovi occasionali momenti.
Fotografia compresa, ovviamente!

Buona luce a tutti!

© ESSEC

domenica 22 gennaio 2023

Pakistan 1995 (Slide Show)



Reportage fotografico di un viaggio in Pakistan, seguendo uno dei percorsi della via della seta; in particolare quello che dalla Cina (Pamir) attraversa la catena montuosa del Karakorum.
Le immagini derivano dalla digitalizzazione di diapositive Fuji Velvia.

https://youtu.be/1jym0W4SRTU

Buona luce a tutti!

© ESSEC

mercoledì 18 gennaio 2023

Gragnolate stagionali



Se si è arrivati ad avere oggi un certo numero di anni, vuol dire che la vita è stata generosa. Se poi ci si ritrova senza grandi acciacchi e con una mente ancora lucida, vuol dire che il bicchiere è ancora pieno quasi per tre quarti. Potrebbe andare anche peggio ed è pertanto elemento di saggezza quello di sapersi sempre accontentare.
Atteso che la prospettiva sicura dopo una nascita è quella di approdare a morte certa, fondamentale è non pensarci troppo ed adattarsi a vivere al meglio ogni occasione.
Punto filosofale essenziale per percorrere meglio il cammino esistenziale risulta il famoso detto: “attacca u sceccu u ‘nni vuoli u patruni” (attacca l’asino dove vuole il padrone). Una saggezza proverbiale che aiuta a ridimensionare gli immancabili momenti che obbligano a addivenire a compromessi.
Altro aspetto essenziale per renderci la vita più tranquilla è quella di concentrare l’attenzione sulla realtà concreta e guardare avanti utilizzando i mezzi e le opportunità nel momento percorribili. Retro pensieri o strabismi laterali non aiutano mai e le invidie di certo non facilitano a raggiungere obiettivi, né tantomeno a godere a pieno i ritorni derivanti dai traguardi conseguiti. L’essere ossessionati sempre da nuovi desideri persegue solo quell’idea malsana che vede l’erba del vicino sempre più verde, che genera scontenti e costituisce un vizio inutile di perenne frustrazione.
Le stagioni, che si alternano nel ciclo di vita, propongono sì giornate grigie, piogge e temporali, ma anche cieli limpidi e assolati. Il famoso detto che suggerisce di modellarsi alle circostanze sarà la migliore pozione magica per superare ostacoli e aiutarsi a vivere meglio le opportunità positive che, per ognuno e con modalità e tempi imprevedibili, si andranno con certezza periodicamente a prospettare.
Tornando alla longevità esistenziale, per tutti arriva un tempo in cui gragnolate di notizie tristi pioveranno addosso e, in alcuni periodi, con sempre maggiore frequenza. Sono le dipartite di tanti compagni (amici, nemici o solo indifferenti conoscenti, poco importa), che se ne vanno in mesti silenzi, portando con sé parentesi di tempi condivisi.
La vecchiaia è un potente faro che si accende ad illuminare pensieri e sensazioni compatibili; ma non necessariamente sempre oscuri o grigi, nonostante che le tante dipartite inducono progressivamente a farci sentire sempre più soli.
La morte fisica è certamente un evento immediato, il può significativo degli “attimi fuggenti”, uno stato di fatto incontrovertibile. Nel ricordo degli altri però il decorso è sempre più lento e induce a far rivivere nella mente esperienze di tanti trascorsi.
Nel tempo del 2/3 o 4 punto zero, Google, Facebook e altri social aiutano nei ricordi anche se, mantenendo indistinte l'attività ormai statica dei morti con quella ancora dinamica dei vivi, tendono a mescolare e confondere storie passate con il presente.
Per morire, in ogni caso, occorrere essere nati; e, come risaputo, le combinazioni casuali di ogni venuta al mondo necessitano di una moltitudine di fattori e coincidenze, utili a favorire il caso e ogni qualsiasi elemento insito alla procreazione.
Cesare Pavese, scrittore e poeta, fotografò un epitaffio profetico che fissò un monito perenne, affinchè ogni vivente fosse sempre cosciente del fatto che … "verrà la morte e avrà i tuoi occhi".

Buona luce a tutti!

© ESSEC

lunedì 16 gennaio 2023

Reminiscenze di Ario. Un suo selfie fatto con le parole e un saluto a forma d'ombrello



Sarà stata conseguenza di quella telefonata inattesa, ma Ario quella notte riavvolse il suo film; rivivendo nella sua narrazione quello che era stato in sintesi il suo percorso lavorativo, constatando come in molti punti veniva a riflettersi negli argomenti di conversazione telefonica intrattenuta con l'amico lontano.
Per Ario un punto di orientamento nella vita era sempre stato quello di cercare, ove possibile, di attorniarsi di soggetti migliori; intendendo per tali non necessariamente individui professionalmente più preparati, ma dotati di una intelligenza frizzante, non comune e di una assoluta onestà intellettuale.
Parallelamente, fondamentale era risultata per lui l’arte d’imparare a saper osservare con curiosità; nonché coltivare la disciplina dell’ascolto, per recepire sempre nuovi insegnamenti dalle opportunità che immancabilmente si presentavano in tutte le esperienze vissute.
L’interesse all’apprendimento molto spesso però è negativamente condizionato dalla pochezza di chi insegna.
In campo scolastico, ad esempio, inadeguatezze talvolta producono un rifiuto automatico allo studio delle materie, così come le eccellenze di taluni professori catturano, viceversa, le attenzioni e diventano come delle calamite che convincono a seguirli.
In quest’ultimo aspetto Ario non credeva di essere stato un allievo originale e pensava, anzi, che molti altri, come lui, avevano vissuto repulsioni o innamoramenti dottrinali in relazione alle capacità e alle preparazioni riscontrate nel corpo docenti incrociato in specifici tempi di riferimento.
Oltre al prof d’italiano delle scuole medie, punti fondamentali nella sua formazione erano stati due professori dell’Istituto tecnico. Un primo, avuto per i cinque anni del corso, un secondo insegnante di ragioneria nell’ultimo triennio specialistico.
L’insegnamento scolastico in realtà, come risaputo, è sempre efficace e lascia un segno profondo quando oltrepassa la materia teorica d’apprendimento, quando cioè l'insegnante riesce ad allargare il campo e ad inserire anche la formazione umana nell’allievo. Sviluppando a tutto tondo, quindi, il suo mandato, vissuto più che quale forma di semplice impiego, come una vera e propria missione.
Per questi, comunque, l’obiettivo non è mai quello di plasmare l’alunno - con applicazione di metodi teologici - a propria immagine e somiglianza, ma quello di formare l'allievo, insegnandogli - oltre alla materia di studio - l'applicazione pratica dell’attenzione.
Educando, pertanto, a saper cogliere i collegamenti logici e a imparare a comprenderne i concetti, traendo aspetti essenziali e più importanti da ogni cosa: in altri termini impegnandosi a dare un profilo all’uomo di domani, inducendo a impegnarsi nel cercare di capire sempre e a pensare in autonomia (come si usa dire: usando la propria testa).
L’attenzione e il coinvolgimento in un tale processo di formazione scolastico, una volta che sono stati provati, si assimilano nel profondo ed entrano nel proprio modo di essere. Costituiscono quasi delle vere e proprie dipendenze irrinunciabili che segnano e che condizioneranno quello che sarà in futuro il percorso e l'identità d'adulti. 
Per chi ha avuto tali esperienze può accadere, quindi, che tutto quello che si viene a valutare scialbo possa poi essere vissuto come banalità e che, nel perpetuare dei cicli apatici e ripetitivi, si possano creare demotivazioni; assuefacendosi lentamente all'indifferenza nello svolgimento di compiti quotidiani insipidi che, non di rado, innesca talvonta anche forme d'involontaria depressione.
Nella sua esperienza giovanile, l’assenza di rigidi obblighi nel breve percorso universitario, consentì ad Ario di vivere l’occasione di libertà che gli si era aperta positivamente.
L’autogestione nello studio di materie da lui prescelte nel piano di studi (che gli stimolavano interesse) venne quasi a costituire la prosecuzione naturale del suo fortunato percorso scolastico vissuto nelle scuole superiori.
In un breve lasso di tempo, però, come rovescio della medaglia, l’ingresso traumatico nel mondo banca comportò una quasi immediata apatia esistenziale; essendo venuta a spegnere ogni ambizione a voler ricercare nuovi stimoli e veri interessi. Più volte un collega amico poi venne a ripetergli di non abbandonare gli studi perchè, a suo dire, anche i tavolini laureati in quell'ambiente erano destinati a fare una rapida carriera.
Il lavoro da cassiere era visto da Ario come molto assomigliante a vera forma di pura e snervante detenzione. Per quel lavoro, non occorreva pensare, non c’erano occasioni per alcun confronto, occorreva contare (1/50-1/50 metodo inculcato e in uso per contare fino a cento), riconoscere il falso e “infascettare” soldi.
Quell’attività frustrante era come l'andare a vivere nei luoghi famelici privi di prospettive e ascoltare quasi una voce di sottofondo che continuamente, come in quel passo infernale del poema di Dante, veniva a ciclicamente a recitare: perdete ogni speranza o voi ch’entrate.
Nella sua rivisitazione ritornò pure a galla lo squallore vissuto durante la sua prima esperienza di verifiche ispettive interne subita; controlli svoltisi con rituali stupidi, anche per come erano concepiti, regolati ed eseguiti; al riguardo, gli tornò in mente anche l'allucinante interrogatorio finale cui fu sottoposto nella qualità d'impiego svolto come semplice aiutante di cassa, ultima ruota del carro di quel compartimento stagno derelitto (rileggendo poi il bollettino valutativo che lo riguardava scoprì che i tre ispettori avevano scritto su di lui grosso modo, come indicazione a futuri esaminatori per avanzamenti di carriera: "soggetto su coi non potrà farsi affidamento"; bollato per sempre, quindi).
Ma talvolta tutti i mali non vengono per nuocere e così, grazie al desiderio represso e ciclicamente frustrato di poter rientrare nella residenza d'origine, Ario si accinse a sperimentare - per la prima volta - una scelta di quelle da “pioniere”, che avrebbe poi ripetuto in seguito.
L’opportunità concessagli, di poter passare senza vincoli (ma con un salto mortale a rischio) da un ruolo all’altro (cosa prima di allora interdetta), gli consentì di uscire dal ruolo di cassa e approdare al ruolo amministrativo della banca.
Chi è stato addentro alla materia può capire molto bene quello che ciò andava a comportare, specie nell’ambito di una istituzione polivalente, che annoverava al proprio interno strutturale atipico tanti compiti variegati, specifici e, peraltro, non sempre strettamente interdipendenti.
Con quel passaggio, ad Ario si vennero ad aprire quindi vaste praterie e tanti campi verdi inesplorati erano ora disponibili per poter apprendere delle cose nuove e poter spaziare fuori da quello che era considerato, nello stesso ambiente e senza mezzi termini, un vero e proprio “ghetto”. 
L’uscita dagli oscuri antri del comparto cassa veniva ora ad offrire, infatti, ad Ario l'opportunità per mettere a frutto i principi di contabilità studiati, di conoscere molteplici aspetti segretariali più propriamente amministrativi, di poter districarsi nei meandri articolati della spesa pubblica che erano annessi al servizio di tesoreria svolta per conto dello Stato, di scoprire i diversi compiti segreti di vigilanza cartolare e ispettiva (insiti ai controlli istituzionali operati sulle altre banche).
La sua sete di conoscere, da sempre innata, poteva ora riabbeverarsi, perché il ruolo nuovo gli consentiva di implementare il campo d'azione e di respirare aria nuova e anche .... aria di montagna.
In breve ebbe modo di diversificare e, cambiando continuamente assegnazioni, con lo svolgimento di compiti sempre diversi.
Si veniva a verificare, quindi, quasi un disgelamento nella sua mente, come fosse un risveglio da letargo e con la possibilità di poter riassumere quella “droga conoscitiva” che aveva avuto modo di scoprire grazie ai suoi migliori docenti. Un qualcosa che il suo cervello reclamava e che era mancata per tanto tempo.
Per farla breve, Ario ebbe tante opportunità di girare molto ed essere impiegato in tutti i possibili utilizzi della banca ma, una volta visitate professionalmente tutte quante le cappelle, ebbe modo di scoprire che questo gioco del "diversificare e mettere a frutto" che lo aveva tanto affascinato e aiutato a rinascere non poteva però funzionare in eterno.
Lo stimolo di poter innalzare sempre più l’asticella, una volta raggiunta l'altezza più alta a lui possibile (nel caso, con l'integrazione stabile al corpo ispettivo di vigilanza nazionale), aveva messo a frutto la miscellanea massima conseguibile, avendo quasi completato tutte quante le conoscenze che nel tempo erano da apprendere.
Ma Ario era pure conscio e sapeva bene che ogni interesse si riesce a mantenere solo a condizione che le varie tessere esperienziali risultino sempre funzionali e diverse. La curiosità persisteva, infatti, fin quando rispondeva a logiche che consentivano di completare il disegno del suo puzzle professionale che, da parziale, si viene via via a completare; e solo riuscendo a incasellare ogni volta un ulteriore piccolo elemento innovativo che va a integrare.
Con il suo rientro nella sede di origine Ario aveva, quindi, avuto modo di verificare come, a un certo punto della carriera, può non aver molto senso ritrovarsi a scegliere di ripercorrere sentieri che riportano all’indietro; non poteva del resto suscitargli fascino o interesse un camminamento da gambero e spesso ritrovarsi a riproporre e ripetere, in maniera meccanica e delle stesse solite cose sciatte, in una operatività non stimolante che non richiedeva particolari attenzioni. Quindi: spunte di documenti da poi portare alla firma, verifiche di tabulati apponendo aste, routinarie attestazioni prive di originalità creativa e tanto altro ancora; anche con confronti con superiori che in non rare volte risultavano a lui duri di comprendonio. Non rare volte Ario si era ritrovato a volare basso insomma e, senza offesa per nessuno, sforzandosi nell’applicarsi in lavori sostanzialmente da semplice ciclo produttivo di catena di montaggio, ad avvitare e verificare la tenuta dei bulloni, come un metalmeccanico qualunque.
La verità che ne deriva è quella che, una volta disvelate e assimilati i riflessi di luce delle molteplici facce che costituiscono un prisma, non si può trovare alcuna attrazione o provare un minimo coinvolgimento nell’essere chiamati a osservare e disquisire su disegni fortemente elementari, statici, privi di complessità, assemblati genericamente in elementi apparentemente distinti, ma seguendo schemi standardizzati, per lo più piatti e privi di colore.
L’istituzione in cui aveva avuto la fortuna di operare e spaziare aveva consentito ad Ario di apprendere e crescere nel venire a conoscere e gestire moltissimi aspetti e cose.
Aveva avuto l'opportunità di girare metaforicamente e, un pò come si racconta nel poema, come un Virgilio, di poter conoscere e visitare nell'interno i tanti gironi d’inferno, purgatorio e paradiso che, con le rispettive caratteristiche, di frequente coestistono nell'universo di qualsiasi ambiente lavorativo.
Durante il percorso i molteplici personaggi incontrati, se negativi Ario li aveva fin da subito "(S)cancellati", mentre continuava tuttora a conservare stima e bellissimi ricordi per coloro (non rari) che aveva subito riconosciuto come delle figure eccelse, per grandi tratti simili e accostabili ai suoi grandi maestri.
La carriera lavorativa di Ario venne a chiudersi, per quanto intuibile, prematuramente con delle dimissioni volontarie che suscitarono impressione.
Aveva inconsciamente così anticipato la maturità dei tempi, evitando anche di partecipare e assistere alla lenta progressiva decadenza di quella che era stata la sua "Grande e Mitica Istituzione".
L’abbassamento del livello professionale personale d'impiego non era stato, in ogni caso, il vero motivo che lo portò a prendere la traumatica netta decisione, ma una intervennero una serie di concause che - venutesi a sommare - andarono a creare un insopportabile grumo.
Nel tempo, aveva ampiamente avuto modo di sperimentare la presenza costante di quella pericolosa "autoreferenzialità vischiosa" che impregnava indifferentemente tutto l'insieme di quell'ambiente.
La compresenza poi di una direzione tronfia e la sussistenza di ingerenze di soggetti cooptati d'autorialità impropria e scorretta, operata da personaggi che definire squallidi sarebbe benevolo, furono di fatto le reali motivazioni che alla fine generarono l'accelerazione devastante di quella famosa goccia che infine fa traboccare il vaso.
In conclusione, lungi dall'idea di spurare nel piatto dove Ario s'era abbondantemente abbeverato (culturalmente e economicamente) e che gli aveva offerto tante opportunità e fortune di vita, pur con tante nostalgie, risultò necessario - e quasi vitale; e anche qui, come la necessità di dover assumere la sua droga, l'esigenza di rivolgere un "saluto disintossicante" - a forma d'ombrello ma con tanto calore - ai tanti suoi ex "colleghi quaquaraquà" che aveva avuto modo di frequentare e conoscere, anche d’alto rango.
Triste era per ora Ario il venire ad apprendere e, quindi a constatare, come ancora certe problematiche permanessero e fossero rimaste paradossalmente (e per molti aspetti) quasi immutate; ripresentandosi inopinatamente nella vita lavorativa di altri colleghi più giovani che, come lui, erano ampiamente dotati di preparazione e ricchi di variegate esperienze.
Soggetti che secondo criteri di meritocrazia, magari avrebbero dovuto attendersi specifici ambiti qualificati d'assegnazione ma che, in quanto giudicati "troppo indipendenti", all'apparenza umili, sensibili e, quindi, poco ambiziosi o gestibili, restavano emerginati, trascurati e ritenuti non adeguati per specifici e standardizzati “giusti utilizzi”. La solita menata, insomma!
Nel "Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa di parla di una verità tutta italiana e che, sostanzialmente, si mantiene intatta: "tutto cambia perché nulla cambi". Ossia: se tutto cambia esteriormente, tutto rimane com'è; se tutto rimane com'è, tutto può sempre cambiare interiormente.

Buona luce a tutti!

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sabato 14 gennaio 2023

Fabio Sgroi, il fotografo dell’attimo fuggente



Assistendo all’intervento di Fabio Sgroi (https://www.fabiosgroiphoto.com/about/), nel corso dell'evento pomeridiano, ho pensato di trovarmi di fronte a un discepolo del professor John Keating (interpretato dall'indimenticabile Robbie Williams) che, nello splendido film "L'attimo fuggente", invitava i suoi allievi a salire sul proprio banco allo scopo di potere avere una visuale più ampia rispetto a quella limitata offerta dallo stare seduto. In presenza, quindi, di un attento allievo che, nel suo lungo percorso professionale, era riuscito a ben apprendere e a cogliere l'essenza nel saper catturare i momenti nell’esercizio della fotografia.
Dopo aver sentito parlare su di lui, era arrivata l’occasione di conoscerlo personalmente nel corso dell’incontro organizzato dall’associazione Arvis di Palermo.
In realtà, mi aspettavo di trovare un certo personaggio ma, il disincanto e la schiettezza nel suo modo di raccontare i tanti aneddoti e i vari approcci con la fotografia, mi facevano scoprire un soggetto che nella sua arte corrispondeva perfettamente al famoso Flaneur parigino descritto in tanta letteratura e tanto caro al mio amico catanese Pippo.
Specie per quanto narrato sui suoi primi approcci e per come si era inventato fotografo; un po’ per una innata curiosità di voler sempre sperimentare e, soprattutto, per rispondere all’esigenza di voler raccontare quello che era il suo sentire e che il suo occhio vedeva, pur ritrovandosi a spaziare in anche un campo di azione assai diverso da quello parigino.
Gli anni ottanta sono stati un periodo di fermento in tutto l’occidente e anche Palermo offriva opportunità per un certo tipo di fotografia.
La passione per la musica e il suonare una band costituisce per Fabio un’ottima chiave per entrare a pieno nel suo mondo giovanile e nell’attualità del tempo.
Le fotografie d’inizio, volte a fotografare gli amici coetanei, che ordinariamente frequenta, sono un’ottima palestra per allenarsi nella cattura dell’immagine e affinarsi sulla ricerca del giusto momento di uno scatto volto a cogliere l’attimo fuggente.
L’ampio reportage da lui realizzato sui movimenti studenteschi, specie quello riguardante l’occupazione della Facoltà di giurisprudenza in via Maqueda a Palermo, costituisce oggi un prezioso documento e diventa un esempio del suo personalissimo metodo di narrazione.
È forse o anche quest’ultimo aspetto, accompagnato alla necessità lavorativa, che gli permette o gli facilita la possibilità di poter entrare nell’entourage di Letizia Battaglia e Franco Zecchin impegnati ad operare nel L’Ora.
Il biennio trascorso nel Giornale L’Ora apre a Fabio opportunità per esperienze nuove, che però non collimano pienamente con la sua idea di fotografia, anche perché la sua visione della cronaca non predilige certo l’andare a documentare ripetutamente scene cruente di morti ammazzati.
Gli cade, quindi, a fagiolo l’assunzione stabile intervenuta intanto alla Regione siciliana in qualità di fotografo, che gli permetterà di poter ritornare al quel flaneur disincantato che osservava e coglieva ogni cosa seguendo il naturale istinto.
La nuova condizione gli consente solidità economica e di poter viaggiare con più frequenza; così da poter vedere altri mondi e cogliere momenti di altre realtà, fedele e rispondendo sempre alla sua vera indole. In ogni caso, nel tempo, usando il testo di una celebre canzone di Franco Battiato, Palermo costituisce ed è ancor oggi il suo “centro di gravità permanente” e la costante passione per la fotografia lo porta a continuare a cogliere tante immagini, mai banali, sia del territorio che di personaggi che si trova a incontrare.
I suoi reportage rappresentano indubbiamente dei tasselli che hanno congelato gli umori, gli odori e le atmosfere della vera Palermo che è riuscito a cogliere.
L’autore Sgroi, che si presenta oggi per venire a raccontare tanti aneddoti di storie vissute praticando la fotografia, mostrando quasi leggerezza e estrema naturalezza nella narrazione, sottolinea più volte il fatto di quanto il caso va a condizionare ogni fotografia, a prescindere ovvero indipendentemente da quanto può apportare il quid in più del talento, che rimane elemento indispensabile. 
Le sue convinzioni sull’importanza del caso si conciliano perfettamente con la fatalità tipica che è presente in molti meridionali che, con estrema serenità, vivono i momenti.
Come anche dimostrano le immagini proposte, il suo modo di fotografare non è stato mai rivolto alla spasmodica ricerca dello scoop, ma sempre al desiderio di scrivere con la sua reflex ciò che la sua mente riusciva a leggere.
Elemento costante nella esposizione della sua carriera fotografica è stato, quindi, un elemento che ho sempre condiviso e che, fino a ieri, quasi nessuno voleva riconoscere, specie coloro che si ritenevano già famosi o pubblicamente affermati come maestri di fotografia. In poche parole, nelle sue argomentazioni appare costante l’incidenza del caso.
Al di là del naturale talento deve esistere una regola e, soleva ripetere al riguardo un caro amico, “se non ti persuadi …. lascia perdere”.
Tornando al caso (o fattore C) l’aleatorietà è spesso sovrana nel tipo di fotografia denominata “street”, che è rivolta sempre alla cattura di un certo giusto sguardo/espressione, del riconoscere/immaginare a volo la situazione che matura e saper fermare la scena importante e l’accadimento di maggior rilievo che intanto succede.
Oggi questa peculiarità sembrerebbe essere più accettata e, anzi, è quasi diventata di moda.
La fotografia di Sgroi e il suo modo di fotografare conserva il sapore della genuinità che talvolta porterebbe a valutare semplice quello che semplice non è; anche per quella miscela che la contraddistingue e che lui usa e evidenzia come suo marchio di fabbrica. In specie laddove è riuscito a contaminare l’istinto con la fantasia che, con una vena di sana anarchia più o meno consapevole, lo porta a chiedere il permesso di poter fotografare sempre e dopo che ha già effettuato lo scatto.
Per concludere, ritornando alla citazione cinematografica d’origine (utilizzata in passato in un altro scritto), con la sua narrazione in fondo Fabio Sgroi forse ha voluto ricordare, al folto numero di presenti nella sede sociale dell’Arvis, quello che era il pensiero centrale del famoso film del 1989: "Carpe", "Carpe diem", "Cogliete l'attimo, ragazzi", "Rendete straordinaria la vostra vita"! "Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità, succhiando tutto il midollo della vita. Per sbaragliare tutto ciò che non era vita e per non scoprire in punto di morte che non ero vissuto".

Buona luce a tutti!

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P.S. - Per chi volesse prendere visione del filmato sull'incontro, questo è possibile tramite il seguente link di You Tube: https://youtu.be/Rda67wTuppQ

martedì 10 gennaio 2023

Figli di puttana!



Ogni tanto, specie quando si ha voglia di scrivere, è necessario discostarsi dal solito campo serioso e magari è utile avventurarsi anche nel politically correct inteso, come senso, all’uso attributivo del termine, riferendosi cioè a discorsi e comportamenti improntati al rispetto delle minoranze e dei gruppi sociali più deboli e discriminati.
Secondo tale logica, anche se potrà risultare a qualcuno indigesto, si viene a discernere e a dilungare su una terminologia indicata semplicisticamente con l'aggettivazione: “figlio di puttana”.
In premessa è da tenere conto che le fecondazioni in vitro sono una tecnica di riproduzione assistita, che consiste nell'unione realizzata in laboratorio di un ovulo e di uno spermatozoo del partner maschile della coppia o di donatori, allo scopo di ottenere embrioni già fecondati da trasferire nell'utero materno.
In queste circostanze maternità e paternità sono certe, poiché i portatori di spermatozoi e ovulo sono schedati, anche se possono non necessariamente corrispondere a una coppia di fatto (per convivenza o unione civile/religiosa certificata).
Una incertezza si profila solo in fattispecie nelle quali intervengono dei donatori le cui generalità, di regola, sono secretate e di regola non rese note a chi vi ricorre.
Nella maggior parte delle situazioni ne deriverebbe che le discendenze dovrebbero essere acclarate. Ancor di più per il fatto di essere legalmente rafforzate dai cognomi attribuiti, che vengono così a fissare un posizionamento genealogico familiare.
Ma come annota la Treccani: “il diavolo fa la pentola ma non il coperchio. Il che sta a significare come sia più facile fare del male che evitarne le ricadute negative”.
La stessa notazione enciclopedica continua osservando che “il diavolo è presentissimo nella tradizione proverbiale come personificazione del male e degli istinti maligni che albergano negli esseri umani”. Inoltre ricorda che “i proverbi sono depositari di prudenza popolare e di buon senso - o senso comune - non di rado venati di moralismo. Per questo il diavolo vi figura spesso come cattivo o imperfetto consigliere”.
Il suggerimento che viene lanciato è semplice e netto e, come nel caso del proverbio in questione, intriso di pragmatismo: “meglio non architettare azioni malvagie (o anche solo disoneste) perché è facile che si ripercuotano contro chi le ha pianificate e commesse. Avendo fatto del male, insomma, i conti finiscono col non tornare e il malfattore ne paga in qualche modo le conseguenze”.
Tornando a noi, parlando di padri, madri e figli può anche accadere, nel caso di geniture non assistite, che ci si possa trovare in presenza di due casi di figliolanza, con un’eventualità normale di essere effettivamente figli della coppia riconosciuta o che uno dei due non sia mai stato attore consapevole nella inseminazione procreativa.
In questa seconda fattispecie un figlio - anche volgarmente indicabile in modo colorito, senza correre rischi di andare a sollevare conflitti di genere - potrebbe essere aggettivato indifferentemente come "figlio di cornuto" o "figlio di puttana".
A questo punto tornano ancora in aiuto i proverbi, quando ci dicono che Mater semper certa est, pater numquam (la madre è sempre certa, il padre mai); ed è per tale ragione che uno dei principi classici del diritto civile è basato su una massima di esperienza (che nemmeno i progressi scientifici sono riusciti ancora a smentire), in base alla quale se è facile individuare la madre di un soggetto, la ricerca della paternità è spesso difficile, e, in qualche caso, impossibile. Ecco perché la legge ricorre alla presunzione di paternità in base alla quale colui che è stato concepito durante il matrimonio si presume figlio del marito della madre.
La morale dello scritto induce a far tesoro su quanto detto e a essere, pertanto, molto prudenti e attenti nell’opportuno uso delle parole.
Del resto, chi è figlio di un cornuto lo è molto di frequente a sua insaputa e il padre che lo cresce (a prescindere dell'essere ignaro, complice o buono d’animo come un San Giuseppe), col tempo vi si affeziona comunque, come se fosse figlio proprio.
Più complessa e articolata (e talvolta pure spinosa) si può presentare la posizione della madre, che di certo è consapevole e, spesso, anche unica depositaria della verità.
Per il solo fatto che “i figli so’ piezze e core” e sono tutti uguali (come in Filumena Marturano di Eduardo De Filippo), chi è madre tende a proteggere tutti quanti i suoi figli e in egual misura.
A prescindere dall’uso popolano che si suole dare all'appellativo "figlio di", specie nel voler descrivere spregiativamente chi si dimostra scorretto e disonesto per indole o natura, è utile tenere a mente un aspetto facilmente conclamabile; ovvero che i figli di puttana o di cornuti potenziali, quelli veri, possono essere tanti, indipendentemente e nonostante le origini presunte. Poi c'è chi mi fa notare che ci sarebbero anche "i figli di.... D.o.c. e i poveri diavoli generici"; sarebbero queste delle peculiari sottospecie che necessiterebbero altre complesse argomentazioni. Chi vuole potrà comunque discernere e approfondire l'argomento a proprio piacimento perchè, a prescindere (come usava ripetere il grande Totò) da ogni apporto, qualunque punto di vista costituisce sempre un valore aggiunto.
Meglio sarebbe, quindi, limitarsi a valutare per le caratteristiche e i comportamenti etici manifestati dai soggetti, piuttosto che indagare sulle origini, o misurare i termini in relazione a dicerie o risultati d'indagini condizionati dal "sentito dire"; perché i "cosiddetti" potrebbero rivelarsi anche migliori, indipendentemente da qualunque convinzione sulla loro presunta o reale discendenza.

Buona luce a tutti!

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Daniela Sidari: Consigliere Fiaf



Durante una delle nostre ampie conversazioni l’amico Pippo mi ha chiesto: “dimmi un po’, ma il contributo che Daniela ti ha inviato per il progetto sulla street art era un lavoro che aveva preparato per l’università?” Gli ho risposto di no e che si trattava di uno scritto specifico finalizzato all'operazione, per il quale aveva effettuato una attenta ricerca che è durata alcuni mesi.
Ecco, oltre alla grande generosità questa è una delle peculiarità di Daniela Sidari, da poco Consigliere nazionale della Fiaf, da tempo socia del Gruppo fotografico Le Gru di Valverde, eccellente fotografa e docente di fotografia.
Un suo cavallo di battaglia nella produzione personale - e di cui va fiera - è costituito una serie di immagini surreali, realizzate con una tecnica che definire originale è poco. Non so se oggi unica in Italia, ma seguendo la magia nell’arte della eterna ricerca della cattura della luce, nel suo ampio spettro, la personale collezione di fotografie sulla “solarigrafia” lascia sempre incantati gli osservatori nel corso delle sue mostre.
Al riguardo, un efficace articolo pubblicato su “Cronache di Cult” a sua firma fornisce gli elementi per comprendere la complessità e la complicatezza dei passaggi necessari alla realizzazione delle delicatissime opere.
Le autorevoli recensioni annotate in calce del suo articolo, sottolineano la bravura e l’originalità di un’operazione che, come in molti portfolio fotografici, si implementa in continuazione e non ha mai fine (https://fiaf.net/agoradicult/2019/02/17/paesaggi-di-sole-di-daniela-sidari/).
Nata Architetto, si è specializzata e lavora ora come grafico, essendo [D] Graphics & photography, e ama spaziare principalmente nella creatività fotografica prossima al concettuale. Anche per tale ragione le sue proposte non sono mai banali e, anche per l'estrema cura estetica posta nelle composizioni fotografiche, ogni elemento rappresentato nella sua fotografia cattura sempre lo sguardo e quasi accompagna per mano.
Forse l’aspetto più difficile di ogni autore è quello di coinvolgere, nel far entrare l’osservatore nel proprio sentire, attraverso un proprio linguaggio che è unico in ciascuno che si propone come artista. Ecco, Daniela Sidari, anche nelle illustrazioni dei lavori (siano suoi o anche prodotti da altri, che accetta di presentare) ha la capacità di affabulare, rendendo comprensibile la narrazione e donando anche leggerezza a proposte che potrebbero apparire complesse.
La sua formazione fotografica nasce con Silvano Bicocchi, suo tutor nel DAC (Dipartimento Attività Culturali) allora diretto da Giancarlo Torresani. La sua collaborazione con Bicocchi (oggi Direttore del Dipartimento Cultura nella Fiaf) è continuata nel tempo. Con il suo recente ingresso nella compagine dirigenziale Fiaf, in forza della determinazione e delle tante idee custodite nel cassetto e che da sempre vuole portare avanti, Daniela Sidari costituirà certamente un punto di forza per l’associazione nazionale, per Le Gru e per tutti coloro che la conoscono, che con lei collaborano e amano la fotografia.
Indubbiamente il suo impegno, anche per il ruolo accademico ricoperto presso l’università di Reggio Calabria, potrebbe essere d'auspicio per contribuire alla promozione della fotografia come materia d’insegnamento scolastico, almeno negli istituti superiori: e sarebbe ora!

Buona luce a tutti!

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lunedì 9 gennaio 2023

L’editoria minore rappresenta oggi forse l'unico e solo baluardo attivo volto a preservare indipendenza e libertà di pensiero



Propostomi dalle pagine di Facebook, ieri ho rilanciato nel blog un bell’editoriale che Franco Carlisi ha di recente pubblicato nel suo periodico “Gente di Fotografia” (rivista fondata all'origine da Vincenzo Mirisola, venuto a mancare, per un brutto male, proprio in questi giorni).
Lo scritto di Carlisi sviluppa un complesso argomento che tenta di discernere e trovare punti di comunanza o differenze fra l'arte e la morte. Argomenti non di poco conto che innescano voglie di approfondimenti per i tantissimi aspetti che si vanno a incrociare.
Nel mio piccolo, ho voluto cogliere lo spunto per sviluppare delle considerazioni più superficiali, che forse rappresentano anche aspetti marginali - o un corollario - rispetto alla profondità del tema, ma che in qualche modo hanno delle attinenze sotto l'aspetto pratico.
Come è naturale ogni cosa che appare diversa da quanto costituisce il nostro vivere quotidiano induce a curiosità e ci attrae. Ancor di più questo accade in fotografia, laddove la proposta d’una immagine inusuale o esotica immancabilmente calamita l’occhio della nostra mente.
Anche per ampliare e aggiornare le nostre cognizioni nel campo dell'immagine è indispensabile dare continuità nell'allargare sempre più il panorama, per cercare di implementare il bagaglio culturale e, fortunatamente nel predisporsi a voler percorrere tale missione, sono oggi disponibili strumenti utili allo scopo. Supportano a tal proposito le riviste di settore, che vengono a recensire le tendenze e novità editoriali meritevoli d’attenzione. Pubblicazioni che, confezionando le variegate proposte artistiche dei tanti autori che operano nel mondo fotografico e dell'immagine, informano su quanto accade.
Nel campo, una formula editoriale unica non esiste ne potrà mai succedere e la completezza informativa dipende, pertanto, da una miscellanea delle specificità di ogni direttore responsabile che, seppur impegnato secondo un suo modo di vedere, rimane orientato e sviluppare quelle che per lui sono le linee artistiche innovative o di tendenza degne di attenzione.
“Con la cultura non si mangia”, era stata la infausta frase inserita in un discorso governativo del 2010 inerente a investimenti economici; un'affermazione che costò gli strali della sinistra e del mondo della cultura italiana all’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti (frase passata alla storia, nonostante poi ebbe sempre a smentire la paternità di tale affermazione, dichiarando più volte che all’epoca le sue parole furono travisate).
Tranne delle rare eccezioni però è proprio l’aspetto finanziario il punto più dolente e forse la principale problematica che accomuna quella che si usa ondividuare come "editoria minore"; molto spesso basata su idee e valide linee culturali, talvolta pure ambiziose, che stentano nel riuscire a sviluppare e consolidare un'utenza o una base di abbonati adeguata e sufficiente a supportare economicamente l’attività d'impresa.
In ogni caso, oggi è indubbio che gli editori minori si rivelano indispensabili per il perseguimento del sillogismo culturale necessario a ogni ragionamento composito e complesso.
Riviste periodiche, seppur generate da fonti talvolta disomogenee e orientate su percorsi differenti, sono le uniche realtà che forniscono quelle tessere necessarie a completare il quadro di un unico disegno e, i tanti frammenti parziali sono elementi del panorama multidimensionale che solo così potrà essere osservato nella piena interezza; visionabile posizionandosi nei diversi livelli e punti di osservazione (interni ed esterni); consentendo una vista d'insieme la più completa e utile a sviscerarne ogni aspetto, sull'argomento e sull'operazione che è frutto dell’ingegno creativo.
Un processo continuo che, consegnando agli altri quello che rappresenta un parziale punto di arrivo, a sua volta, sarà base di partenza per nuove ricerche ed altri esperimenti contemponanei o generazionali.
In questa logica restano bene accetti anche gli apporti propositivi rivenienti dai social e dalle piattaforme che offrono contenuti innovativi e divulgativi. Tutto torna utile come mezzo o scopo se l’intento sarà quello di formulare proposte e consentirne delle letture più ampie.
Così le riviste settoriali, anche di fotografia, differenziandosi nel proporre temi e a miscelare l'antico col moderno, offrono spunti per rivelare analogie tra passato e presente o aiutano a osservare i tantissimi fenomeni nuovi e le proposte internazionali che solcano il terreno vergine della sperimentazione e, fortunatamente, comitati redazionali ristretti, direttori responsabili, critici e osservatori qualificati di queste piccole realtà hanno opportunità per andare a scegliere strategie culturali, scrivere editoriali e articoli atti a sviluppare punti di vista sulle tante tematiche messe in campo.
Con una operazione che riesce a neutralizzare o che attenua, in parte e per quanto possibile, l’avvento invadente del web che, con tante opportunità, apparentemente offerte come free, in verità alimentano e consolidano vistosi e ingombranti monopoli che, in assenza di adeguate regole antitrust, controllano senza freni il mercato globalizzato; condizionando, con l'avallo di una politica assente e in sostanziale anarchia, gli orientamenti culturali di massa.
Per concludere può ben affermarsi che, in questo triste scenario, l’editoria minore rappresenta oggi forse l'unico e solo baluardo attivo volto a preservare indipendenza e libertà di pensiero. Riuscendo ad alimentare con i suoi pochi mezzi formule e tematiche differenti, essa acquista un ruolo nevralgico, indispensabile a monitorare le proposte e alimentare i relativi tavoli di confronto e i correlati dibattiti.

Buona luce a tutti!

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domenica 8 gennaio 2023

Bianco (di Franco Carlisi: Editoriale #79 Gente di Fotografia).



Si propone l'editoriale di Franco Carlisi, pubblicato sull'ultimo numero della sua rivista "Gente di Fotografia"

Buona luce a tutti!

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Bianco.

Se potessi scattare una foto il cui tempo di esposizione sia la vita intera – con inquadratura fissa alla maniera di Rossellini – che registri su un fondo di gioie, fatiche e pene, legittime e inspiegabili il mio dibattimento degli ultimi cinquant’anni, che immagine otterrei? Con ogni probabilità un rettangolo completamente bianco. Una vita intera annientata da un abbaglio di luce. Bianco. Le ore belle, felici, quando ti senti in pace col mondo. I giorni persi dietro ai vetri ad aspettare che qualcuno venga a cercarti. I visi e gli sguardi di chi hai amato, le parole e i silenzi, i gesti senza passione, gli amori senza qualità. Bianco. «Niente è più terribile di questo colore/Una volta separato dal bene/ Una volta accompagnato al terrore»1. È forse questa la morte? E precipitandovi dentro, nell’attimo stesso in cui capisci che è per sempre e magari potresti rinascere nuovamente alla luce ma senza alcuna traccia di quello che eri o per sempre non essere più, che cosa ti rimane se non aggrapparti al filo della memoria, labile all’estremità della vita? La memoria camuffata da vita attenua la paura del nulla che la morte si porta con sé. Si può accettare di morire, ma non di svanire. Il nulla di sé non è sopportabile. Ma la morte non è soltanto fisica. Lo si può affermare senza addentrarsi in discorsi che riguardino la psiche, intesa come si voglia, anima o mente che sia. Intendo che la morte è sempre presente nella nostra vita perché ogni volta che il giorno è andato quel me è morto per far posto a quest’altro me che sono io mentre scrivo o che sei tu mentre leggi. Parafrasando Seneca: la morte non è un futuro ma un presente che divora ogni giorno una porzione sempre più ampia di noi. Eppure accogliamo con una certa indifferenza questo continuo morire – che è una realtà ricompresa nella vita – proprio perché il nostro presente si sostanzia di identità, memoria e morte. Esattamente come la fotografia. Lo sapeva Barthes quando mostrava il condannato a morte – Lewis Payne – in una celebre foto di Gardner, indicandolo come colui che è morto ma sta per morire. Tutti noi siamo condannati a morte. Tutti noi stiamo per morire. Il quando è incerto. Il quando è la speranza. Quella che ci spinge a vivere facendoci credere che l’argomento riguardi gli altri. Eppure basterebbe prendere la foto di coloro che hanno assistito alla condanna di Lewis Payne, avvenuta nel 1865, per dire con certezza che tutti – compresi i loro figlioletti nelle case, compresi tutti gli abitanti di quella città, dell’intero pianeta in quel momento –, tutti sono morti. Un’ecatombe. Ciò nonostante vediamo ancora lo sguardo assente di Lewis Payne e il sorriso abietto nel volto di Baudelaire e forse abbiamo anche visualizzato la grazia negli occhi della madre di Barthes pur non avendo mai visto la Fotografia del giardino d’inverno. Il senso di qualcosa che si eterna appartiene solo all’arte. Il lettore non me ne voglia se scrivo mestamente in questa giornata d’autunno travestita d’estate, col pensiero rivolto ai quattro amici persi prematuramente nell’ultimo anno e una stretta al cuore simile a un rimpianto. Due letterati, un disegnatore e un pittore, luminosi invulnerabili. Mi piacerebbe che ciascuno di loro tornasse a parlarmi un poco, e per un poco condividesse con me pensieri e passione. Ma non ci sono più strade da percorrere insieme né sogni da infrangere, nessun male più povero dell’assenza che li affligga e di cui possa averne cura. Ho imparato la morte degli altri come fosse la mia. Quando perdiamo qualcuno cerchiamo di riafferrare la sua umanità non soltanto attraverso la memoria ma sfidando un’impossibilità: l’incontro. Ne abbiamo bisogno perché la nostra fedeltà a questa terra necessità di qualcosa di tangibile. Questo è il motivo per cui incorniciamo fotografie con l’immagine di chi ci ha lasciato. Per incontrarlo, sia pure in un mondo sospeso tra illusione e innocenza. Per incontrare gli artisti non occorre invece conservare un loro ritratto, bastano le loro opere. Questa è l’eternità a cui mira l’artista. Perpetuare se stesso nelle sue opere. Una personale eternità che non sarà quella dell’aldilà ma andrà senza dubbio al di là della sua vita. Sono le opere d’arte che consegnano l’autore al futuro permettendogli di abitarlo in un altro modo. Epperò devo dire che personalmente questa eternità a portata di mano che mi sembrava consumasse tutte le mie aspirazioni agli inizi della mia carriera di fotografo, dopo i primi riconoscimenti, le prime gratificazioni, col passare degli anni mi consola ben poco. Da quando la mia vita ha compiuto cinquanta anni ho compreso il rischio di perderla e ho imparato ad apprezzarne ogni singolo aspetto, anche la noia, la banalità o l’inutilità del dolore. È come con le donne: prima me ne piaceva qualcuna, adesso quasi tutte. «È la paura della morte e l’attrazione per la vita», dice il mio amico psichiatra. Non si tratta di evasione ideologica né di lucido e amaro disincanto ma di passione terrena. Cresce nel tempo una distanza intellettuale e sentimentale dalle tue aspirazioni e capisci che quel che più conta è stare nel battito infaticabile dell’esistenza. Vivere ogni istante, inseguendo l’essenziale. Stare dunque e non restare. Come si sta su questa terra, umanamente. Ritornando quindi alla metafora da fotografo con la quale ho aperto questo testo, si potrebbe dire che fa acqua da tutte le parti. Per registrare la vita utilizziamo quasi sempre altri strumenti. E spesso sono inadeguati e ognuno di loro richiede un cambio di prospettiva. Non so per gli altri ma per me più si va avanti più la vita moltiplica i suoi significati – ch’è anche un modo per confonderli – quando io invece vorrei capirla, spiegarmela. Mi oriento in questo zibaldone attraverso la fotografia definendo continuamente nuove coordinate di senso: le vite degli altri, le loro ragioni, raccontarle e quindi viverle senza rinunciare alla mia. Ma in questo affanno di scandagliare, di capire, di scrutare rimango sempre più colpito dalla inverosimiglianza della vita. Mi pare di poterla astrarre dalla sua dimensione spazio-temporale e che il mio tentativo di rendere verosimile la realtà fotografandola sia inutile. Così coltivo l’illusione di poter addomesticare i giorni che passano e scrivo, cerco una necessità per ogni cosa mentre il tempo continua a scorrere micidiale, indifferente alle insurrezioni della memoria, alle sue anguste felicità, al segreto eroismo dell’illusione. Ma s’è fatto troppo tardi perché tutto ciò mi riguardi ancora. La morte è altrove, disumanamente. F.to Franco Carlisi

Note: 1 Vinicio Capossela, «La bianchezza della balena», in Marinai, profeti e balene, 2011. Il testo della canzone è liberamente tratto da Moby Dick di Herman Melville (1851), tradotto da Cesare Pavese, Adelphi 1987.

giovedì 5 gennaio 2023

Dissertazioni su Street Art. Ne vogliamo parlare?



Davanti a un tuo progetto già realizzato due sono le cose, o si è rimasti soddisfatti ovvero delusi, seppur anche parzialmente.
Parlarne o commentare un libro costruito lentamente, con un'azione di persuasione verso coloro pensati adatti a raggiungere lo scopo, può comunque rappresentare un esempio positivo per altri; magari convincendoli a non rinunciare troppo presto a una idea che frulla nella testa e che dipende molto anche dai potenziali contributi che si potrebbero raccogliere.
Come ho avuto modo di scrivere in premessa e nella postfazione del libro “Dissertazioni su Street Art, ne vogliamo parlare?” c’erano due possibilità. Una prima di poter andare a realizzare un book in maniera assolutamente autonoma, mescolando proprie immagini di murales e di varie altre opere di graffitari fissate in fotografie, una seconda di andare ad amalgamare scritti culturalmente variegati di amici appositamente selezionati, reputati in grado di esprimere opinioni e impressioni autoriali e originali.
In verità avevo però puntato fin da subito sulla seconda soluzione e, nell’arco di un anno, ho incominciato a insistere su una moltitudine di specifici soggetti individuati, cercando di abbattere naturali resistenze.
Coinvolgimenti del genere li avevo già sperimentati per altri piccoli progetti fotografici e, a mio parere, con risultati gratificanti e produttivi.
Al riguardo, alcuni per renderli duraturi, ho poi provveduto a sintetizzarli in dei video e slide show. Di seguito riporto i relativi link di quanto andai a pubblicare su You Tube:

- Lettura/racconto di una foto “sei panchine in cerca d’autore” https://youtu.be/BWDNP8eWT2s
- Uno scritto sul ricordo di nostri insegnanti - https://youtu.be/xlaX3ENg6uE
- Un racconto in 240 parole - https://youtu.be/dEVBov_Zn1M

Tornando all’operazione Street Art, ai tantissimi dinieghi alle richieste di adesione si sono anche accompagnate delle disponibilità, anche conseguenti a delle rese di fronte a ripetute insistenze.
Prima cinque, poi dieci e via via fino a raccogliere ben ventiquattro soggetti che si sono resi disponibili a scrivere (“in fiducia” sconoscendo le mie idee) qualcosa sul nuovo fenomeno artistico, ormai assurto all’attualità anche per il fortissimo impatto comunicativo che rappresenta.
I contributi provenienti, come immaginato, da soggetti non omologabili per le diverse professionalità, risultarono autonomi e assolutamente spontanei diversi; poiché a tutti era stato assegnato il solo tema, senza fornire alcuna indicazione o traccia per il relativo svolgimento.
Nella fase finale sono riuscito a coinvolgere anche due graffitari, operanti principalmente nel mio ambito territoriale, riuscendo così a posizionare - nella parte conclusiva del libro - la classica ciliegina da porre al centro della torta pazientemente confezionata.
Il risultato definitivo ha quasi superato ogni mia aspettativa e l’originalità compositiva in origine abbozzata nella mente vedeva luce, trovando un logico sbocco: nella realizzazione di un libro.
Cercare di curare ogni particolare estetico avrebbe sicuramente necessitato investimenti economici corposi. I contatti intrattenuti con qualche editore prospettavano, infatti, esborsi non indifferenti.
Ad ogni modo, in relazione al proposito di rendere praticabile e fruibile l’importante apporto ricevuto dai tanti amici che avevano aderito, imbarcandosi gratuitamente nell’operazione ho, in ultimo, optato per quella che si era dimostrato il percorso più percorribile.
Indifferente rispetto alle critiche sulle scelte, forse trovate bizzarre, riguardanti anche il taglio editoriale generale che avevo immaginato, ho infine optato per realizzare in assoluta autonomia l’intera operazione, assemblando testi e fotografie in modo se si vuole un poco artigianale si ma riuscendo a confezionare – a detta anche degli amici coinvolti - un buon prodotto finale.
Unica differenza rispetto al menabò originario è quindi risultata la copertina, che l’editore ha preferito estendere anche per la quarta. Tutto il resto che ne è venuto è stato pertanto frutto di un lavoro fatto in casa e i risultati (qualità/prezzo), a mio parere, sono da considerarsi più che soddisfacenti.
Il seguente link consente di visionare uno slide show che raccoglie le sole pagine illustrate del volume prodotto dalla Susil. Per leggere gli scritti conferiti dai tanti amici fiduciosi occorrerà, quindi, procurarsi una copia del libro. A tal proposito preme precisare che tutti i testi e le fotografie inserite nel book sono stati ceduti gratuitamente dai rispettivi autori, con l’intesa che, una volta assorbiti i costi di produzione, gli eventuali margini di un possibile guadagno sarebbero stati interamente devoluti in beneficenza: https://youtu.be/qwq0YPffrp8
Per concludere può, ancora una volta, ben dirsi che le idee hanno bisogno di prendere aria, così come le cose scritte, e non serve a molto mantenerle gelosamente nella propria mente o custodirli già stampati nei cassetti.

Buona luce a tutti!

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Dissertazioni su Street Art, ne vogliamo parlare? A cura di Toti Clemente

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Un'immagine, un racconto

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La fotografia è in genere un documento, la testimonianza di un ricordo che raffigura spesso persone e luoghi, ma talvolta può anche costituire lo spunto per fantasticare un viaggio ovvero per inventare un racconto e leggere con la fantasia l’apparenza visiva. (cliccando sopra la foto è possibile visionare il volume)

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