La democrazia rappresentativa intesa come premierato di comando. Il consenso popolare declinato come assenso populista. Il Parlamento svilito a gran bazar. Nella fase discendente del ciclo berlusconiano, tocca ancora una volta al Capo dello Stato l'esercizio di una "pedagogia repubblicana", senza la quale l'Italia di oggi rischierebbe una deriva sudamericana. A Salerno, dove nel '44 Palmiro Togliatti annunciò la sua "svolta" contro il fascismo, Giorgio Napolitano impartisce la sua "lezione" al berlusconismo. È prima di tutto una lezione di ordine politico. Non è vero che il ricorso al popolo è sempre "il sale della democrazia", come hanno ripetuto spesso in queste settimane il Cavaliere e i suoi scudieri. E non è vero che il ricorso al popolo "è il balsamo per ogni febbre". Il messaggio del presidente della Repubblica è chiarissimo. Ha una portata generale: in democrazia la sovranità appartiene certamente al popolo, che tuttavia la esercita nei modi e nelle forme previsti dalla Costituzione.
Ma ha anche una portata specifica: nelle condizioni attuali, non si può immaginare di risolvere un problema interno alla maggioranza ricorrendo alle urne. Sarebbe una farmacopea dissennata: se il centrodestra ha la febbre, è il centrodestra che deve curarsi, non le Camere che devono sciogliersi. Dunque, Berlusconi si dimentichi l'automatismo "crisi di governo-elezioni anticipate": il ricorso alle urne, oggi, non avrebbe alcun senso. In attesa dell'ordalia di fine settembre, e del voto sui cinque punti di rilancio programmatico, c'è una maggioranza che ha il dovere di riorganizzarsi, e c'è un governo che ha il dovere di governare. Il resto sono chiacchiere, alibi o diversivi.
Sembrano ovvietà. E lo sarebbero, in un Paese normale. Non lo sono affatto nell'Italia di oggi, dove il "contesto" riflette ed amplifica la sempre più gigantesca anomalia berlusconiana. Il presidente del Consiglio vive sospeso. Ha rotto con Gianfranco Fini. Non si fida di Giulio Tremonti. È ostaggio di Umberto Bossi. In questa inconsueta condizione di vuoto politico e di solitudine personale, alterna fragorose minacce e indecorose retromarce. Nei giorni pari, in privato, lascia trapelare la sua ferma volontà di arrivare alle elezioni anticipate. Nei giorni dispari, in pubblico, rilancia la sua ferrea certezza di poter arrivare in gloria alla fine della legislatura.
Nel frattempo, mentre il Dottor Stranamore studia per lui qualche altra "ghedinata" per ripararlo dai processi di Milano, il premier mette in scena un indecente mercato delle vacche, azzardando la più massiccia compravendita di parlamentari che la storia repubblicana ricordi. Con un doppio, paradossale effetto boomerang. Primo: l'operazione di sostituire il pilastro dei finiani con la stampella dei centristi muore in culla il giorno dopo la nascita: persino le anime vacue in transito perenne tra Pri, Udc e Mpa preferiscono non salire su un carro che appare ormai perdente.
Secondo: l'operazione tradisce la visione palesemente contraddittoria e volgarmente trasformista del berlusconismo. Dopo aver invocato il delitto di lesa maestà contro il presidente della Camera, reo di aver fondato il suo gruppo parlamentare di "Futuro e Libertà" che avrebbe modificato il perimetro della maggioranza e alterato la natura del Pdl, il premier inventa una manovra uguale e contraria, assecondando la nascita del gruppo parlamentare di "Responsabilità nazionale". Bisognerebbe spiegare agli italiani perché la seria diaspora della destra vicina a Fini è un "tradimento degli elettori", mentre l'improbabile armata Brancaleone riunita intorno a Nucara è un "rafforzamento della maggioranza".
In questo abisso di bassezze e di controsensi, quella di Napolitano è anche una lezione di ordine costituzionale. Dopo un'estate di spallate violente contro le istituzioni di garanzia, il Capo dello Stato è costretto a ricordare "la polemica allusiva e non sempre garbata" che la maggioranza ha sollevato nei suoi confronti, proprio a proposito delle elezioni anticipate. "Si è mostrato stupore per il fatto che il presidente della Repubblica non apparisse pronto, con la penna in mano, a firmare un decreto di scioglimento delle Camere...".
Con l'arma dell'ironia, Napolitano risponde agli attacchi del presidente del Consiglio e dei suoi luogotenenti, che da mesi tengono sotto assedio il Quirinale e sotto ricatto la Costituzione formale, in nome di un'inesistente "Costituzione materiale" forgiata dagli elettori attraverso l'indicazione del nome del candidato premier sulla scheda. Con l'arma della fermezza, Napolitano ripete che "la vita di un Paese democratico e delle sue istituzioni elettive, nelle quali si esprime la volontà popolare, deve essere ordinata secondo regole per potersi svolgere in modo fecondo".
Ma è proprio sulle regole che il berlusconismo svela ancora una volta i suoi limiti strutturali e i suoi deficit culturali. Il premier non conosce Saint Just, che alla vigilia del Termidoro scriveva "le istituzioni sono la garanzia della libertà pubblica, perché moralizzano il governo e lo Stato". Non sa nulla di Rousseau, che diceva "la forza non fa il diritto". Per il Cavaliere l'unico diritto possibile si chiama Berlusconi. E oggi non è più neanche una forza, ma semmai una debolezza. Per questo, e non è un paradosso, è ancora più pericolosa.
Massimo Giannini@repubblica.it (La Repubblica - 15 settembre 2010)
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