"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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domenica 22 dicembre 2019

Massimo Fini: "Liti temerarie, era meglio la Dc"


Uno degli slogan del Sessantotto recitava: “Pagherete caro, pagherete tutto”. Io l’ho trasformato in “rimpiangerete caro, rimpiangerete tutto”. Anche, e forse soprattutto, la Democrazia cristiana. Giorni fa Marco Travaglio ricordava sulle colonne di questo giornale: “I democristiani, consci del loro enorme potere, rispettavano la funzione critica della stampa ed evitavano di intimidirla trascinandola in tribunale ogni due per tre”. Io che qualche anno in più di Marco ce l’ho, e ho quindi vissuto la lunga stagione del potere democristiano, posso confermare le sue parole in corpore vili. Per tutta la vita sono stato antidemocristiano e ho attaccato la Dc, finché è esistita, in modo duro, spesso pesante, a volte ingiusto, anche se non credo nei termini personali e volgarissimi che son patrimonio della nostra stampa di oggi e, direi, di buona parte dell’attuale cultura italiana (io non mi sognerei mai di chiamare una donna sia che faccia politica o che ne sia del tutto estranea “patata bollente” o “tubero incandescente”, termini appioppati a Virginia Raggi da quel gran signore di Vittorio Feltri). Non ho mai ricevuto una querela dagli esponenti democristiani nemmeno quando a metà degli anni 80 ripresi sul Giorno, a proposito di Aldo Moro, un articolo impietoso pubblicato su Il Lavoro di Genova nei giorni delicatissimi del suo sequestro e che era stato intitolato “Aldo Moro: statista insigne o pover’uomo?” (Il Lavoro, Contropiede, 5 maggio 1978). Potrebbe dire il lettore: non ti querelavano perché non contavi nulla. Le cose non stanno proprio così. Durante la stagione democristiana io ho lavorato per L’Europeo e per Il Giorno di Zucconi e Magnaschi che non erano esattamente giornali di seconda linea e dove tenevo una rubrica molto seguita dai lettori e che non poteva sfuggire agli occhi di qualsiasi psicopolizia, democristiana o meno. Ma la Dc non ti estrometteva nemmeno dal dibattito pubblico. Padrona di buona parte della Rai lasciava che, sia pur col contagocce, vi partecipassero voci molto diverse dalla sua. Era la tattica, ma credo anche una forma mentis, del ‘ventre molle’. Modalità che spazientiva Indro Montanelli perché non trovava un contrasto forte alle sue opinioni. Un pomeriggio ero andato a trovarlo al Giornale e mentre si parlava appunto della Dc e della sua ‘mollezza’ il vecchio Indro mi disse: “A battersi contro avversari del genere non c’è gusto”. Poi prendendo dalla scrivania una immaginetta incastonata in una cornice d’argento, di quelle in cui in genere si mettono le fotografie della moglie e dei figli o di Padre Pio, me la mostrò. Lì per lì non capii, poi dalla carta un po’ traslucida emerse la figura inconfondibile di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, alias Giuseppe Stalin. “Con questo ci sarebbe stato gusto! Con questo –ripeté- ci sarebbe stato gusto a battersi!”. “Sì direttore –risposi ridendo- ma il tuo divertimento sarebbe durato poco perché ti avrebbe fatto fucilare”. Eravamo nel 1990 e Montanelli chiudeva così la sua prefazione al mio libro Il Conformista: “Gliela faranno pagare calando su di lui una coltre di silenzio: da quando i roghi non usano più, è la sorte che attende i conformisti che non si conformano”. E così è avvenuto.
Da allora la tattica degli uomini politici nei confronti dei giornalisti e degli intellettuali ha preso una direzione bifronte. Per coloro che, senza per questo essere dei rivoluzionari, hanno un angolo di visuale totalmente diverso nei confronti del ‘sistema’ c’è l’emarginazione e il silenzio. Per i pochi, pochissimi, giornalisti che nel ‘sistema’ ci stanno, combattendolo, c’è l’intimidazione costante, per tornare al discorso di Travaglio, della querela e dell’ancor più insidiosa e direi anche ignominiosa azione civile di danno perché nell’azione civile non si vuole che sia ripristinata la propria onorabilità, si vogliono solo quattrini, inoltre nell’azione civile anche un ladro che sia riconosciuto come tale dalla magistratura può avere soddisfazione, sempre pecuniaria, se il giornalista ha usato “termini non continenti”. E’ chiaro che per un piccolo giornale, o un singolo giornalista, ciò è estremamente oneroso, perché quand’anche si abbia ragione vuol dire costi e un’infinita perdita di tempo. Più che a lavorare noi dobbiamo passare le giornate a difenderci.
Poiché le richieste degli uomini politici sono milionarie andrebbe, come ricorda ancora Travaglio, ripristinata la fattispecie della “querela temeraria”, dove per far causa bisogna depositare una cauzione proporzionale alla richiesta del danno e se poi tu la querela la perdi, perdi anche la cauzione. E allora un uomo politico, che pur ha alle spalle la tutela rassicurante del suo partito, prima di fare una causa che ha solo scopo intimidatorio ci penserebbe due volte. Per parte mia, ma questo sta solo nel mio “personalissimo cartellino” come diceva Rino Tommasi quando faceva telecronaca degli incontri di boxe, ripristinerei l’antico istituto del duello. E allora si vedrebbe chi ha le palle e chi non ce le ha.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2019)

giovedì 12 dicembre 2019

Antica Osteria Da Giovanni srl



In un piccolo ma accogliente ristorante romano, dove si mangia roba semplice e genuina, si possono fare anche incontri strani.
Di recente mi sono ritrovato a pranzare seduto proprio di fronte a uno che somigliava tanto a Sandro Ruotolo, un giornalista molto famoso negli anni novanta e oltre.
Ascoltando passivamente le discussioni che intratteneva coi suoi due commensali, appunto per il fatto di ritrovarmi a pochissimi metri da lui, sembravano non esserci dubbi sulla identità del soggetto.
In un intervallo del suo dialogare con chi lo accompagnava, ho quindi chiesto: “mi scusi se la importuno, ma mi sembra che lei somigli al giornalista Sandro Ruotolo”.
La risposta immediata fu che mi stavo sbagliando perché lui era il fratello gemello. Impreparato a quella risposta, non avendo conoscenza dell’esistenza di un gemello, avanzai il dubbio che forse mi stesse un prendendo in giro, ma lui mi ribadì di essere proprio il fratello.
Stranamente tenne pure a precisare che lui era di Napoli, di contro risposi che io invece ero siciliano, ovviamente, nel caso, non avevano senso sia la sua precisazione che la mia.
Poi, in modo provocatorio il supposto gemello mi invitava ad accettare una sua proposta di scommessa. Si mostrava disponibile a farmi vedere il suo documento per supportare la sua identità e se avesse avuto ragione lui io avrei dovuto pagargli il pranzo che stava consumando. Certamente era alquanto inconsueto questo modo di approcciare con qualcuno che non conosci e ancora di più quando – vedendo che non raccoglievo la sua provocazione – andava pure ad alludere in modo non tanto velato a una presunta mia codardia.
Io questo Sandro Ruotolo lo avevo sempre visto attraverso la TV, nella funzione pubblica di giornalista sagacemente esercitata come inviato speciale nelle tante e famose trasmissioni di Michele Santoro. Trovavo quindi alquanto stravagante questo suo approccio attuato con uno che non conosci e che stava semplicemente chiedendo certezza sulla tua identità.
Nell’attesa che arrivasse la mia portata, per una mia curiosità tirai fuori il cellulare per verificare su internet l’esistenza di un eventuale fratello gemello. La ricerca si rivelò positiva, pertanto, aspettando sempre una piccola pausa nel suo continuo dialogare con chi lo accompagnava, mi inserii per dirgli che avevo trovato la conferma dell’esistenza di un suo fratello gemello e che quindi verosimilmente forse mi aveva appena detto la verità, anche perché non vedevo attorno a noi alcuna traccia di scorta.
La reazione del supposto gemello risultò imprevedibile e assolutamente inverosimile. Irato mi investì dicendo che ero un maleducato, che mi ero proposto senza presentarmi, che non sapeva con chi stava parlando e che in qualche modo lo stavo pure importunando. Per mia educazione mi presentai senza però che la cosa fosse corrisposta. Per come si erano svolti i fatti, nel caso ci fosse stato qualcuno che si era “allargato”, quel qualcuno di certo non ero stato io. 
Continuammo pertanto il pranzo cercando di ignorarci vicendevolmente, ma a me non andava per nulla giù questa cafonaggine manifestata da un individuo al quale mi ero peraltro educatamente rivolto con il “lei”, esordendo come detto con la frase “mi scusi se la importuno” e al quale solo dopo averne avuto l’attenzione avevo chiesto la conferma della sua vera identità che, quale personaggio pubblico, peraltro anche famoso avrebbe forse dovuto pure lusingarlo.
Al suo tavolo finirono il pranzo prima e chiesero il conto. Nell’andare via si girò verso di me quello che lo accompagnava e mi aveva sempre rivolto le spalle e che aveva ascoltato tutto.
Ebbi la sorpresa di ritrovarmi di fronte a Michele Santoro, al quale chiesi se ci avevo stavolta azzeccato, lui nel confermare l’identità con simpatica ironia precisò che lui però non aveva fratelli gemelli. Ci stringemmo cordialmente la mano e, ancora turbato per l’irrazionale comportamento del Ruotolo supposto gemello, gli manifestai la mia meraviglia per la reazione inqualificabile subita.
Michele Santoro, nel minimizzare l’incidente, mi invitò a giustificare il fatto e di considerare che il supposto gemello almeno venti volte al giorno veniva fatto oggetto di quella domanda sulla sua identità e che quindi mi invitava a cercare di capire.
Io accolsi pienamente l’invito conciliante di Santoro, ma continuai a sottolineare l’irrazionale comportamento di chi lo accompagnava, precisando pure che nel caso uno ha dei problemi deve cercare di risolverseli da solo evitando di esibirsi in una così incauta “screanza”.
In questa appendice, intanto il Ruotolo, in maniera quasi assente assisteva, continuando a mantenere quella sua posizione di presunto offeso che, a mio avviso, oggettivamente sembrava proprio assurda.
Andarono via e io chiesi a mia volta il conto. Pagai e nell’accennare all’increscioso incidente appena occorso mi venne detto che l’interlocutore con il quale avevo avuto modo di discutere era proprio lui, ma di quale Ruotolo si trattasse chiaramente non mi fu detto e mi rimase il dubbio. Era Sandro o Guido? In un caso o nell’altro rimasi comunque pervaso da una triste compassione per quella reazione assurda.
Sono cose che capitano ai vivi potrebbe pure dire qualcuno, per me questa era stata ancora la riprova del fatto che certi “personaggi, che magari sono stati anche un poco famosi” spesso invecchiano proprio male, poverini loro.
Sulla problematica che stava interessando di certo anche quel vecchio giornalista, chiunque egli fosse, valeva certamente quella stessa efficace citazione che avevo raccolto dalla lettura dell’ultimo romanzo scritto da Gianrico Carofiglio e da cui avevo già preso spunto per scriverci un articolo che può indurre, specie a chi è più avanti negli anni, magari a rifletterci su.

  © Essec

lunedì 2 dicembre 2019

“Uno dovrebbe essere capace di morire giovane per rimanere vivo, ma non accade quasi mai”



Una cosa a cui stanno molto attenti gli esperti della storia dell’arte e dei critici in genere è certamente quella di studiare il percorso formativo operato nel tempo da ciascun artista. Ciò indipendentemente dalla disciplina artistica di riferimento. Le produzioni antecedenti all’affermazione riconosciuta di ogni creativo costituiscono elemento fondamentale per carpirne i riferimenti d’origine, l’effettiva crescita, le scelte e quant’altro. Per questo motivo le così dette “antologiche” che costituiscono un punto fondamentale per ogni artista, rappresentano un appuntamento molto importante per conoscerlo veramente, attraverso la sua produzione temporale.

Qualcuno ha scritto che bisognerebbe essere capaci di morire giovani. Non nel senso di morire davvero. Nel senso di smettere di fare quello che fai quando ti accorgi di aver esaurito la voglia di farlo, o le forze; o quando ti accorgi di avere raggiunto i confini del tuo talento, se ne possiedi uno. Tutto ciò che viene dopo quel confine è ripetizione. Uno dovrebbe essere capace di morire giovane per rimanere vivo, ma non accade quasi mai.” È quanto si legge nelle prime pagine del primo capitolo dell’ultimo romanzo scritto da Gianrico Carofiglio. Questa considerazione può intendersi valida per qualsiasi attività umana, ma si adatta perfettamente all’ambito artistico e a tutta la creatività in genere.

Quanto osservato evidenzia di contro i rischi di ripetitività che spesso si denotano in determinati autori/artisti che talvolta, quasi appagati e a coronamento di un loro percorso nel cercare di esprimere una loro visuale creativa, si adagiano ad uno standard che inequivocabilmente ormai li identifica ma che a lungo andare non introducono a nulla di nuovo.

Non ci si riferisce però alle ripetizioni di eventuali tecniche ampiamente sperimentate, che possono costituire spesso anch’essi elementi indentificativi dell’autore, bensì a vere e proprie riproposizioni di risultati già visti, magari anche premiati, che non giustificano - se non per rispondere a scopi meramente commerciali – una riproposizione e men che meno una produzione in serie di opere che costituiscono più o meno delle copie.

Per andare sul concreto ed intenderci, le particolarità delle luci del Caravaggio, ad esempio, sono tecniche innovative che hanno identificato l’opera caravaggesca nel suo complesso, ma non per questo i dipinti hanno mai costituito una ripetizione e ancor meno riproduzioni in copie, hanno solo caratterizzato il modo pittorico della fattura artistica dell’autore.

In qualche modo lo stesso può essere detto in fotografia per Henry Cartier Bresson. Le sue tecniche compositive sono assolutamente inconfondibili, ma l’ampia produzione fotografica dallo stesso realizzata nell’ampio spazio temporale dimostra che le tecniche adottate corrispondono a metodi di una personale scrittura.

Questi principi valgono in tutto il mondo creativo e costituiscono in sostanza lo stile che viene talvolta lungamente ricercato e adottato dall’artista – se non proprio insito nel suo modo di essere o conforme al suo DNA individuale - e che assume una particolare valenza in funzione del tempo e dei luoghi in cui si manifesta.

In tutti i casi, chi si pone come capostipite di una disciplina o corrente, è da considerare come un pioniere e chi verrà dopo dovrà affrancarsi dalla tentazione di limitarsi a copiare ma, bensì, di portare avanti il percorso di crescita tracciato, immaginando magari alternative o altre ulteriori soluzioni innovative.

L’argomento trattato può certamente intendersi anche in ogni ambito dell’umano, tecnologie e culture incluse.


Buona luce a tutti! 

 © Essec


sabato 30 novembre 2019

Prescrizione, chi ha interesse a mantenerla


Il dibattito sullo stop ai tempi della prescrizione alla sentenza di primo grado sarebbe surreale se non nascondesse interessi molto concreti e tutt’altro che limpidi. Chi si oppone a questa legge afferma che allungherebbe i tempi del processo. Vero, ma questo avviene su processi già lunghissimi che sono l’autentico nocciolo della questione, di cui parleremo più avanti. Per l’intanto la nuova legge se entrerà in vigore offre enormi vantaggi. Con l’attuale regime i magistrati vengono demotivati perché già durante l’iter del processo sanno che il loro lavoro cadrà nel nulla. Lo Stato (cioè noi cittadini) spende un fracasso di soldi altrettanto per nulla. Non c’è la certezza della pena. La parte offesa non otterrà mai alcuna soddisfazione. Per evitare questa legge che Di Maio ha definito giustamente “di assoluto buon senso” gli oppositori ricorrono a un escamotage: la legge deve essere subordinata a una preventiva riforma del Codice di Procedura penale. E’ come dire: non se ne fa nulla. La precedente riforma, quella curata da Giandomenico Pisapia insieme a uno stuolo di giuristi, ha voluto un lavoro durato dieci anni per partorire peraltro un obbrobrio, un ibrido fra sistema accusatorio e inquisitorio che non ha funzionato.
La riforma del Codice di Procedura penale, nel senso di uno snellimento dei processi, dovrebbe quindi correre in parallelo con la legge sulla prescrizione e non rimandarla alle calende greche. Ad opporsi alla legge sono soprattutto quei partiti, Forza Italia e Pd in particolare, che hanno nel loro dna una particolare propensione a delinquere come dimostra l’infinità di loro imputati in attesa di un giudizio definitivo. Costoro se la caveranno perché la legge non può essere retroattiva. I loro successori no. Secondo la ricostruzione di Antonella Mascali sul Fatto nel solo 2018 i processi caduti sotto la mannaia della prescrizione sono 117.367 e al primo posto ci sono i reati in materia edilizia, 13.260. E qui casca l’asino perché i “reati in materia edilizia” sono quelli propri di ‘lorsignori’: corruzione, appalti truccati, traffico di influenze, finanziamento illecito ai partiti.
Il nocciolo della questione non è quindi la legge sulla prescrizione ma l’abnorme durata del nostro processo che va a incidere, fra le altre cose, sulla durata, spesso altrettanto abnorme, della carcerazione preventiva e sulla possibilità o meno, durante la delicata fase delle indagini preliminari, di dare informazioni sull’attività degli inquirenti. Al segreto istruttorio, in questa fase, si oppone, bisogna pur dirlo, un’altra casta, quella dei giornalisti.
Alleggerire le procedure quindi. Purtroppo il sistema giudiziario italiano ha preso dal diritto bizantino, una stupenda cattedrale fatta di pesi e contrappesi, di ricorsi e controricorsi, di revisioni e controrevisioni, di misure e contromisure, che dovrebbe eliminare l’errore e invece finisce per favorirlo perché a distanza di tanto tempo i testimoni non ricordano o sono morti, le carte sono ingiallite, illeggibili e a volte scomparse. Il sistema anglosassone prende invece dal diritto latino (di cui noi dovremmo essere gli eredi, ma non lo siamo) un diritto di matrice contadina, pragmatico, efficiente, che sconta la possibilità dell’errore a favore della velocità dei processi. Il nostro impianto giudiziario, già farraginoso per queste ragioni storiche, negli ultimi anni è stato ulteriormente appesantito da leggi ‘pseudogarantiste’ che sembrano fatte apposta per salvare i furfanti. Perché l’interesse dell’innocente è di essere giudicato il prima possibile, quello del colpevole il più tardi o possibilmente mai come è avvenuto tante volte a partire dall’entrata in campo’ di Silvio Berlusconi. Ritorniamo quindi alla nostra matrice latina. Un passo indietro che sarebbe in realtà un grande passo in avanti.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2019)

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