pubblicato su Libero il 28 gennaio 2011
Gentile Direttore,
Silvio Berlusconi è entrato nel mio mirino nell'estate del 1986, un quarto di secolo fa, quando presentò il Milan all'Arena di Milano con contorno di vallette, letterine, cantanti alla moda, saltimbanchi. Mancava la puttanona scosciata in groppa all'elefante e saremmo stati in pieno Super Bowl. Era l'inizio dell'americanizzazione del calcio e quella definitiva del nostro Paese. Scrissi per l'Europeo un pezzo intitolato "Un americano a Milano" che cominciava così: «O il calcio distruggerà Berlusconi o Berlusconi distruggerà il calcio» (Europeo, 2/8/1986). Naturalmente ha vinto lui, come sempre.
Era da pochi mesi presidente del Milan che disse: «Non capisco perché a San Siro debbano venire anche i tifosi delle altre squadre togliendo il posto ai nostri». Qui c'è già tutto Berlusconi. Un bambino goloso che vuole giocare solo lui con la palla, gli avversari, se ci sono, devono essere di pura parata a sua maggior gloria, se fanno il loro mestiere «remano contro».Un prepotente patologico. Del resto bastava vederlo giocare, come è capitato a me, sul campetto dei Salesiani di via Copernico a Milano: era alto come il nano Bagonghi, ma pretendeva di fare il centravanti e non passava mai la palla. Anche qui c'è tutto Berlusconi. Quando il Cavaliere afferma «Bisogna fare gioco di squadra» in realtà vuol dire che si deve giocare per lui. E chi non ci sta finisce fuori.
E venne il "caso Lentini", il giovane asso del Torino. Berlusconi lo voleva a tutti i costi e fece un'offerta di 40 miliardi. Il giocatore dichiarò pubblicamente che i soldi non erano tutto, che ci sono anche altri valori, sentimentali, affettivi, emotivi, che lui era nato a Torino, giocava nel Torino dall'età di otto anni e lì voleva restare. Allora Berlusconi portò l'offerta all'incredibile cifra di 64 miliardi e il giocatore, figlio di operai delle Banchigliette, cedette. Il Cavaliere aveva dimostrato al ragazzo e al vasto mondo giovanile che ruota intorno al calcio che i soldi, nella vita, sono tutto. Una sana pedagogia. Come in una sinistra favola gotica Lentini, psicologicamente disturbato dal cambiamento d'ambiente, ebbe uno stupido incidente d'auto e non servì mai al Milan. Lo stupro era stato inutile, come nella canzone di De Andrè, "Il Re fa rullare i tamburi", dove il Re, incapricciatosi della sposa del Marchese, gliela toglie con le lusinghe e la prepotenza, ma la Regina, celando la sua offesa, regala dei fiori alla rivale «e il profumo di quei fiori ha ucciso la Marchesa».
In quel periodo Berlusconi comprava giocatori dappertutto, sapendo di non poterli fare giocare, pur di toglierli alle altre squadre. Il nazionale De Napoli in due stagioni giocò sette minuti, Savicevic, che allora era il miglior giocatore del mondo dopo Maradona, rimase a palleggiare per due anni nel parco di Arcore (c'erano i tre olandesi ed esistevano ancora i limiti all'impiego degli stranieri). Nonostante abbia sempre in bocca la "lealtà" Berlusconi è un uomo profondamente, intimamente, sleale, antisportivo. Non è affatto vero che ami la competizione, il suo sogno è un mondo ecumenico, un cielo dove brilli una sola stella, la sua. È un uomo che non sa perdere. La grottesca e disgustosa sceneggiata di Marsiglia docet.
Si è servito del Milan come principale strumento pubblicitario della Fininvest («Il Milan vince perché adotta la filosofia della Fininvest»), snaturando completamente il senso, psicologico e sociale, del calcio. Perché uno va allo stadio per dimenticare, almeno per un paio d'ore, gli affanni quotidiani, i problemi economici e politici, non per ritrovarseli sul campo sotto forma di Fininvest o di Parmalat o di Fiat e, più tardi, di presidenza del Consiglio.
In fondo bastava il calcio per capirlo. In compenso Berlusconi non capisce nulla di calcio. Voleva introdurre il "time out" come nel basket per eliminare i "tempi morti". Ma quando si sta per tirare un calcio d'angolo o una punizione, e in area succede di tutto perché i giocatori, attaccanti e difensori, cercano di trovare la posizione migliore, è un "tempo morto" quello?
Ebbi un momento di parziale resipiscenza nel 1994 quando Berlusconi si presentò alle elezioni. L'uomo continuava a non piacermi per nulla, per la sua mitologia del "vincente", per il suo egoriferimento, per l'incapacità di capire che esistono anche gli altri. Però era la prima volta che un imprenditore aveva il coraggio di metterci la faccia (il coraggio a Berlusconi non è mai mancato), invece di nascondersi dietro prestanome come facevano gli Agnelli. Così al posto di demonizzarlo da "Cavaliere nero", come faceva anzitempo la sinistra, scrissi per l'Europeo un articolo in cui dicevo sostanzialmente: vediamolo alla prova.
Ma venne il famoso "avviso di garanzia" del 1994, appena diventato presidente del Consiglio. Non era grave l' "avviso di garanzia", che è un istituto a difesa dell'indagato. Gravissima, e premonitrice, fu la risposta che Berlusconi diede a un cronista che gli chiedeva che cosa sarebbe successo se alla fine del procedimento ci fosse stata una sentenza sfavorevole: «Sarebbe una sentenza eversiva». Ed invece eversiva era proprio quella risposta, perché voleva dire che il presidente del Consiglio non accettava le leggi e le Istituzioni del suo Paese. E infatti arrivò la stagione delle leggi "ad personam" e "ad personas", le Cirami, le Cirielli, la norma suicida (per l'Italia) sulle rogatorie, i Lodi Maccanico, i Lodi Schifani, i Lodi Alfano, il "processo breve", cioè impossibile, il "legittimo impedimento" e la costante, capillare e devastante delegittimazione della magistratura italiana. Berlusconi, in questi anni, ha dimostrato di non avere nessun senso di essere classe dirigente. Una classe dirigente consapevole di sé e del suo ruolo non delegittima le Istituzioni perché sono le sue Istituzioni e dalla loro dissoluzione e dall'anarchia ha tutto da perdere mentre chi non ne fa parte da perdere, per dirla con Marx, «ha solo le proprie catene» (e infatti né Andreotti né Forlani, che saranno stati quello che saranno stati ma questa consapevolezza ce l'avevano, non hanno mai accusato la Magistratura di "complotto").
Una delle principali, se non la principale, responsabilità di Silvio Berlusconi è di aver tolto al popolo italiano quel poco di senso della legalità che ancora gli rimaneva. E in ogni caso, al di là di ogni considerazione giuridica e politica, ciò che io sento come profondamente e intimamente lesivo della mia dignità di uomo è che ci sia qualcuno che pretende di non sottomettersi alle leggi che io invece, come tutti gli altri, devo rispettare, relegandomi a cittadino di serie B, in una orwelliana "fattoria degli animali" dove «tutti gli animali sono uguali ma ce ne sono alcuni più uguali degli altri». Se Berlusconi avesse frequentato di più la strada e i bar avrebbe capito, a cazzotti, che certe pretese da "superiority/inferiority complex" era meglio che se le rimettesse in tasca.
Faccio grazia delle infinite gaffes di quest'uomo che oscilla perennemente fra il comico e il tragico. Racconterò un solo episodio. Ero in Corsica e leggevo Corse Matin che si occupa principalmente di fatti locali, dà alla Francia una sola pagina e alle vicende internazionali ancora meno. Ma quando Berlusconi all'assemblea di Strasburgo diede del "kapò" al capogruppo socialdemocratico Shultz, anche Corse Matin titolò in prima pagina «Derapage de monsier Berlusconi a Strasburgo».
Il Berlusconi di questi ultimi, stanchi, giorni, mi fa pena e quasi tenerezza. La mia impressione è che, nonostante le sue sette ville, più quella alle Bermude (sarebbe stato meglio "il triangolo delle Bermude"), i suoi jet personali, i suoi elicotteri, le sue scorte feudali, le sue ricchezze, dominato com'è dal suo demone, il "fare per il fare", non abbia avuto il tempo per godersi la vita e cerchi di recuperare in finale di partita. Queste storie delle ragazze sono un segno di senilità e non sarò certo io a giudicarlo. Anzi su queste storie di mutanda, che scatenano le "suorine di sinistra", l'ho sempre difeso sul Fatto. Anche se fa una certa impressione che un uomo col suo potere e con i suoi soldi debba ridursi a bazzicare dei semicessi come la D'Addario, dovendole, per soprammercato, anche farsele pagare. Berlusconi, nonostante tutto il consenso popolare, e spesso la piaggeria dei saprofiti che lo circondano, è un uomo solo. E vale, credo, quello che scrissi sull'Europeo all'epoca del "caso Lentini" in un articolo intitolato: «Ma Berlusconi resta sempre un poveretto».
Massimo Fini
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