"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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lunedì 30 ottobre 2023

27 ottobre / 05 novembre 2023: "Marocco -/+ 40″ – Mostra di Pippo Consoli e Rosario Barone all'ARVIS



Sinossi della Mostra fotografica "Marocco -/+ 40″

Le diverse etnie, organizzazioni sociali e i sistemi politici di riferimento, basati su culture spesso profondamente differenti, stabiliscono anche i ritmi di sviluppo interni, pur se orientati dalla globalizzazione che interessa ormai tutto il pianeta. Ci sono, quindi, luoghi e paesi dove i cambiamenti scorrono molto velocemente e altri dove il tempo sembra trascorrere con maggiore lentezza, tendendo a mantenere quasi integre le usanze e le tradizioni indigene .L’iniziativa di Pippo Consoli e Rosario Barone di mettere in mostra – e quasi a confronto – immagini analogiche e digitali (scattate negli anni ottantadue, con pellicole in bianco/nero e fotocamera manuale le prime, con una moderna reflex super sofisticata le foto più recenti) che, oltre a documentare le realtà corrispondenti a due periodi storici (a distanza di quaranta anni), vuole anche focalizzare gli aspetti etnici e sociali citati in premessa.

Il Marocco, che fino agli inizi del novecento è stato un protettorato francese, influenzato anche dalla vicinanza fisica e l’interscambio che ha sempre avuto con la vicina Spagna, costituisce una delle nazioni fra quelle più avanzate del Nord Africa. Vige una monarchia costituzionale abbastanza illuminata che, grazie anche ad aiuti occidentali che hanno agevolato l’apertura verso i loro mercati mediterranei, consente una pacifica convivenza di diverse etnie, distribuite in un variegato e vasto territorio, riducendo al contempo progressivamente tanti espatri clandestini.

Soffermandosi sulle foto in mostra, le immagini esposte dai due autori testimoniano le diversità che hanno da sempre caratterizzano il paese. Le fotografie di Barone si soffermano principalmente sui territori desolati del sud marocchino, dai connotati prettamente berberi e comuni ai confinanti paesi del Nord Africa occidentale (Algeria in particolar modo), allocati a ridosso della cordigliera dell’Atlante, dove si trovano maestosi villaggi fortificati interamente costruiti in terra con una sapienza antica tramandata e che oggi rischiano di scomparire per sempre. Le foto di Pippo Consoli, più datate, si concentrano invece sulla parte più nord occidentale del paese, con immagini che documentano angoli delle città imperiali (Fès, Marrakech, Rabat e Meknès), soffermandosi sugli aspetti architettonici di importanti edifici che su talune abitudini, caratteristiche degli abitanti del Marocco del nord.

Evidenti risultano le differenze di epoche, per i costumi – arabi o occidentalizzati - indossati da taluni abitanti che sono stati ritratti nei vicoli e nei mercati da Consoli (tenda del barbiere, abbeverarsi alla fontanella); anche se in altri casi talune delle scene fotografate nel 1982 potrebbero essere simili a quelle che si ancor oggi potrebbero incontrare; specie se riferite a classi sociali meno abbienti (decapitazione del pollo, tatuaggi temporanei all’henné, la tenda con il barbiere all’opera). In sintesi, i due spaccati diversi con i quali i due autori vengono a raccontare il loro personale modo di vedere il Marocco (analogico e digitale, quindi d’ieri e di oggi) si integrano perfettamente. Le foto del Sud, che solo in rari casi propongono presenze umane, potrebbero essere ben associate ad un unico periodo, atteso che le abitudini berbere e gli insediamenti urbani sono gli stessi da sempre.

Jamaa el Fna, la piazza centrale di Marrakech fotografata da Rosario Barone nel 2022 costituisce di fatto l’unico documento che identifica il Marocco moderno, a cui Consoli contrappone le foto dell’incantatore di serpenti, e i lettori dei testi del corano che raccolgono fedeli di religione islamica. Marrakech, luogo marocchino dove s’incontrano tutte le culture del paese, costituisce una meta fissa del turismo internazionale. Chi ha avuto la fortuna di visitare il paese, attraverso le fotografie della mostra, saprà riconoscere e rivivere luoghi e personaggi. Per chi non lo ha ancora visitato, le foto possono costituire uno stimolo per avventurarsi e intraprendere un’interessante avventura. Magari aspettando che vengano intanto sanificati i gravi danni procurati dal recente movimento tellurico, che ha quasi distrutto l’intera cittadina e parte dei muri dai tratti architettonici fortemente feudali.

© ESSEC

27 ottobre – 05 novembre 2023 / Marocco -/+ 40″ – mostra di Pippo Consoli e Rosario Barone

Buona luce a tutti!


© ESSEC

giovedì 26 ottobre 2023

Photoshop, assai utile ma anche .....

Capita talvolta di rivisitare dei vecchi scritti che, specie in fotografia, avevano lo scopo di chiarificare alcuni aspetti controversi. Nonostante il tempo, oltre a continuare ad essere irrisolti, alimentano evoluzioni o involuzioni concettuali che, in assenza di autorevoli e motivati chiarimenti mantengono ancora confusioni. A completamento il testo che avevo proposto è datato aprile 2015. In ogni caso l'attualità prospetta novità più importanti che vengono a complicare l'autenticità della fotografia per come l'abbiamo sempre intesa. L'IA (intelligenza artificiale) sta rivoluzionando il concetto intrinseco della fotografia classica e chissà cosa si verrà a prospettare in un domani assai prossimo.

Buona luce a tutti!


© ESSEC

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"Può capitare ed a me è già più di una volta accaduto di riscontrare, in riunioni di giurie chiamate ad ammettere e premiare fotografie in concorsi fotografici, foto manipolate con interventi di postproduzione che cambiavano significativamente le immagini rispetto alla realizzazione originaria.
In particolare, non mi riferisco alle usuali classiche correzioni di esposizioni, tonalità e/o saturazioni e nemmeno a conversioni dal colore in b/n.
Accade sempre con maggiore frequenza che più o meno abili utilizzatori di Photoshop o di programmi similari (potrei definirli anche "i soliti noti") creino nuove realtà attraverso sovrapposizioni di livelli o con più semplici copia-incolla, scontornando poi le sovrapposizioni o gli arditi inserimenti.
Per quanto ovvio, nella maggior parte dei casi ed in particolare per foto amatori più bravi in questi artifizi, le predette operazioni di modifica non sono visibili con immediatezza ma presuppongono attente osservazioni delle immagini opportunamente ingrandite.
Per quanto ovvio, qualora il concorso bandisca elaborazioni e manipolazioni, l'eventuale infausta ammissione e/o premiazione espone le Giurie a magre figure. Mi resta in ogni caso difficile capire la soddisfazione di chi tenti raggiri nelle regole per accaparrarsi un premio e/o i relativi punteggi connessi.
Quanto fin qui osservato, vista la persistenza del fenomeno, necessita, a mio parere, di urgenti interventi regolamentari.
Nello specifico suggerirei una soluzione radicale, prevedendo sempre delle sezioni speciali dedicate a dette forme di elaborazioni e "smanettamento"; ciò allo scopo di evitare il far concorrere in una medesima sezione - libera o a tema che sia - di fotografi che presentano foto compositivamente integre con gli amanti di immagini artefatte.
Credo che comunque non si può più sottacere sul problema, stante anche la verificata proposizione in serie di foto, nei diversi concorsi, da parte di medesimi autori avvezzi a dette pratiche."

sabato 21 ottobre 2023

Come tutto cominciò.

Un lavoro di ricostruzione storica dell’origine dello stato moderno di Israele è stato quello realizzato e pubblicato a puntate su Il Fatto Quotidiano dal suo direttore nel corso di questo mese. La nostra memoria registra il sovrapporsi di tante informazioni e la massa mediatica che ogni giorno ci bombarda porta spesso a dimenticare tanti aspetti. La ricostruzione realizzata da Marco Travaglio, anche se ad alcuni potrà apparire faziosa, racconta ed è un utile strumento per richiamare e valutare tantissimi accadimenti, che dovranno essere tenuti in conto prima di procedere a riconoscersi acriticamente in qualsiasi schieramento. Del resto la storia è scritta sia dai vincitori che dai popoli oppressi, con versioni quasi sempre differenti nel sottolineare reciprocamente aspetti palesemente di parte. La riproposizione degli editoriali di Travaglio in questo spazio web non ha quindi alcun intento di pirateria o di violazione di copyright poiché, tenuto conto dell’importanza dell’argomento trattato e indipendentemente da come la si pensi o ogni schieramento, si ritiene appunto molto utile - magari per i più distratti - postarli per intero. Di seguito si riporta il testo integrale assemblato delle diverse puntate pubblicate.

Buona luce a tutti!


© ESSEC

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Come tutto cominciò. All’alba del 14 maggio 1948 il sole picchia forte su Tel Aviv, mentre un ometto polacco canuto e commosso si alza in piedi e dà l’annuncio che tutti aspettano. Si chiama Micha Berdichevsky, ma tutti lo chiamano David Ben Gurion, detto anche “il figlio del leone”. È il capo del governo provvisorio di Israele. Parla scarno, ma solenne: “Proclamo la fondazione nazionale dello Stato ebraico indipendente di Palestina, che si chiamerà Israele”. Pochi minuti prima, l’ultimo soldato inglese ha lasciato il Paese, ponendo fine al mandato di Sua Maestà Britannica sulla Palestina, la lingua di terra stretta fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, spartita l’anno prima dall’Onu con la risoluzione numero 181 in due Stati: uno ebraico, l’altro arabo. Mentre Ben Gurion viene sommerso dagli applausi, qualcuno tra i più anziani ricorda la profezia lanciata mezzo secolo prima dal padre del sionismo, il giornalista ungherese Theodor Herzl: “Oggi la gente riderebbe se annunciassi che ho fondato lo Stato ebraico. Ma forse, fra cinquant’anni, mi darete ragione”.

“A morte gli ebrei!”. A Parigi, nel gennaio del 1895, Herzl ha visto degradare in piazza un ufficiale ebreo d’artiglieria, Alfred Dreyfus, condannato per alto tradimento su false accuse, tra la folla che urla “A morte gli ebrei!”. E, sconvolto per quel rigurgito di antisemitismo nel cuore d’Europa, ha scritto un libriccino ben oltre i limiti della follia: Lo Stato ebraico. Nel 1897 presiede a Basilea il primo congresso mondiale sionista. E le sue parole accendono la speranza in decine di migliaia di ebrei, soprattutto russi, in fuga dai pogrom: gli stermini di massa ispirati dalla polizia zarista. Negli ultimi vent’anni del secolo, un milione di israeliti fuggono dalla Russia negli Stati Uniti. Poche centinaia scelgono la via più difficile verso la terra dei loro padri, la Palestina. Qui, nel XIX secolo, gli ebrei sono ridotti a un villaggio di Asterix di 25 mila anime, affogate fra 450 mila arabi. Dalla fine dell’antico Stato ebraico con la conquista romana di Tito nel 70 d. C., non hanno visto che dominazioni straniere: bizantini, arabi, crociati, mamelucchi, turchi ottomani. In 17 secoli di “diaspora”, il popolo ebraico si è disperso in ogni angolo di mondo, ma non ha mai perso la speranza. Ogni anno, a ogni cena pasquale, ogni ebreo osservante ha rinnovato la promessa: “L’anno prossimo a Gerusalemme”.

La svolta arriva a Natale del 1901. Il 5° congresso sionista di Basilea decide di distribuire a tutti gli ebrei del mondo un salvadanaio di latta bianco e azzurro. L’anno seguente, con i risparmi raccolti, nasce il Fondo Nazionale Ebraico per acquistare terreni in Palestina e ospitarvi i primi insediamenti.

Quelle messe in vendita dai grandi feudatari arabi sono terre di scarto: incolte e desertiche, o malsane e paludose, per giunta cedute a prezzi esorbitanti. Nascono così, tra mille difficoltà, i primi kibbutz, comunità agricole a gestione collettivistica, molto vicine agli ideali del socialismo. In pochi anni deserti e paludi si trasformano in agrumeti e campi coltivati. Attirando nuove e continue ondate migratorie, anche sulla spinta dei nuovi pogrom nell’Europa centro-orientale. La popolazione ebraica, nel 1914, è di 85 mila unità, nel 1923 di 120 mila, nel 1928 di 160 mila. Poi, dal 1932 al ’38, il grande esodo degli “indesiderati” dalla Germania hitleriana. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, gli ebrei di Palestina raggiungono quota 400 mila.

Balfour e il Focolaio. Sconfitto nel Primo conflitto mondiale, l’Impero ottomano si è sbriciolato e la Palestina è passata all’Impero britannico, che fa sperare gli ebrei. Nel 1917 il ministro degli Esteri, Arthur James Balfour, rilascia una celebre dichiarazione: “Il Regno Unito vede con favore la fondazione in Palestina di un Focolare nazionale per il popolo ebraico”. Poi però sono soltanto delusioni. Nel 1939 Londra pubblica un Libro Bianco che limita severamente l’immigrazione ebraica, impedendo a migliaia di ebrei di sfuggire alla persecuzione nazista. Gli ebrei di Palestina si schierano comunque in guerra a fianco degl’inglesi contro i tedeschi. Ma nel 1946 la tensione è di nuovo all’acme. Navi cariche di profughi scampati ai lager si presentano sulle coste palestinesi e vengono ricacciate indietro dalle autorità britanniche. Per rappresaglia, il 22 luglio l’Irgun Zwei Leumi, formazione paramilitare sionista, fa saltare in aria un’ala del King David Hotel, sede del quartier generale inglese: 90 morti. Il comandante della spedizione è Menachem Begin, futuro premier d’Israele e premio Nobel per la Pace. Poi finalmente il 2 aprile 1947, Londra annuncia il ritiro dalla Palestina entro due mesi.

L’Onu e i due Stati. Alle Nazioni Unite si inizia a discutere della spartizione della Palestina cisgiordana in due Stati. Anche l’ambasciatore sovietico Andrej Gromyko si dice favorevole. E alla fine i Sì sono 33, contro soli 13 No. Lo Stato ebraico comprenderà il deserto del Negev, la fascia costiera centro-settentrionale e la Galilea orientale: complessivamente il 55% del territorio, dove vivono 500 mila ebrei e 497 mila arabi. Lo Stato arabo avrà il restante 45%, con la parte centrale della Palestina, più la striscia di Gaza e la fascia sottostante tra il Negev e il Sinai, dove risiedono 725 mila arabi e 10 mila ebrei. E Gerusalemme? “Zona internazionale” sotto l’egida dell’Onu. Gli inglesi, prima di andarsene, fanno un ultimo dispetto a Israele, permettendo che il grosso delle loro armi e munizioni passi agli arabi. I quali però, aizzati dagli Stati “amici”, non accettano la risoluzione Onu. Scioperi, devastazioni, incursioni armate, massacri di ebrei. Poi, nei primi mesi del 1948, un “esercito di liberazione arabo” di 5 mila uomini attacca Israele e in pochi giorni isola Gerusalemme, il Negev e la Galilea dai restanti territori ebraici. Ma in aprile gli ebrei riprendono il controllo delle principali città, da cui – in parte spontaneamente e in parte spintaneamente – fuggono in massa le popolazioni arabe.

Battesimo di sangue. Rieccoci a Gerusalemme sotto il sole cocente di quel 14 maggio 1948. Il battesimo di Israele si celebra con una breve e frugale assemblea in una saletta del museo di Tel Aviv. Tutto in pochi minuti: il discorso di Ben Gurion e la firma di una pergamena con la dichiarazione d’indipendenza. Poi tutti in strada per un corteo festoso: in prima fila, al fianco di Ben Gurion, ci sono Golda Meir, Levy Eshkol, Yitzhak Rabin e altri padri fondatori che si alterneranno alla guida del Paese per oltre 40 anni. Piangono, ridono, si abbracciano con la folla in delirio che intona l’Halikyah (“speranza”): l’inno ebraico, più simile a una preghiera che a una marcia. Lo Stato di Israele è nato, anzi è rinato. È l’unica democrazia del Medio Oriente e viene subito riconosciuta, tra gli altri, dall’Urss e dagli Usa. Ma non c’è tempo per festeggiare. È un battesimo di sangue.

Mentre ancora Ben Gurion sta parlando, i sei eserciti della Lega Araba – Egitto, Libano, Siria, Transgiordania, Iraq e Arabia Saudita – muovono all’attacco da ogni punto cardinale per “cancellare dalla faccia della terra il cosiddetto Stato d’Israele”. L’Occidente solidarizza a parole, ma non muove un dito per difendere la risoluzione Onu del 1947. Anche l’Urss condanna l’invasione (la Pravda, da Mosca, parla di “aggressione araba contro Israele” e difende “il diritto degli ebrei a costituirsi un loro Stato indipendente; l’Unità si accoda). Ma lì si ferma. Israele deve imparare subito a combattere da solo, a mani nude. Tante mani, però: l’esodo del dopoguerra dall’Europa ha portato nella terra degli avi oltre 200 mila ebrei, scampati ai lager nazisti e ai pogrom russi, forzando il blocco britannico e aggiungendosi ai 600 mila che già vi risiedevano. Un’iniezione di forze e di intelligenze fresche che fa di Israele il Paese col più alto tasso di laureati, specialisti e tecnici del mondo. La loro competenza, capacità organizzativa e volontà di sopravvivenza diventano l’arma in più del neonato esercito Haganah (Difesa), capitanato da ufficiali giovani e agguerriti. Uno su tutti: il 33enne Moshe Dayan. Gli uomini non mancano.

Scarseggiano però i quadri militari e gli armamenti: soprattutto l’artiglieria (pochissimi cannoni), i mezzi corazzati e l’aeronautica (una trentina di vecchi aerei incollati con lo sputo), perfino le uniformi. Non basta l’esperienza di due corpi speciali che affiancano le truppe regolari: il Lehi e l’Irgun, specializzati in terrorismo e antiterrorismo negli anni del mandato britannico e delle imboscate arabe. Troppo poco, almeno sulla carta, per fronteggiare l’esercito egiziano, la Legione Araba transgiordana guidata dal mitico Glubb Pascià, le quattro divisioni siriane e irachene e un corpo di volontari libanesi e sauditi: 150 mila uomini con 800 cannoni, 120 carri armati, 80 autoblindo e 150 aerei. Davide contro Golia.

La prima guerra. Le prime ore di combattimenti, per Israele, sembrano l’inizio della fine. Le truppe egiziane, da Sud, affondano come il coltello caldo nel burro e raggiungono le porte di Tel Aviv. Gli altri eserciti, da Nord, puntano su Gerusalemme e sul porto petrolifero di Haifa. L’Onu però impone una tregua di sei settimane. E quando gli arabi la violano, ripartendo all’offensiva dopo un mese, non hanno più di fronte l’Armata Brancaleone raccogliticcia e male in arnese dei primi giorni. In quel breve lasso di tempo Israele è riuscito a mettere in piedi un miracolo di esercito e anche a procurarsi qualche arma pesante e qualche aereo in più, mentre migliaia di volontari – ebrei e non – sono sopraggiunti dai campi di battaglia di mezza Europa per dare una mano.

Gli egiziani vengono travolti sul fronte Sud da un blitz ribattezzato col nome biblico “Operazione Dieci Piaghe”. E a Nord gli altri eserciti arabi sono colti di sorpresa. Gli Spitfire israeliani, residuati bellici comprati al mercato dell’usato, sorvolano e bombardano indisturbati Damasco e Amman. E i bazooka con la stella di David distruggono la metà dei carri armati nemici. L’Onu ordina una seconda tregua e nomina mediatore il conte Folke Bernadotte, un diplomatico e filantropo svedese nipote di re Gustavo IV. Mediatore si fa per dire: impone altre due tregue, ma parteggia apertamente per gli arabi. Di lui si occupa la banda Stern, organizzazione paramilitare sionista di estrema destra dove milita il futuro premier Yitzhak Shamir: il conte viene assassinato il 17 settembre a Gerusalemme. La tregua salta e la guerra ricomincia. L’Haganah affronta separatamente gli eserciti arabi e li sbaraglia l’uno dopo l’altro.

La prima guerra arabo-israeliana si conclude alla fine del 1948. Israele non solo ha riconquistato le posizioni di partenza, ma si è ingrandito di oltre un terzo, conquistando Gaza, l’intero Negev e la Galilea occidentale. Il bilancio delle vittime è pesante: 6 mila morti ebrei (di cui 2 mila civili) e 10 mila arabi. Poi c’è l’esodo (in arabo nakba, “catastrofe”) di 711 mila profughi palestinesi musulmani e cristiani che – cacciati dalle proprie case o spinti dagli orrori della guerra – lasciano Israele e si rifugiano in Transgiordania e nella West Bank (la Cisgiordania formata da Gerusalemme Est, Giudea e Samaria). La nakba apre la piaga purulenta e mai sanata dei campi profughi per molti rifugiati e loro discendenti (censiti nel 2015 dall’Onu in 5.149.742, sparsi fra Giordania, Cisgiordania, Gaza, Siria e Libano). Anche perché, nel dicembre del 1948, l’Onu approva la risoluzione 194 che consente “ai rifugiati che lo vogliano di tornare alle proprie case e vivere in pace coi loro vicini” e promette “indennizzi per le proprietà di quanti scelgano di non tornare”, ma a patto che arabi e israeliani siglino un trattato di pace. Cosa che non avverrà mai, o troppo tardi, per il rifiuto degli Stati arabi di riconoscere Israele. In parallelo, 600 mila profughi ebrei abbandonano le loro case nei Paesi arabi e trovano riparo in Israele.

Nel febbraio del 1949, dopo la Conferenza di Rodi, gli arabi sconfitti firmano con Israele, ciascuno per suo conto, degli armistizi che di fatto gli riconoscono la sovranità sui territori assegnati dall’Onu nel 1947, più una piccola parte di quelli appena conquistati: una porzione di Galilea, subito annessa da Israele. Che si ritira dagli altri territori occupati: la striscia di Gaza viene occupata militarmente dall’Egitto e la Cisgiordania e Gerusalemme Est dalla Transgiordania (d’ora in poi Giordania). Così neppure ora i palestinesi e i loro presunti alleati arabi danno vita allo Stato di Palestina. Anzi, rinnegano gli armistizi appena siglati, pronti a tornare all’attacco per cancellare lo Stato ebraico dalla carta geografica, usando i palestinesi nei campi profughi come scudi umani e armi di propaganda.

La crisi di Suez. Nel 1955 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, il generale che tre anni prima ha rovesciato re Farouk, assume il controllo del Canale di Suez scippandolo al Regno Unito. Londra interrompe i rifornimenti di armi e i finanziamenti per la diga di Assuan e Nasser, per tutta risposta, nel 1956 nazionalizza il Canale, lo chiude alle navi commerciali di Israele, si allea con l’Urss e avvia un poderoso piano di riarmo. Francia, Gran Bretagna e Israele intervengono militarmente, con l’appoggio Usa. È la seconda guerra arabo-israeliana. Fra il 29 ottobre e il 5 novembre, l’esercito di Nasser tracolla, mentre le truppe con la stella di Davide dilagano fino a Sharm-el-Sheik al comando di Moshe Dayan, il generale con la benda nera sull’occhio sinistro perduto nella Seconda guerra mondiale. Se a bloccarle non intervenisse l’Onu per ordine americano, arriverebbero al Cairo. Bilancio finale: mille caduti e 6 mila prigionieri egiziani; 180 morti e 4 prigionieri israeliani.

La tensione si placa per dieci anni, ma il fuoco cova sempre sotto la cenere, per la gran voglia di rivalsa dell’Egitto umiliato e per la Guerra fredda tra Usa e Urss, che giocano sullo scacchiere mediorientale una partita tutta loro.

La guerra dei Sei Giorni dura quanto la creazione del mondo e scoppia per una serie incredibile di equivoci. Il 7 aprile 1967 il governo israeliano del pur mite presidente Levi Eshkol (che ha preso il posto di David Ben Gurion) risponde all’ennesimo attacco siriano dalle alture del Golan contro contadini e pescatori dell’Alta Galilea: sei Mig sovietici nuovi di zecca appena arrivati da Mosca a Damasco vengono abbattuti. Così anche la Siria – che ha iniziato a foraggiare al Fatah, l’organizzazione palestinese fondata da Yasser Arafat e protagonista di continui attacchi terroristici contro Israele – ha una gran sete di vendetta. Il 3 maggio re Hussein di Giordania, inviso alla Siria per il suo doppiogiochismo, firma un accordo militare con Nasser, pone il suo esercito (la mitica Legione Araba) sotto il comando egiziano e consente il rientro del capo dell’Olp Ahmed Shukeiri a Gerusalemme Est per riprendere la propaganda di annientamento d’Israele. L’Urss preme su Nasser perché solidarizzi con Damasco, con cui ha siglato nel novembre 1966 un patto di mutua assistenza militare. Nasser non è pronto a un’altra guerra (il meglio del suo esercito è impegnato nello Yemen) e nicchia. Ma Mosca lo imbottisce di fake news su un imminente attacco israeliano alla Siria. Nasser se la beve e si prepara allo scontro con la più classica delle provocazioni. Il 14 maggio, mentre Israele festeggia il 19° compleanno, ammassa truppe nel Sinai. In ossequio all’armistizio, il governo Eshkol evita di far sfilare i carri armati nella parata militare. Ma i sovietici convincono Nasser che è perché i mezzi corazzati israeliani sono già dislocati altrove, contro di lui. Così, in una settimana, le truppe egiziane nel Sinai salgono a 100 mila soldati e quasi mille carri armati. Il 16 maggio l’Egitto chiede e ottiene il ritiro dei caschi blu dell’Onu che, dopo la guerra del 1956, fanno interposizione nel Sinai. Il 22 maggio Nasser annuncia il blocco navale allo stretto di Tiran, sul golfo di Aqaba, dove si affaccia il porto israeliano di Eilath, cruciale per i rifornimenti petroliferi a Tel Aviv. E precisa graziosamente che “la questione per i Paesi arabi non riguarda la chiusura del porto di Eilat, ma il totale annientamento dello Stato di Israele”. Non che voglia la guerra, anzi: le solite fonti diplomatiche farlocche gli assicurano che gli Usa fermeranno Israele. Ma non è vero. Washington, impegnata nella disastrosa guerra del Vietnam, ha altro a cui pensare.

E l’Unione sovietica non vede l’ora che scoppi la guerra, per assestare agli israeliani, dunque agli americani, un colpo mortale dopo il golpe dei colonnelli in Grecia propiziato dalla Cia. Del resto, per lo Stato ebraico, lo strangolamento economico è la goccia che fa traboccare il vaso.

Assediato da assembramenti di truppe ai suoi confini su tre fronti (egiziano, siriano e giordano), minacciato dagli urli di guerra in tutte le capitali arabe, Israele è visto di nuovo dal mondo come Davide contro Golia e riceve un’ondata di solidarietà da tutto l’Occidente, anche e soprattutto a sinistra. In Francia intellettuali come Jean-Paul Sartre firmano un appello pro Tel Aviv. Pietro Nenni, leader del Psi, annota nei suoi diari: “Per primo ha sparato Nasser quando ha chiuso il golfo di Aqaba”. Molti giovani, ebrei e non, si arruolano volontari nei vari consolati israeliani d’Europa per andare a combattere. Il presidente Eshkol vara un governo di unità nazionale, con Menachem Begin (leader del Likud, l’opposizione di destra finora esclusa dagli esecutivi laburisti) ministro senza portafoglio e Dayan alla Guerra. Laburista ma inflessibile, Dayan è il generale-eroe del ’56, noto per il rispetto dei diritti umani anche nella più cruenta delle battaglie: “Il massimo di tortura che un prigioniero deve subire – raccomanda ai suoi uomini – è mangiare il rancio dell’esercito israeliano”. Al solo annuncio del suo ritorno, i soldati di Tsahal s’abbracciano in lacrime. Il piano d’attacco lo mette a punto il capo di Stato maggiore Yitzhak Rabin, futuro premier e Nobel per la pace.

I Sei Giorni. Con un blitz a sorpresa, tipico della “guerra preventiva”, scattato alle ore 7.10 del 5 giugno 1967 e battezzato Operazione Focus, l’aeronautica di Tel Aviv guidata dal generale Motti Hod vola a bassa quota per sfuggire ai radar, raggiunge 13 basi egiziane e annienta quella del Cairo senza lasciare il tempo a uno solo degli aerei di Nasser di levarsi in volo. Un pilota su tre ucciso, 286 aerei da combattimento su 420 polverizzati sulle piste. La stessa sorte, in simultanea, tocca a quelli siriani e giordani. Le truppe della Lega Araba restano decapitate della copertura aerea. Nel Sinai egiziano una divisione corazzata al comando del trentanovenne generale Ariel Sharon occupa la penisola in un batter d’occhio. La battaglia più aspra è quella tra giordani e israeliani per Gerusalemme, finora spaccata in metà. I cecchini di re Hussein, sostenuti da una divisione inviata dall’Iraq, sono nascosti ovunque nei luoghi santi, persino dentro le moschee. Ma Dayan resiste alle pressioni dei falchi e vieta l’attacco frontale e le armi pesanti: “Circonderemo Gerusalemme, se necessario, ma non entreremo. Niente artiglieria né appoggio aereo. Nessun danno ai luoghi santi”. È un soldato, ma anche un archeologo e il secondo prevale sul primo. Il 7 giugno gli israeliani raggiungono il Muro Occidentale (o “del pianto”, ultimo residuo di quello distrutto da Tito nel 70 d. C.): è il momento che il popolo ebraico attende da 2 mila anni e a cui non vuole mancare il vecchio Ben Gurion. Dayan proclama: “Siamo tornati nei nostri luoghi più sacri. E tendiamo la mano ancora oggi ai nostri vicini arabi, con più solennità che mai”. Torna la libertà di culto per tutti, negata agli ebrei nei 19 anni di occupazione giordana e ora suggellata dal generale bendato con una preghiera insieme ai palestinesi nella moschea Al-Aqsa.

Si combatte anche sul fronte siriano, ma molto meno del previsto. Damasco, rimasta finora a guardare, il 9 giugno lancia un debole attacco via terra, subito respinto dall’esercito di Israele, che occupa l’altopiano del Golan. E potrebbe arrivare a Damasco se non fosse fermato da Dayan, nel timore di un intervento sovietico.

Il cessate il fuoco scatta l’11 giugno. Israele ha occupato in sei giorni territori tre volte più grandi di sé (68 mila chilometri quadrati) perdendo 700 uomini; gli arabi, sbaragliati su tutti i fronti, piangono quasi 20 mila caduti. Nasser dà le dimissioni, poi le ritira a furor di popolo. La Giordania deve ripiegare dietro il Giordano e cedere Cisgiordania e Gerusalemme Est; l’Egitto mollare Gaza, il Sinai fino a Suez e Sharm-el-Sheik; la Siria rinunciare a parte del Golan. Territori che Israele non può annettere per non snaturarsi in uno Stato a maggioranza arabo-islamica, e che afferma di voler restituire in cambio della pace. Mentre gli israeliani festeggiano la riconquista di Gerusalemme Vecchia, il mite presidente Eshkol fa stecca nel coro: “Abbiamo ricevuto una buona dote, purtroppo accompagnata da una sposa che non ci piace”. Si è aperto il vaso di Pandora della città santa per le tre religioni monoteiste. E Davide è diventato Golia.

Il 22 novembre 1967 l’Onu adotta la risoluzione 242 per la pace nei territori occupati e il ritorno ai confini pre-guerra. Israele la viola annettendo Gerusalemme Est, e proclamando sua capitale la città santa riunificata. Anche i paesi arabi la infrangono, rifiutando di negoziare la pace con Israele. Egitto e Siria in primis iniziano a fomentare il terrorismo palestinese dentro e soprattutto fuori lo Stato ebraico. Ma senza riuscire a controllarlo, come apprendisti stregoni.

Il Settembre Nero. A farne le spese è l’Egitto, con la polveriera di Gaza, dove sono stipati centinaia di migliaia di palestinesi sempre più inferociti nei campi profughi, a cui il regime di Nasser – come tutti i governi arabi – si guarda bene dal concedere la cittadinanza e il diritto di voto. Ma soprattutto la Giordania. Qui, fra il 1968 e il ’69, le organizzazioni dei fedayìn palestinesi riunite nell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) usano i campi profughi della West Bank come avamposto per attaccare il regime di re Hussein, ritenuto troppo remissivo con Israele. Si comportano come uno Stato nello Stato scorrazzando con rapine, estorsioni, stragi e scontri con le forze armate del Regno, fino a tentare di uccidere o di rovesciare il sovrano.

Il leader più carismatico della galassia di sigle riunite nell’Olp è Yasser Arafat, detto anche Abu Ammar, nato nel 1929 al Cairo anche se dirà sempre di aver visto la luce a Gerusalemme. Il padre è un palestinese di Gaza, la madre di Gerusalemme. Al Cairo, Arafat compie gli studi fino alla laurea in Ingegneria civile. Non va d’accordo col padre, mentre il suo vero mentore è lo zio paterno Haj Amin al-Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme (una delle massime autorità religiose dell’Islam sunnita), animato da un forte antisemitismo e antisionismo al punto da allearsi negli anni 30 e 40 con la Germania nazista di Hitler e l’Italia fascista di Mussolini e da reclutare truppe palestinesi per le SS durante la Seconda guerra mondiale.

Dopo il conflitto, il Muftì si trasferisce al Cairo diventando il padre spirituale di Yasser. Che, dopo la débâcle di Nasser nel ’56, si avvicina ai Fratelli Musulmani. A Gaza non può stare perché i fedayìn ne sono banditi, così va a lavorare in Kuwait. E lì, alla fine degli anni 50, fonda con un gruppo di rifugiati palestinesi il gruppo Al Fatah (acronimo arabo di Movimento di Liberazione Nazionale Palestinese), che si propone la lotta armata per liberare tutta la Transgiordania e distruggere Israele, ma da posizioni più autonome dagli Stati arabi rispetto alle altre formazioni dell’Olp. Nel 1969 diventa il portavoce dell’Olp e si installa in Cisgiordania sotto l’occupazione di Amman.

Quando, fra il 6 e il 9 settembre 1970, i guerriglieri dell’Olp dirottano e fanno esplodere quattro aerei nell’aeroporto di Zarqa, re Hussein scatena una ferocissima repressione militare contro guerriglieri e civili, sterminandone fra i 3 e i 5 mila. È il Settembre Nero: la più grande strage di palestinesi della storia è opera di un regime arabo. Seguono mesi di guerra fratricida in tutto il Regno, con decine di migliaia di morti. Alla fine il regime di Hussein riprende il controllo del Paese ed espelle l’Olp in Libano. Un gruppo di terroristi palestinesi si stacca da al Fatah per fondare Settembre Nero, un gruppo estremista che nel 1972 sequestra e stermina undici atleti olimpici israeliani a Monaco di Baviera.

Lo Yom Kippur. Il 6 ottobre 1973 Israele celebra la festività più sacra del calendario ebraico, lo Yom Kippur. Gli eserciti di Egitto e Siria, col supporto di unità inviate da Giordania, Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Marocco, Libia e Algeria, lo colgono di sorpresa con un attacco concentrico. Otto giorni di resistenza e terrore per lo Stato ebraico, che rischia un’altra volta di scomparire. Poi l’esercito si riorganizza a tempo di record e sferra una micidiale controffensiva, riesce a scavalcare le linee egiziane e ad accerchiare la III Armata di Anwar el Sadat, il successore di Nasser. Un apporto decisivo lo dà quel cavallo pazzo di Sharon, che dopo la guerra del 1967 ha lasciato l’esercito in polemica con l’arcirivale Dayan ed è stato appena eletto deputato del Likud. Ma ora, dopo lo choc, la premier Golda Meir e il ministro Dayan lo richiamano in servizio. Lui miete successi nel Sinai, ma con le sue insubordinazioni si scontra con i vertici militari che chiedono a Dayan di destituirlo, stavolta invano. È lui, con un’azione temeraria, ad attraversare il Canale di Suez e a fissare la testa di ponte sulla riva occidentale da cui altre unità israeliane partono per aggirare a sud le truppe egiziane. Poi marcia dritto verso il Cairo, ma l’11 novembre, quando è alla periferia di Ismailia, a 115 km. dalla capitale egiziana (e mentre Tsahal a Nord è a 30 km da Damasco), viene fermato da Tel Aviv su pressione degli alleati occidentali. Gli arabi, sconfitti un’altra volta, accettano il cessate il fuoco. Sharon lascia definitivamente la divisa, in polemica col governo Meir che preferisce negoziare anziché stravincere. La conferenza di pace di Ginevra, sotto l’egida dell’Onu, tenta di far applicare la risoluzione 338 (che a sua volta richiama al rispetto della 242), ma fallisce per il solito rifiuto dei Paesi arabi a negoziare con Israele. Che nel 1974 accetta unilateralmente la richiesta del segretario di Stato Usa Henry Kissinger di ritirarsi dai territori egiziani e siriani appena occupati. Intanto l’Onu attribuisce all’Olp lo status di rappresentante del popolo palestinese, mentre il suo leader ribadisce il proposito di cancellare Israele dalla faccia della terra.

Camp David. Nel novembre del 1977, invitato dal premier israeliano Begin, il presidente egiziano Sadat rompe 30 anni di ostilità e visita Gerusalemme. Poi riconosce il diritto di Israele esistere e inizia a negoziare la pace. Che viene firmata il 26 marzo 1979 nello storico vertice di Camp David sotto gli occhi del presidente Usa Jimmy Carter. Israele restituisce il Sinai all’Egitto, che però non rivuole Gaza, divenuta con i suoi campi profughi invivibili una terribile incubatrice di odio, estremismo e anche terrorismo. La striscia-polveriera rimane dunque sotto occupazione israeliana.

Nuovo fronte: il Libano. Nel 1976 la Siria invade il Libano, dilaniato da anni di guerra civile fra le milizie delle varie tribù islamiche (proprio nel 1982 nasce Hezbollah, il “partito di Dio” foraggiato da Teheran) e quelle cristiano-maronite, ciascuna aizzata da Usa, Urss, Israele, Iran, Siria, Arabia Saudita ed Emirati del Golfo, con l’aggiunta della presenza destabilizzante delle varie sigle dell’Olp cacciate nel ’70 dalla Giordania. Dopo i giordani, anche i siriani fanno a pezzi i palestinesi. Nel 1981 l’Olp di Arafat&C. attacca il Nord di Israele dal Sud del Libano e si scontra con i cristiano-maroniti alleati di Tel Aviv. Il governo Begin risponde nel 1982 invadendo il Paese dei Cedri. L’operazione è diretta dal ministro della Difesa Sharon. Il quale non muove un dito quando le milizie falangiste maronite entrano nei campi profughi di Sabra e Chatila facendo strage di palestinesi, senza distinguere fra miliziani dell’Olp e civili inermi, per vendicare l’assassinio del presidente cristiano Amin Gemayel (reo di avere firmato un accordo di pace con Israele). Un’inchiesta imposta dalla Corte Suprema israeliana incolpa i comandanti militari locali e il capo di Stato maggiore dell’esercito. Sharon, pur scagionato da responsabilità dirette negli eccidi, lascia il ministero della Difesa. Alla fine, ritirandosi dal Libano, Israele manterrà (fino al 2000) una “fascia di sicurezza” di 10 miglia lungo il confine, affidata agli alleati maroniti.

Vincere senza reagire. La guerra libanese del 1982 e l’indagine su Sabra e Chatila lasciano Israele sotto choc per un bel pezzo. I nemici, anziché indebolirsi, si rafforzano e si moltiplicano. Soprattutto l’Iran dell’ayatollah Khomeini, che nel ’79 ha spodestato lo Scià, prepara la bomba atomica (Tel Aviv ha bombardato il suo reattore nucleare di Osiraq nell’Operazione Babilonia del 1981) e patrocina Hezbollah, il “partito di Dio” che riunisce un milione di sciiti nel Sud del Libano, ma è presente anche in Siria e nel Golan occupato da Israele. E martella con missili e razzi i kibbutz dell’Alta Galilea. Ogni guerra fomenta nuovo terrorismo, anziché spegnerlo. E dal 1981 è venuto a mancare un argine fondamentale all’estremismo: il presidente egiziano Sadat, assassinato da un killer della Jihad per punirlo della pace con Israele e rimpiazzato dal vice Hosni Mubarak. Neppure i palestinesi se la passano bene, sempre più ostaggi di Israele nei Territori, ma anche stritolati dai finti amici arabi che li usano per giocare ciascuno la propria partita. Arafat e gli altri capi dell’Olp, espulsi nel 1971 dalla Giordania dopo averla incendiata, vengono cacciati anche dal Libano e traslocano in Tunisia, con strascichi di polemiche interne per i troppi lussi.

La spaccatura nell’opinione pubblica israeliana si fa sentire alle elezioni del 1984: il Likud di Yitzhak Shamir, subentrato nell’83 a Begin, perde la maggioranza. Nasce un governo di unità nazionale guidato dal laburista Shimon Peres. Nel 1985 l’Olp di Arafat dimostra un’altra volta tutta la sua ambiguità: il gruppo Fplp del filosiriano Abu Abbas dirotta e sequestra in acque egiziane la nave da crociera italiana Achille Lauro. Arafat fa il doppio gioco: si dichiara estraneo al gesto, ma poi media col premier Bettino Craxi e il ministro degli Esteri Giulio Andreotti per la liberazione degli ostaggi. Però si scopre che i feddayin hanno trucidato a sangue freddo un anziano ebreo americano paraplegico, Leon Klinghoffer, gettandone il corpo e la carrozzella in mare. Il presidente Usa Ronald Reagan sospetta che Craxi voglia sottrarre i terroristi alla giustizia, fa dirottare l’aereo che li trasporta e lo costringe ad atterrare nella base Nato di Sigonella, per portarli in America e processarli. Craxi si scontra violentemente con lui e schiera i carabinieri sulla pista, bloccando il blitz dei marines. Poi però, dopo aver giurato che l’intero commando sarà giudicato in Italia, lascia fuggire Abu Abbas su un aereo jugoslavo a Belgrado, ospite del maresciallo Tito, da dove il capo del Fplp raggiungerà lo Yemen e poi l’Iraq di Saddam Hussein. Le truppe di invasione americane lo scoveranno nel 2003 in una villetta appena fuori Baghdad e lo uccideranno.

L’Intifada. Nel 1987, ventennale dell’occupazione di Gaza e Cisgiordania, i palestinesi si rivoltano in massa contro Israele: è l’Intifada (“sollevazione”). Durerà sei anni, fra proteste, scioperi, boicottaggi, violenze e repressioni. Alla fine i morti palestinesi saranno circa 2 mila e gli israeliani 160. Le immagini dei ragazzini armati di fionde che lanciano sassi contro i soldati fanno il giro del mondo, campeggiano a lungo sui notiziari e sono un altro duro colpo per Israele, sempre meno Davide e sempre più Golia. Ma l’aspetto più mediatico dell’Intifada nasconde quello più truculento: il ruolo del neonato Hamas (acronimo di Movimento Islamico di resistenza), un’organizzazione politico-militare palestinese sunnita e fondamentalista filiata dai Fratelli musulmani egiziani, installata soprattutto a Gaza e finanziata dai regimi sunniti. Hamas ha un volto pubblico, che gestisce programmi sociali portando nella Striscia ospedali, scuole e biblioteche, si propone di distruggere Israele e tornare alla Palestina pre-1947 e polemizza con i vertici corrotti dell’Olp. Ma anche uno clandestino: l’ala militare delle Brigate al-Qassam, che organizzano e rivendicano attentati kamikaze contro obiettivi civili israeliani. Gli Scud di Saddam. Nel 1988 Arafat dichiara di rinunciare al terrorismo e nel 1989 crolla il Muro di Berlino. La dissoluzione dell’Urss sembra portare un po’ di calma anche in Medio Oriente, ma è solo il preludio a una nuova tempesta. Il 2 agosto 1990 l’Iraq di Saddam invade e annette il Kuwait, minacciando l’Arabia Saudita. Il 17 gennaio 1991 la coalizione fra gli Usa di George Bush e altri 34 Paesi, inclusi gran parte di quelli arabi, ottiene l’avallo dell’Onu e scatena l’operazione “Desert Storm”, che in poco tempo caccerà l’Iraq dal Kuwait senza però rovesciare Saddam. La sera dell’attacco, Tel Aviv e Haifa vengono colpite da missili Scud iracheni: otto il primo giorno e 33 nelle cinque settimane successive, quasi sempre di notte. Israele, che non fa parte della coalizione, ripiomba nell’incubo: è dal 1948 che le sue città non venivano bombardate. I cittadini vivono per due mesi barricati nelle case o nei bunker, con le maschere antigas e le finestre sigillate col nastro adesivo, mentre l’esercito distribuisce fiale di atropina, nel timore – per fortuna infondato – che qualche testata sia caricata con agenti biologici o chimici, tipo Sarin e gas nervino. Arafat, in barba alla rinuncia al terrorismo, si schiera con Saddam: invita “musulmani e arabi a opporsi alla guerra americana e sionista contro un Paese fratello”, esalta “l’epica determinazione del popolo iracheno sotto il comando del mio fratello Saddam”, sostiene che l’uso del napalm da parte degli Usa dà all’Iraq “le ragioni e il diritto di usare armi chimiche” contro Israele. Ma il suo appello cade nel vuoto, a parte i giovani palestinesi dei Territori che esultano sui tetti a ogni suono di sirena e schianto di missile. Il bilancio delle vittime sarà molto più contenuto dello choc emotivo: due israeliani morti per gli Scud, qualche decina per infarto, migliaia di feriti e di senzatetto. E una vittoria ottenuta senza muovere un dito: una lezione che vale anche oggi.

Shamir vince, Arafat no. Al governo, dal 1986, c’è di nuovo il Likud di Yitzhak Shamir, che sotto la pioggia di Scud dà una formidabile prova di sangue freddo e lungimiranza: per la prima volta nella sua storia, Israele non risponde a un attacco nemico. Bush parla con Shamir e lo convince a soprassedere al blitz già pronto contro l’Iraq. In cambio, installa subito in Israele batterie anti-missile Patriot e dalle portaerei nel Golfo bombarda le rampe di lancio irachene. È chiaro che Saddam tenta di nobilitare con la causa palestinese la sua bieca mossa imperialista in Kuwait, trascinare in guerra Israele e spaccare la coalizione arabo- occidentale. Missione fallita.

A fare le spese della doppiezza di Arafat, che ancora una volta ha puntato sul cavallo sbagliato, è il suo popolo: appena liberato dagli invasori, il Kuwait espelle il mezzo milione di palestinesi che lì vivevano e lavoravano (il 30% della popolazione). Intanto le monarchie e gli emirati d’Arabia tagliano i fondi all’Olp. Il vecchio leader è a un bivio: o sparigliare i giochi e trattare la pace, o sparire. E sceglie la prima strada. Anche perché, dopo sei anni di Likud, nel 1992 in Israele tornano i laburisti: Rabin premier e ministro della Difesa, Peres ministro degli Esteri.

Miracolo a Oslo. Il 13 settembre 1993, dopo un anno di trattative top secret, mediate in parte dalle amministrazioni americane di Bush padre e di Bill Clinton (che s’è insediato alla Casa Bianca in gennaio) e in parte dall’Ue con l’avallo della Russia di Boris Eltsin, Rabin e Arafat firmano a Oslo uno storico accordo di pace. L’Olp rinuncia formalmente alla lotta armata e riconosce a Israele il diritto di esistere; Israele riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese, con il diritto di governare su una buona porzione dei territori occupati nel 1967. Nella Dichiarazione di principio su un’autonomia palestinese transitoria di cinque anni siglata dai due leader, Israele si impegna a ritirarsi entro il 1998 da gran parte della striscia di Gaza e Cisgiordania e di affidarle a una Autorità nazionale palestinese (Anp). La Cisgiordania sarà divisa in tre zone: la A sotto il pieno controllo dell’Anp, la B cogestita da palestinesi (per gli aspetti civili) e israeliani (per la sicurezza), la C (la più folta di insediamenti ebraici) ancora sotto Israele. Alcuni dei nodi più intricati – Gerusalemme, i rifugiati palestinesi e le colonie israeliane – sono rinviati a un nuovo negoziato. Rabin e Arafat vengono ricevuti sul prato della Casa Bianca da Clinton e dall’altro garante dell’accordo: il ministro degli Esteri russo Andrei Kozyrev. Un anno dopo vengono insigniti, insieme a Peres, del premio Nobel per la Pace.

L’effetto-Oslo, oltre alla fine dell’Intifada, produce il secondo accordo arabo-israeliano fra Stati dopo quello di Camp David del 1978 fra Israele ed Egitto. Nel 1994 anche la Giordania fa pace con Tel Aviv, dopo una storica stretta di mano fra re Hussein e Rabin alla Casa Bianca. Nascono l’Autorità nazionale palestinese e la sua polizia nei Territori. Israele lascia subito una parte di Gaza e si ritira dall’enclave di Gerico, anche se non allenta la morsa sui lavoratori palestinesi della West Bank e di Gaza, sigillate anche per chi va a lavorare nello Stato ebraico. La Lega Araba, dopo 46 anni, toglie l’embargo a Israele e ai Paesi che vi fanno affari. Sembra scoccata l’ora della pace. Ma è solo un’altra quiete prima dell’ennesima tempesta.

10 anni di stop&go. I sogni muoiono all’alba, ma anche la sera. Tel Aviv, piazza dei Re d’Israele, 4 novembre 1995, ore 21.30. Il premier Yitzhak Rabin termina il suo discorso a una manifestazione di sostegno agli accordi di Oslo che dilaniano il Paese: “Vorrei ringraziare ognuno di voi che è venuto qui oggi a manifestare per la pace e contro la violenza. Questo governo, che ho il privilegio di presiedere con il mio amico Shimon Peres, ha scelto di dare una possibilità alla pace, una pace che risolverà la maggior parte dei problemi di Israele… La via della pace è preferibile alla via della guerra. Ve lo dice uno che è stato un militare per 27 anni”. Poi scende dal palco e, mentre sta per raggiungere l’auto blindata della scorta, uno studente israeliano di estrema destra, Yigal Amir, gli spara due colpi di pistola. Rabin muore poco dopo in ospedale: ucciso, come Sadat 14 anni prima da un fanatico jihadista, per avere firmato la pace proibita. Ai suoi funerali a Gerusalemme, insieme a un milione di israeliani e a molti capi di Stato e di governo da tutto il mondo, partecipano diversi leader arabi che non hanno mai messo piede in Israele.

La prima volta di Bibi. A Rabin succede Peres, ma dura pochi mesi. Le elezioni del 1996 le vince il nuovo leader del Likud, il 47enne Benjamin Netanyahu detto “Bibi”, che diventa il primo premier israeliano nato nello Stato ebraico. Militare, politico, uomo d’affari e di malaffari, vissuto per anni negli Usa, in campagna elettorale Bibi ha vellicato la pancia e le viscere degli ebrei più diffidenti sul percorso di pace, promettendo agli elettori di fare a pezzi gli accordi di Oslo. Mette in piedi il governo più a destra della storia di Israele, alleandosi con gli ultranazionalisti e i partiti religiosi. E inizia a demolire tutto ciò che non solo Rabin e Peres, ma anche i padri del suo partito Begin e Shamir, hanno costruito negli ultimi 18 anni da Camp David in poi. La nascita del suo governo è il “tana liberi tutti” per il ritorno all’odio e alla violenza. Gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza, frenati da Rabin, riprendono a spron battuto. Intanto Arafat è stato eletto presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Netanyahu, pur ritirando l’esercito dai territori occupati come previsto dagli accordi di Oslo, li sabota nei fatti con continue provocazioni. E così, come già aveva fatto Rabin prima di Oslo, rafforza consapevolmente Hamas, suo vero alleato occulto all’insegna del “tanto peggio tanto meglio”, che moltiplica gli attentati suicidi contro i civili israeliani. Clinton si danna l’anima per ricucire la tela e sembra farcela: Bibi, complice il suo primo scandalo di corruzione, vede sfarinarsi la sua coalizione di governo: nel 1999 perde le elezioni anticipate e lascia la politica per dedicarsi ai suoi affari.

Barak, l’occasione mancata. Il nuovo premier è il generale ed economista laburista Ehud Barak, ritira subito Israele dalla “fascia di sicurezza” nel Libano del Sud e riprende i negoziati con l’Olp. È convinto che perpetuare l’occupazione dei Territori “condurrà inevitabilmente o a uno Stato non-democratico o ad uno Stato non-ebraico. Infatti, se i palestinesi voteranno, saremo uno Stato binazionale; se non voteranno, saremo uno Stato segregazionista”. E nel 2000, a Camp David, sotto lo sguardo di Clinton, offre ad Arafat una soluzione tutt’altro che perfetta, ma la più vantaggiosa mai proposta da Israele dal 1967: uno Stato palestinese nel 73% della Cisgiordania (che entro 25 anni salirebbe al 90% e intanto verrebbe integrato da una porzione di Negev) e nel 100% della striscia di Gaza, con Gerusalemme Est capitale, il ritorno di un certo numero di profughi e un indennizzo per quelli restanti. Arafat rifiuta senza neppure avanzare una controproposta, fa fallire il summit e imbocca il viale del crepuscolo. Anche il governo Barak, rimasto col cerino in mano, entra in crisi. E il Likud torna a spopolare, non più con Netanyahu, ma con Sharon.

L’eroe del Kippur, azzoppato dalla guerra libanese e dall’inchiesta su Sabra e Chatila (nel 1983 la Corte Suprema israeliana ne aveva ordinato la rimozione da ministro della Difesa), si rilancia con uno dei suoi temerari gesti dannunziani. Il 28 settembre 2000 passeggia platealmente e provocatoriamente sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, con un migliaio di militari di scorta, per proclamare anche la città orientale “eternamente israeliana”. Le furibonde proteste palestinesi sfociano nella seconda Intifada, molto più cruenta della prima, sia per la sempre più massiccia presenza di Hamas con i suoi attentati ormai fuori dal controllo dell’Anp, sia per la durezza della repressione israeliana. Durerà fino al 2005, mietendo oltre 4 mila vittime palestinesi e mille israeliane.

Muore Arafat, risorge Sharon. Nel 2001 l’Onu torna protagonista sullo scacchiere mediorientale dopo decenni di latitanza per la Guerra fredda: il segretario generale Kofi Annan convince gli Usa di George W. Bush, la Russia di Putin e l’Unione europea a dare vita insieme con lui a un “Quartetto per il Medio Oriente” per riannodare il filo spezzato di Oslo. Nello stesso anno Israele torna alle urne e vince Sharon. Il suo primo atto è chiudere ogni rapporto con l’ormai inutile e screditato Arafat, confinato e assediato nel suo quartier generale di Ramallah. Il secondo è una raffica di bombardamenti su Gaza e Cisgiordania, con almeno tremila case distrutte, oltre al porto della Striscia. Nel 2004 un missile israeliano uccide lo sceicco Ahmed Yassin, cofondatore e capo spirituale di Hamas, mentre esce da una moschea a Gaza. Israele inizia a costruire un muro divisorio dai Territori: ufficialmente serve a fermare gli attentati kamikaze, che si assottigliano drasticamente; nei fatti complica vieppiù la vita già infame dei palestinesi. Sembrano tutte mosse per seppellire gli accordi di Oslo, ma ciò che accade di lì in poi dimostra che c’è dell’altro.

Arafat è ormai isolato anche fra i suoi, dopo tanti errori politici e sospetti di corruzione. Il suo ultimo atto è licenziare il suo stesso premier Abu Mazen. Poi entra in coma e l’11 novembre muore. Di cosa, nessuno lo saprà mai, perché sul corpo non viene effettuata alcuna autopsia prima della sepoltura a Ramallah. Qualcuno parlerà di Aids, chi di altre cause naturali, chi di avvelenamento da polonio. Sepolto il vecchio Yasser, sparita la sua corte, si rafforza una nuova classe dirigente palestinese in grado di trattare con Israele attorno ad Abu Mazen, confermato dalle elezioni come premier dell’Anp. Addio a Gaza. Nell’estate del 2005 Sharon fa la mossa del cavallo: ritira unilateralmente l’esercito da Gaza. Il 12 settembre l’ultimo soldato di Tsahal lascia la Striscia, che passa sotto il pieno controllo dell’Anp. Israele però vigila a distanza via terra, cielo e mare. Il momento più drammatico del “disimpegno” è la rimozione forzata degli 8.500 coloni ebraici, che non vogliono saperne di sloggiare da Gaza e vengono sgomberati con le maniere spicce dai loro 21 insediamenti. Altri sgomberi di coloni Sharon li ordina dal Nord della Cisgiordania, scatenando altre proteste e scontri con l’esercito. Che succede nella testa del superfalco? Si è rammollito? No, sta soltanto seguendo il percorso di altri “duri”, come Begin, Shamir e Rabin: la Storia chiama anche lui a guardare oltre se stesso, a elevarsi da politicante a statista. E lui, a 77 anni, risponde. Il suo discorso alla nazione del 15 agosto 2005 dice tutto: “Israeliani, il giorno è giunto. Diamo ora inizio alla fase più difficile e dolorosa: l’evacuazione delle nostre comunità dalla Striscia di Gaza e dal nord della Samaria. Per me è un momento particolarmente difficile… Come tanti altri, credevo e speravo che Netzarim e Kfar Darom rimanessero nostri per sempre, ma l’evolversi della realtà in questo Paese, in questa regione e nel mondo ha richiesto una rivalutazione e un cambiamento di posizione. Gaza non poteva rimanere nostra per sempre: ci abitano oltre un milione di palestinesi, un numero che raddoppia a ogni generazione. Vivono in campi profughi affollati all’inverosimile, immersi nella povertà e nello squallore, in focolai di odio crescente, senza nessuna sorta di speranza all’orizzonte. Questa decisione costituisce un segno di forza, e non di debolezza… Adesso l’onere della prova ricade sui palestinesi: dovranno combattere le organizzazioni terroristiche, smantellarne le strutture e dimostrare di ricercare sinceramente la pace per potersi sedere accanto a noi al tavolo dei negoziati. Il mondo aspetta la reazione dei palestinesi, aspetta di vedere se tenderanno la mano in segno di pace o continueranno il fuoco terroristico. A una mano tesa in segno di pace risponderemo con un ramo di ulivo; ma se sceglieranno il fuoco, noi risponderemo con il fuoco, con più forza che mai”.

La strana coppia. Ormai, nel Likud, Sharon è guardato con sospetto, come una specie di traditore. Il redivivo Netanyahu, tornato alla politica come ministro delle Finanze, lascia il governo in polemica col ritiro da Gaza. Ariel taglia corto: il 21 novembre pianta in asso il suo partito e ne fonda uno nuovo di centro liberale, Kadima (“Avanti”), a cui aderisce subito l’avversario di sempre, Shimon Peres, che molla i laburisti. I due grandi vecchi, il simbolo del pugno di ferro e quello del guanto di velluto, gli ultimi statisti nati prima di Israele si danno la mano per accompagnarlo nella traversata del deserto più difficile: quella verso il futuro. Ma la nuova speranza durerà meno di un mese.

Un ictus cambia la storia. Il 18 dicembre 2005, quattro mesi dopo il ritiro da Gaza e un mese dopo la fondazione del partito Kadima, Sharon è colpito da ictus. Viene dimesso dall’ospedale due giorni dopo, ma il 4 gennaio 2006 una grave emorragia cerebrale lo mette definitivamente ko. A marzo, mentre è in coma, il suo vice Ehud Olmert vince le elezioni e diventa premier ad interim in attesa del suo risveglio. Che non arriverà mai: il suo cuore smetterà di battere otto anni dopo, nel 2014, quando il successore Netanyahu avrà riportato Israele indietro anni luce, vanificando gli sforzi degli ultimi statisti. Hamas vince le elezioni. Il 25 gennaio 2006, mentre Sharon lotta fra la vita e la morte in ospedale, i palestinesi di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est vanno alle urne per eleggere il loro Parlamento, il Consiglio legislativo dell’Autorità nazionale (Anp). Il presidente Abu Mazen, con mossa lungimirante, ha convinto Hamas a partecipare al voto con suoi candidati, in cambio della fine degli attacchi e degli attentati a Israele. Sharon s’è opposto all’idea, ma il Quartetto per il Medio Oriente Onu-Usa-Ue-Russia l’ha incoraggiata. E Hamas ha accettato di formare una sua lista, ha smesso di predicare la distruzione di Israele e ha accettato, almeno a parole, l’ottica di Oslo: “due popoli, due Stati”. Dalle urne esce un risultato a sorpresa: vince Hamas, battendo al Fatah di Abu Mazen col 44% contro il 41. E va al governo: un po’ grazie all’apparente svolta moderata, un po’ per la disciplina e la sobrietà dei suoi leader opposta alle spaccature e alla corruzione di al Fatah. Il 30 gennaio il Quartetto si congratula col popolo palestinese per come ha partecipato alle elezioni, ma subito dopo si attiva per isolare il nuovo governo democraticamente eletto. Usa e Ue intimano ad al Fatah di non entrare nel governo di coalizione proposto Hamas e bloccano gli aiuti (e financo i rapporti bancari) non ad Hamas, ma all’Anp. Il boicottaggio crea gravi danni alla sanità, all’istruzione e all’occupazione nei Territori, prima incoraggiati a votare e poi puniti per aver scelto il partito sbagliato. È un altro regalo dell’Occidente ad Hamas che, forte dei finanziamenti dal Qatar e dalle monarchie sunnite, si accredita sempre più come unico baluardo del popolo alla fame. D’ora in poi Abu Mazen non indirà più elezioni per evitare di riperderle. E si condannerà a un crescente discredito agli occhi dei suoi. Ancora fuoco. Il risultato è il ritorno dell’estremismo e della violenza. A giugno Hamas rapisce il soldato israeliano Ghilad Shalit (sarà liberato solo cinque anni dopo, in cambio del rilascio di 1.027 detenuti palestinesi) e Israele ne approfitta per scatenare nella striscia le operazioni Pioggia d’Estate e Nuvole d’Autunno.

Intanto il governo Olmert lancia un’altra offensiva nel Sud del Libano contro Hezbollah che bombarda la Galilea: 1100 morti in un mese.

Nel 2007 esplode una sanguinosa guerra civile fra palestinesi. Le milizie di Hamas cacciano con la forza al Fatah da Gaza e ne assumono il controllo, mentre in Cisgiordania al Fatah uccide o rimpiazza molti deputati di Hamas, messa fuori legge da Abu Mazen. Con tanti saluti alle elezioni democratiche, al Fatah torna al potere in Cisgiordania con l’appoggio di Usa e Ue. Israele e l’Egitto mettono Gaza sotto embargo, peggiorando vieppiù la vita della popolazione (oltre la metà è disoccupata). E la Striscia diventa la rampa di lancio per razzi e missili di Hamas contro Israele. Che nel 2008 riparte all’assalto di Gaza con le operazioni Inverno Caldo e Piombo Fuso (1.200 morti).

Il ritorno di Bibi. Il governo dello sbiadito Olmert, azzoppato da un processo per finanziamenti illeciti e dal flop della campagna libanese, cade nel 2009. Le elezioni le rivince Kadima con la nuova leader Tzipi Livni, ma non ha i numeri per governare. Ce la fa Netanyahu, grazie a un accordo col capo dell’estrema destra Avigdor Lieberman. È il suo secondo governo, a cui ne seguiranno altri cinque: Bibi batte il record di Ben Gurion come premier più longevo della storia d’Israele con 13 anni di potere ininterrotto, dal 2009 al 2023, tranne la parentesi dei governi Bennett e Lapid (giugno 2021-dicembre 2022). Nel 2010 Obama riavvia negoziati a distanza fra Netanyahu e Abu Mazen, che però si interrompono quando Bibi riprende a spron battuto la colonizzazione della Cisgiordania. Straccia gli accordi di Oslo. E torna a colpire Gaza nel 2012 con l’operazione Colonna di Nuvola e nel 2014 con Margine di Protezione (2.200 palestinesi e 71 israeliani uccisi). Nel 2015 riesce a dichiarare al Congresso sionista mondiale che “Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli”, poi però fu traviato dal Muftì di Gerusalemme (lo zio di Arafat). Ma la maggioranza degli elettori continua a votarlo. Anche quando dopo che va a giudizio in tre processi per corruzione, frode e abuso d’ufficio. E persino quando inizia a foraggiare Hamas contro l’Anp di Abu Mazen.

L’amico di Hamas. Nel 2018 accetta che il Qatar trasferisca milioni di dollari all’anno al governo di Hamas a Gaza. In una riunione del Likud ammette che “chiunque vuole ostacolare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas. Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi di Giudea e Samaria” (anche con il famoso muro divisorio ampliato con una barriera sotterranea). Concetto ribadito persino davanti alla polizia che lo interroga in uno dei suoi processi: “Abbiamo dei vicini che sono nostri acerrimi nemici… Io mando loro messaggi in continuazione, li inganno, li destabilizzo, li prendo in giro e li colpisco in testa… Noi controlliamo l’altezza delle fiamme”. S’illude, da apprendista stregone, di pilotare le fiamme di Hamas per bruciare Abu Mazen. Così come pensa di rimuovere il bubbone palestinese senza curarlo, ma ignorandolo in attesa che scompaia da solo. Il refrain è lo stesso di Zelensky: “Non si tratta con il nemico”. Infatti il 13 agosto 2020 firma gli Accordi di Abramo con gli Usa di Trump, gli Emirati Arabi e il Bahrein, in attesa di farlo con l’Arabia Saudita. Il tutto sulla testa e sulla pelle dei palestinesi: l’ideona prevede l’annessione del 30% della Cisgiordania.

Ma i dati demografici sono impietosi: Israele ha 10 milioni di abitanti, di cui 7,5 ebrei, 2 palestinesi e 500 mila di altre etnie (tutti cittadini con diritto di voto); in Cisgiordania i palestinesi sono 3,5 milioni e a Gaza 2,4. Traduzione: i palestinesi sono ormai più degli ebrei e fanno più figli. Un’annessione della Cisgiordania consegnerebbe loro la maggioranza parlamentare e addio Stato ebraico. Sharon l’aveva capito nel 2005. Netanyahu neppure ora: nasconde la vecchia polvere sotto il tappeto e ne accumula di nuova. Nove mesi di proteste. Nel 2022, per tornare al potere, arriva ad allearsi con Potere Ebraico del fanatico suprematista Itamar Ben-Gvir: condannato per istigazione al razzismo contro i palestinesi, varie volte incriminato, celebre per aver minacciato pubblicamente Rabin due settimane prima del suo assassinio, Ben-Gvir diventa ministro della Sicurezza nazionale. Il duo inizia a picconare la democrazia israeliana con due controriforme che demoliscono la divisione dei poteri: quella della giustizia espropria la Corte Suprema del potere di cassare le decisioni “irragionevoli” del governo (come ha appena fatto bloccando la nomina a ministro di un pregiudicato per corruzione e frode fiscale e come potrebbe rifare se Netanyahu fosse condannato); e quella dell’ordine pubblico crea una polizia speciale, la Guardia Nazionale per Israele, alle dipendenze di Ben-Gvir. Due vergogne che spaccano il Paese: 40 settimane di proteste con migliaia di persone in piazza, inclusi militari e riservisti.

Netanyahu frattanto continua a finanziare nuovi insediamenti in Cisgiordania: nel 1993, l’anno di Oslo, i coloni erano 110 mila, ora sono circa 500 mila (più 220 mila a Gerusalemme Est). Occupando ben 157 kmq di Territori, sono invisi ai palestinesi invasi ed espropriati di terre e falde acquifere. E costringono Israele a sforzi immani per proteggerli: 500 posti di blocco e gran parte dell’esercito ridotto a loro scorta armata.

L’ultima mattanza. Infatti è lì, sul fronte Nord cisgiordano e libanese, che il 7 ottobre 2023 stazionano 26 battaglioni, lasciando senza bussola i servizi segreti (un tempo i migliori del mondo) e sguarnito il fronte Sud di Gaza, presidiato da appena due compagnie di reclute e dalla polizia locale. E proprio sul fronte Sud alle 6.30 del 7 ottobre 2023, all’indomani del cinquantennale della guerra del Kippur, mentre Israele festeggia il Simchat Torah (“Gioia della Torah”), Hamas sferra l’operazione Alluvione Al-Aqsa: 2.500 terroristi s’infiltrano da Gaza in Israele su autocarri, camioncini, moto, persino deltaplani e colpiscono vari kibbutz e un rave party. Lo Stato ebraico viene colto totalmente impreparato, malgrado gli allerta dei servizi egiziani e americani su un pericolo imminente. È una mattanza, la più grave strage di civili subìta da Israele: circa 1.400 uccisi in un giorno, compresi molti bambini e donne, e oltre 200 ostaggi. Netanyahu, giunto ormai al capolinea, tenta di ricompattare il Paese che lui stesso ha spaccato con un governo di unità nazionale. E scatena su Gaza l’operazione Spade di Ferro: 3.500 palestinesi morti, di cui mille bambini, in undici giorni. Si avvera la profezia di Gandhi: “Occhio per occhio e il mondo diventa cieco”.

(Fonte: articoli de Il Fatto Quotidiano acquisiti dal web)

-- Utile in argomento può anche risultare il video pubblicato su FB: https://www.facebook.com/100093589325051/videos/1192215235514400

venerdì 20 ottobre 2023

FILOCONDUTTORE



“Filoconduttore” così come è stata concepita per intitolare un’iniziativa artistica era la parola unificata di due, ideale per indicare il collegamento continuo fra tutte le cose.
Il titolo allude di certo alla teoria della relatività di Einstein e alla invisibile connessione e interdipendenza fra materia e antimateria: alla facoltà concessa all’homo sapiens di poter anche rendere praticabili e accomunare la lettura delle variegate possibili forme di cultura.
L’idea di Florinda Cerrito (in arte Zolleta) ha consentito a un appassionato gruppo di artisti, che hanno felicemente aderito all’iniziativa, di esprimere messaggi diversi. Per veicolare secondo il proprio sentire, con sapienza, creatività e fantasia, la potenziale e la sempre valida utilità univoca costituita dall’arte.
Peraltro, nel mondo contemporaneo, dominato dal linguaggio visivo, l’arte a 360 gradi è oggi il mezzo più efficace e adatto per veicolare punti di vista e magari per provocare veloci reazioni, per suscitare validi dibattiti finalizzati a poter confrontare qualificati propri punti di vista difformi, di leggere e interpretare il reale, il quotidiano, rappresentando le tante possibili visuali. Con l'intento primario di cercare di Focalizzare bellezza e tristezza, emancipazione e degrado; accendendo luci per illuminare angoli oscuri e nascosti, ovvero denunciando aspetti che sarebbe utile capire prima di pronunciarsi seguendo spesso solo dei grezzi e raffazzonati preconcetti.
I sedici autori chiamati a raccolta da Florinda si sono espressi seguendo “idiomi” differenti, anche se tutti convergenti a voler fotografare l’oggi, secondo diverse sensibilità e con l’utilizzo della forma artistica a ciascuno più familiare.
Non si trattava di appassionati privi di talento o di ciarlatani spesso incapaci anche di saper copiare; perché riuscire a copiare non è facile, poiché necessita di padronanza nel mestiere, costituisce anch’essa un’arte. E nemmeno di "addottrinati virtuali", derivanti da una delle tante scuole a pagamento che, per lo più, dispensano lauree e diplomi utili per inquadramenti più redditizi nelle burocrazie ove operano, ovvero per mostrarsi a tutti come qualificati dottori. La maggior parte di loro ha provenienza dagli istituti d’arte e alcuni vi operano tuttora.
Dicotomie, allusioni e metafore sono stati gli strumenti scelti, anche provocatori e mai banali, adottati dai molti nelle loro proposte; con opere e installazioni che osservate più attentamente riuscivano a mostrare molte sfaccettature e gradazioni di colore (concettualmente parlando), a un primo acchitto (termine relativo al gioco del biliardo per indicare la mossa iniziale con la quale un giocatore manda la propria palla in un punto sfavorevole per l'avversario) apparentemente nascoste.
Le varie puntate sviluppate separatamente in happening nella città di Palermo, curate autonomamente da ciascun artista, sono state ben rappresentate nella pubblicazione (numero uno della serie) e in un correlato video (visionabile in mostra) realizzati dal fotografo Giacomo Barone, che ha seguito e documentato tutte le varie puntate dell’intera operazione (anche sue foto sono postate su Instagram - https://www.instagram.com/f.iloconduttore/).
La mostra allestita al Baglio Di Stefano di Gibellina Nuova (Fondazione Orestiadi di Gibellina, visitabile fino al 5 novembre) espone le opere secondo un aspetto diverso e strutturato, andando a costituire un momento di sintesi volto a raggruppare molti dei tasselli proposti nelle singole puntate. Riunendo, quindi, in un unicum variegati discorsi, mescolando il classico e moderno, l’avveniristico e il realistico col surreale; riuscendo così ad offrire validi spunti anche all’osservatore conformista scettico e magari pure sconcertato.
Un’operazione intrigante e con la proposta di un insieme di opere comunque legate da quel filo conduttore sempre necessario a ogni forma d’arte, indispensabile per l’interscambio e l’interlocuzione che ne costituisce l’intento di base.
Al riguardo la curatrice ci dice che “c’è un filo invisibile che corre e gioca in mezzo a noi”. Volenti o nolenti è la pura verità, anche se rimane problematica la qualità dei messaggi e la metodologia tecnica adottata nella trasmissione.
Florinda Cerrito scrive nella pubblicazione da lei curata: “Avevo in mente questo progetto già da alcuni mesi, antecedenti al gennaio di quest’anno. Tra una mostra e l’altra, tra una collettiva e un evento, percepivo la voglia di fare qualcosa di diverso, sempre in ambito artistico. Qualcosa che coinvolgesse non solamente gli artisti e la stretta cerchia di fedeli, amanti e appassionati d’arte, ma anche un pubblico ignaro, inconsapevole, senza filtri, fuori da determinati circuiti. E inoltre, sapendo che nell’arte gravitano sinergie e connessioni fortissime, inevitabili, che non sempre riescono a incrociarsi o a interagire, ho immaginato qualcosa che facesse da collante, che unisse diverse forze, diversi artisti. Così ho pensato a FILOCONDUTTORE, un progetto sperimentale che nasce dalla voglia di questa sinergia, dall’inevitabile incontro dell’arte di tanti artisti e del mondo esterno.”
Alla luce dei risultati e senza ombra di dubbio, si è rivelata un’iniziativa atipica, di elevato profilo culturale e che ha riscosso un indubbio successo.
Anche perché moderare sedici artisti non è mai un’operazione facile, specie se ci si muove nella sperimentazione che rappresenta da sempre un campo minato.

Oltre a Florinda Cerrito all’operazione hanno aderito, indicandoli in ordine sparso, gli artisti: Gloria Agnello, Martina Billeci, Claudia Cordaro, Juan Esperanza, Yeoran Lee, Luca Savino, Fulvio Governale, Vincenzo Giovinco, Giusi Di Liberto, Cristina Correnti, Alessandra Cerrito, Noemi Sgarlata, Sonia Priulla, Fabio Ventimiglia e Claudia Villani.

Immagini delle opere in mostra sono visibili nello slide show attivabile attraverso il link: https://youtu.be/JOSmQ1kp8tM

Buona luce a tutti!


© ESSEC

mercoledì 18 ottobre 2023

SID, Street Art e tanto altro



Per il passato musicale la sua sigla artistica SID deriva dalla passione per i Pink Floyd, del cui gruppo Syd Barrett è stato fondatore e leader.
Nelle sue opere è presente sottesa, peraltro, tanta musica, di vario genere e che ciascun osservatore potrà individuare personalizzandola, secondo i propri gusti e preferenze.
Le produzioni di SID si articolano in più ambiti espressivi, comprendendo parallelamente disegno, pittura, scultura; il tutto collegato ad un continuo impegno nella street art, concepita quest’ultima come un’esposizione artistica pubblica, in un ampio museo popolare.
Lo slide show - preparato con l’utilizzo delle opere pubblicate su Facebook - consente di visualizzare l’evoluzione del suo percorso creativo negli ultimi anni e leggere così i tratti peculiari alla sua complessa narrazione.
SID è un autore inquieto e genialoide che denuncia accennando, ma anche scavando nel profondo dell’anima di chi è chiamato a osservare le sue fantasiose creazioni.
Alcuni messaggi sono evidenti, altri costituiscono delle opere aperte – come detto - appena accennate e spesso destinate ad essere colte da chi sta vivendo certi momenti.
Il suo mondo onirico coabita con la vita reale e si mescola per denunciare necessità e debolezze diffuse abbastanza comuni, ma anche per continuare a coltivare sempre la speranza per un futuro migliore.
Le sue uova frequentemente rappresentate coltivano l’illusione che possano così nascere sorprendenti libertà essenziali; dei metaforici uccelli forieri di voglia di vivere, capaci di librarsi come nel racconto dello “Zio Cardellino” regalatoci dal mitico Luciano De Crescenzo ex IBM.
Le sue gabbie, di contro, denunciano l’eccesso ammorbante di regole e di condizionamenti che rendono sempre più difficile l’esistenza a chi non gode di privilegi.
SID rappresenta anche come i mezzi disponibili per poter ogni tanto chiudersi e assentarsi dal mondo sono tanti e percorribili con i rischi connessi.
Le pitture e i disegni al riguardo appaiono alquanto emblematici nel descrivere strumenti utilizzabili: dalla sana musica, all’alcool, alle droghe e a ogni altro possibile allucinogeno (o strumento utile a nutrire illusioni). Stratagemmi artificiali che consentono, seppur per un breve tempo, di staccare la spina, per poi riprendere nella banalità del quotidiano che può anche risultare stretta.
La proposizione sequenziale delle opere attuata nello slide show successivamente indicato non segue una logica cronologica, ma le singole creazioni sono assemblate per fornire elementi sufficienti a poter farsi da sé un’idea e così venire a leggere l’esistenza come ponendosi davanti a uno specchio.
Le considerazioni che ciascuno potrà trarne corrisponderanno, quindi, a veri e propri selfie.
In conclusione, non credo che occorre aggiungere altro.
La vita è bella perchè è varia e .... ciascuno potrà cantarsela e suonarsela come meglio gli aggrada.
Per chi non conosce le opere di SID e fosse incuriosito un piccolo slide show esemplifica parte della sua produzione. Il link video postato su You Tube è: https://youtu.be/CV0X___9tw8?si=187ZXhIacnZrob4f

Buona luce a tutti!


© ESSEC

mercoledì 11 ottobre 2023

Pietro Tramonte, inventore di una biblioteca del popolo a Palermo, per una cultura riciclabile alla portata di tutti



“Scoprire come appaiono le cose quando sono state fotografate e come le modifichi il fatto di essere state fotografate. Spesso accade che una volta fotografate le cose assomiglino ad altre fotografie, sia che si tratti di foto che sono state scattate, sia che si tratti di foto che attendono ancora di essere realizzate”.
È una delle tante asserzioni contenute nell’ampio saggio “L’infinito istante”, nel quale Geoff Dyer effettua una lunga disamina di tantissime fotografie/pitture collegate, contaminate, emulate e talvolta messe anche a paragone, associandole all’intendimento narrativo e alla sottostante filosofia di molti fotografi famosi che hanno molto influenzato e talvolta scritto importanti capitoli nella storia della fotografia.
Indipendentemente dalle tante opinioni, è altresì certo che – specie nell’analogico - il risultato dello sviluppo della pellicola impressionata è sempre stata una spasmodica attesa (in parte l’attesa rimane anche nella post produzione del digitale di adesso, per verificare al computer la presenza di eventuali mossi indesiderati, sfocature, elementi di disturbo o altro). Ed è pure vero che, nell’immaginario del fotografo d’ieri e come in quello di oggi, ben precisi fotogrammi rimangono immediatamente impressi nella memoria perché già da subito pensate come fotografie azzeccate.
Un occhio attento sa, infatti, riconoscere al volo la potenzialità di una scena, di un fenomeno, di un accadimento improvviso ma previsto, di una propria invenzione creativa estemporanea.
Quando, però, del contenuto di certe immagini – specie nel concettuale - si è chiamati a dare troppe spiegazioni può anche accadere come per le barzellette, prive di acutezza e talvolta insipide nella reale efficacia.
Non sempre chi crea è felice nel riuscire a mandare messaggi specifici, specie se ricorre a troppe metafore o eccede nelle allusioni; miscelando talvolta disordinatamente troppi elementi che così facendo si confondono e diventano non facilmente distinguibili.
Ma la bellezza del gioco artistico è anche quella di perseverare nel continuare a buttare piccole pietruzze nell’acqua stagnante e magari stare ad aspettare, per vedere l’effetto che fa.
Capita, quindi, che qualcuno colga già il gesto - individuando le caratteristiche della mano che le getta - ovvero che alcuni si accorgano della cosa solo quando cerchi concentrici cominciano ad allargarsi.
Ma c’è anche chi rimane distratto e si accorge solo dell’increspatura, senza riuscire a capire l’origine dell’azione e magari permane indifferente nell’ascoltare la risacca delle piccole onde che s’infrangono ai bordi della pozza d’acqua, senza capire né chi è stato a lanciare il sasso e nemmeno il perché.
Ambizione di molti rimane quella di riuscire a inglobare in un’opera una narrazione coinvolgente e una musica sottesa fatta da equilibri compositi che si completano e si esternano contemporaneamente attraverso la loro osservazione.
È indubbio che l'ignoranza non potrà di per sé costituire automaticamente per alcuno una colpa. Ciò per il semplice fatto che potrebbe discendere o anche essere stata influenzata dal contesto sociale che modella ogni crescita individuale; per ciascuno specifica e unica, magari legata alle opportunità economiche famigliari, dal contesto socio-politico in cui si vive, a partire dal livello del corpo insegnante che ci ha nutrito culturalmente nel corso degli anni e fin dalle scuole d’infanzia.
Anche per questo motivo l'ignoranza non dovrebbe mai generare imbarazzo. Tutti quanti, senza eccezione per nessuno, non potremo mai essere onniscienti e ignoreremo sempre tantissime cose e, anche se il bagaglio culturale di cui siamo dotati potrà essere più ricco, nella vita non si finirà mai d’apprendere; indipendentemente da quanto siamo in condizioni di poter noi dare agli altri.
La casualità è un’altra importante componente variabile che prescinde da qualsiasi condizione. Porta ad avere incontri imprevisti con personaggi strani o, per meglio dire, non consoni alle usuali normalità domestiche. Soggetti che appaiono quasi inesauribili per la carica che li anima e l’entusiasmo che sono capaci empaticamente di trasmettere.
In questa casualità imprevedibile il Pietro Tramonte che ho avuto modo di incontrare è un giovanile uomo della classe '48, al quale piace vivere in mezzo alla gente e che si è inventato dal nulla una realtà seguendo l’istinto in un’impresa quasi utopica.
La sua Biblioteca Privata Itinerante è un’invenzione che contrasta con tutte le regole del commercio moderno, che riporta alla donazione e baratto, a sistemi assolutamente non consoni al modello sociale di sviluppo di oggi, improntato al consumismo capitalistico basato sul lucro.
La sua operazione, grazie al sapiente utilizzo dei social, lo ha fatto assurgere a un fenomeno turistico anche per i tanti crocieristi che lo cercano e incontrano girando per i vicoli del centro storico di Palermo e con i quali dialoga grazie alle conoscenze linguistiche acquisite.
Oltre ad assolvere a una sua missione culturale, col suo fare dispensa accoglienza, entusiasmo per continuare a conoscere e intanto rallegrare le genti.
La storia insegna che sono tanti i folli che si ribellano o si sono ribellati all’andazzo ordinario omologato. Qualche volta, sappiamo che seppur fisicamente eliminati, sono riusciti a creare proseliti, fondando magari religioni.
Si seguito un link che documenta il mio incontro e che forse riesce a dare, in qualche modo, un’idea del personaggio: https://youtu.be/WScftPRVK7Q?si=YOyXwpZW2E-uZMe_

Buona luce a tutti!


© ESSEC

domenica 8 ottobre 2023

Maelstrom (Vortice) di Michele Di Donato



Michele Di Donato, autore delle opere in mostra alla Galleria Fiaf dell’ARVIS di Palermo, con la sua esposizione viene a rappresentare un progetto lungamente pensato ed al quale ha lavorato da alcuni anni, composto da tanti scatti realizzati in diversi teatri italiani.
La sinossi di Fabiola Di Maggio, ampia e articolata, descrive gli intenti dell’autore e si sofferma sulla ricerca sottostante alla sua operazione.
In merito al titolo attribuito alla mostra, viene in soccorso il web, là dove si legge che “a seconda del volume dell'acqua e della forza con cui si scontrano, compaiono vortici di dimensioni diverse. I più grandi e pericolosi sono chiamati vortici o maelstrom, parola norvegese che deriva da malen (macinare, schiacciare) e strom (corrente), cioè corrente di frantumazione”.
L’idea che prevale nella mia personale lettura della mostra è anche quella di un tentativo nel cercare di fermare, con un concetto fotografico, l’energia ovvero la dinamica della materia.
Il tutto con cromatismi che pongono un accento sulle diverse intensità di frequenze, fissando momenti del mescolamento di estetiche fisiche; scansionandole in serie, per evidenziare dinamismi celati attraverso istantanee.
Nei differenti pannelli compositi si illustra così, con singoli tasselli/fotogrammi, l’evoluzione di fenomeni immaginati e certamente letti secondo logiche di dinamica “quantistica”.
Le sequenze associate tendono, quindi, a rappresentare i turbinii (vortici) che ci avvolgono; ovvero il materialismo composito che di regola costituisce la nostra dimensione e che appare con figure già consolidate e definite che appaiono apparentemente stabili.
Anche se nelle sue intensioni Michele Di Donato confida di aver voluto rappresentare, in qualche modo, equilibri dinamici tendenti ad focalizzare il precipitare della materia, in un immaginario unico buco nero (vortice assorbente), a mio parere, talune serie fotografiche esposte nei pannelli potrebbero anche fare immaginare il processo opposto, cioè la dinamica che crea nuove le stelle e le eventuali realtà planetarie correlate.
In ogni caso ritengo che l’operazione, di per sé, sia ampiamente riuscita già solo per l’estetica raffinata che coinvolge l’osservatore in un maelstrom seriale; realizzato attraverso una attenta postproduzione, selettiva d’immagini dei differenti ballerini presi in azione, che ben concettualizza le dinamiche nascoste sottostanti al “materialismo complesso” (e il mio amico Mario mi sottolinea come fondato sull’equivalenza funzionale tra materia ed energia) che avvolge l’intero universo.
In altre parole, a mio parere, la mostra di Di Donato, miscelando l’insieme dei nostri cinque sensi (con l’aggiunta della base musicale nello slide proiettato nella sala adiacente) suscita emozioni e ci viene a raccontare – anche in maniera esplicita - la realtà esistenziale.
Con una visuale diversa e originale, che va oltre la nostra naturale percezione e ogni verità apparente.

Buona luce a tutti!


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venerdì 6 ottobre 2023

“Oltre il nitido” di Salvo Valenti



A mio parere, chi ha il coraggio di mettersi in discussione, intraprendendendo nuove strade - e magari discostandosi da collaudate proposte precedenti, che avevano pure fatto registrare giudizi positivi - merita sempre un plauso.
Salvo Valenti, con la sua prima personale “Oltre il nitido” all’ARVIS di Palermo, ha voluto avventurarsi in un ambito artistico per lui diverso, pienamente consapevole di sperimentare.
Alla luce del risultato della mostra, forte anche della collaborazione nell’editing dell’amico Michele Di Leonardo, può ben dirsi che è stato in tutto e per tutto un vero successo.
Per mio conto, devo riconoscere che nutrivo dei seri dubbi per quando ci ha voluto anticipare circa le intenzioni, perplessità che sono state clamorosamente smentite, quindi: chapeaux a Salvo.
Al di là delle particolari soluzioni di stampa diretta su fogli forex per 28 delle 34 immagini, la tematica fissa è risultata variegata in relazione alle soluzioni estetiche differenti; con fotografie disposte in blocchi omogenei, che andavano così a costituire dei capitoli separati.
Nell’arte, assumere come obiettivo principale la sperimentazione consente di godere di ebrezze non pianificate, spesso frutto di intuito inconscio, ma anche istintivamente scoperte durante un’attenta cura nella fase di post produzione.
A mio parere, le soluzioni prospettate nell’editing da Di Leonardo (sintesi tratta dalle circa centottanta fotografie prescelte da Valenti), hanno consentito di organizzare almeno quattro tipologie di proposte, tutte in qualche modo associabili o richiamanti - come stile – l’impressionismo pittorico francese di fine ottocento/inizi novecento.
Andando a ripercorrere con la memoria la mostra, nella prima stanza, un primo blocco, di sei immagini a colori e incorniciate, costituivano un mix d’immagini richiamante il glamour.
Poi, a latere, un blocco di sei foto paesaggistiche (sempre a colori), quindi due dittici (uno a colori, l’altro in B/N) con evidenti richiami alla street photography (con riconoscibili anche alcuni monumenti cittadini) e la sinossi scritta da Carlo Baiamonte.
Nella seconda stanza, erano esposti altri due dittici di street photography (entrambi in B/N), quindi due forex affiancati con quattro fotografie a colori ciascuno che presentavano forti connotati geometrici.
Infine, due delicatissimi trittici, pure questi a colori e anch’essi raffiguranti immagini paesaggistiche vicine allo stile pittorico delicato degli acquerelli.
Nella maggior parte delle fotografie esposte, per la tenuità dei colori, l’atmosfera e per le estetiche delle immagini proposte, oserei dire che aleggiava nelle due stante un vago fantasma inconfondibile: quello di Luigi Ghirri.
Alcune delle fotografie sembrano quasi essere delle sue opere, magari sapientemente shakerate da Valenti con la sua formula del “mosso”, per essere proiettate "Oltre il nitido".
In aggiunta o a completamento, a latere della mostra uno slide show, corrispondente all’intero serbatoio delle poco meno duecento immagini da cui erano state estratte le 34 fotografie che costituivano la mostra (tutte raggruppate nel collage di copertina) e che, per sommi capi, ho provato a raccontare.

Buona luce a tutti!


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La fotografia è in genere un documento, la testimonianza di un ricordo che raffigura spesso persone e luoghi, ma talvolta può anche costituire lo spunto per fantasticare un viaggio ovvero per inventare un racconto e leggere con la fantasia l’apparenza visiva. (cliccando sopra la foto è possibile visionare il volume)

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Monte Pellegrino visto da casa natia di Acqua dei Corsari

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