"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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venerdì 15 gennaio 2016

Renzi: Sigmund Matteo, lo psicologo degli italiani



Caro Renzi, ora è chiaro: lei più che il premier è lo psicologo degli italiani. Un iniettore di autostima, fiducia, ottimismo, una medicina per l’anima, più che per la realtà. Senza soldi? Senza lavoro? Sdraiati sul lettino e Freud-Renzi ti farà sognare.

Il fondamento della sua terapia è far dimenticare la realtà puntando tutto sulla percezione della realtà. La crisi morde? Ti racconto che c’è la ripresa. Batti che ti ribatti, su tv e giornali compiacenti, vedrai che ci credi. Gli esempi si sprecano, ma l’ultimo è illuminante: i magistrati chiedono di depenalizzare il reato di clandestinità, perché è inutile, intasa i tribunali e fa sprecare denaro pubblico senza creare deterrenza? Non se ne parla: nonostante i reati in calo – per stessa ammissione dei ministri Boschi e Alfano – più della realtà conta la “percezione di insicurezza dei cittadini, perciò il percorso di cambiamento sarà fatto senza fretta”.

Era dai tempi del governo Prodi e dell’allarme criminalità, cavalcato dal Cdx, che non si sentiva la distinzione tra reati reali e “percezione di insicurezza”. Berlusconi ci vinse le elezioni.

Il segreto sta nella “percezione” che trasforma la realtà. Lei, Sigmund-Matteo, deve averlo imparato dal “suo” Oscar Farinetti, cui si deve, oltre allo spot Unieuro di Tonino Guerra “L’ottimismo è il profumo della vita”, una memorabile lezione sul coraggio del 2011 in cui raccontò: “Certe mattine mi sveglio e penso: ‘Oggi è la giornata del complimento’. Tutti quelli che vedo, gli faccio complimenti straordinari. Il più gradito è ‘Come ti vedo bene’, ‘Sei dimagrito’. Fare complimenti a tutti per tutto il giorno è strepitoso, perché alla gente piace molto e gli dai un attimo di bellezza”. Sembra il suo programma di governo, no? D’altronde Farinetti fa parte del suo dream team, che più che “squadra da sogno” dovrebbe essere tradotto “squadra per sognare”. E a cui sembra aver aderito, inaspettatamente, anche il commissario di Roma Tronca: intervistato dal Corriere della Sera, il milanesissimo prefetto del “fare”, da cui ci si aspetterebbe concretezza per risolvere i gravi problemi della Capitale, ha detto che “serve un sussulto civico, la vera sfida è vincere la rassegnazione, ridare fiducia istituzionale ai cittadini, rompere la spirale delle negatività”.

Ohibò, psicologo motivazionale freudian-renziano anche lui? Mica si candiderà? Occhio però, che tra Mafia Capitale, smog, buche stradali, appalti del Giubileo, allarme bus e metrò, assenteismo, topi e guano (che combatte potando gli alberi, come lei combatte la disoccupazione potando l’art. 18 e rendendo più facili i licenziamenti), l’unico sussulto che rischia di arrivare dai romani è il più classico dei “‘Tacci tua!”.

Sì perché, caro il mio Jung di Rignano, un bravo psicologo deve saper gestire il transfert con il paziente: c’è il rischio che dall’empatia si passi all’ostilità. Lei s’è fatto amare da subito con gli 80 euro e ora ci riprova col taglio della Tasi, il bonus per insegnanti e 18enni, l’aumento dell’uso del contante. E se gli italiani a un certo punto si levassero dal lettino con la netta “percezione” che lei vuole solo fare il pieno di voti, mentre la realtà resta la stessa?

Un cordiale saluto.

Vedi “Repubblica” e poi scappi Le riunioni, le cene, poi solo due articoli: uno sulla Statale, l’altro un’intervista a Crepax. Ero sbagliato per quel posto


Il primo numero di Repubblica è del 14 gennaio 1976. Ma io entrai al giornale, nella redazione milanese, tre mesi prima nella fase di preparazione e dei numeri ‘zero’che è la più stressante. Venivo dall’Europeo di Tommaso Giglio dove mi trovavo benissimo (Giglio avrebbe detto “con le qualità di Fini qui all’Europeoho visto entrare solo Bocca e la Fallaci”, ma lo disse, la carogna – tutti i direttori, più o meno lo sono – solo dopo che me ne ero già andato) ma mi attraeva l’impresa nuova come in seguito mi avrebbero attratto l’Indipendente di Feltri e Il Fatto Quotidiano.
E poi c’era Eugenio Scalfari che era già un nume del giornalismo italiano. Un bellissimo uomo, affascinante, suadente, insinuante e sinuoso come una baiadera. Facevo parte del gruppo dei giovani talenti, o presunti tali, che ‘la Grande Eugène’ aveva ramazzato dagli altri giornali per fare il suo. Ed effettivamente di talenti ce n’erano, come Leonardo Coen, un nevrotico da paura che si mangiava i fogli di carta su cui batteva – allora si lavorava ancora con la Lettera 32 – e forse li inghiottiva anche, ma bravissimo o il più pacato Giovannino Cerruti che poi andrà a La Stampa. Inoltre fra me e Bocca, strappato a suon di quattrini al Giorno, era nata una istintiva simpatia. Mi ricordo che Scalfari per compattare la redazione milanese organizzò una cena a casa di Giorgio Bocca dove erano presenti altri prestigiosi giornalisti come Pirani e un intellettuale dell ’Avanguardia – il ‘Gruppo 63’ odiatissimo da Pasolini – di cui ora non ricordo il nome perché sto scrivendo a braccio – che girava su una Ferrari rosso fiammante. Andai a quella cena col cuore in tumulto: chissà che cosa avrei sentito da quelle bocche. Invece parlò per quasi tutta la sera Silvia Giacomoni, la moglie di Bocca. Io di sottecchi guardavo Giorgio e mi dicevo: ma perché non zittisce la rompicazzi (Silvia mi perdoni, in seguito saremmo divenuti amici)? Salvò la situazione un giornalista fiorentino, Manlio Mariani, che la interruppe con una sfilza di battute e di aneddoti come sanno fare i toscani. Una prima perplessità mi venne quando una domenica mattina tutta la redazione milanese si trovò a Linate per andare a partecipare a Roma a una riunione di tutto il giornale. Il capo della redazione milanese, Gianni Locatelli, pretese di andare a messa nella chiesuola dell’aeroporto facendoci quasi perdere l’aereo.
Ma come, Repubblica non era ‘un giornale laico, che più laico non si può’? Conobbi così i colleghi della redazione romana. Durante la riunione Scalfari disse, fra le altre cose, che io ero praticamente un’inviato (era il ruolo che avevo avuto all’Europeo) anche se ero stato assunto come redattore. Avevo quindi la strada spianata. Ma in quell’ambiente radical chic mi trovavo terribilmente a disagio, finché sono stato giovane ero abituato a frequentare i mondi borderline, le bettole e, la notte, “a giocare, fare a botte, sciocchezze e altre schifezze”, come canta Alessandro Mannarino. Per la Repubblica scrissi sui primi due numeri, un articolo sulla Statale l’altro era un’intervista a Guido Crepax, per cui ricevetti altrettanti telegrammi di congratulazione di Scalfari che conservo gelosamente. Poi decisi di filarmela. Ho sempre fatto così, cerco di andarmene dopo aver fatto fino in fondo il mio dovere. Come col disastroso Nuovo Europeo di Mario Pirani che nel suo primo numero porta in copertina una mia intervista a Toni Negri in galera (allora non era così facile, non bastava mettersi d’accordo con un onorevole, bisognava proprio fare entrare clandestinamente le domande scritte in carcere – fu determinante l’aiuto che mi diede l’avvocato Giuliano Spazzali).
Dissi a Gianni Locatelli della mia decisione. Gianni, che è una bravissima persona, arrossì visibilmente: “Non ti sono simpatico?”. “No, non è questo”. Poi presi l’aereo per Roma e mi presentai da Scalfari. Lui non fu severo, disse solo: “E ora cosa pensi di fare, vivere di rendita?”. “Non lo so” risposi. Ma poiché è un calabrese rancoroso quella cosa non me l’ha mai perdonata e se fosse stato per la Repubblica e l’Espresso io in questo Paese, culturalmente, non sarei mai esistito anche quando divenni un giornalista noto e uno scrittore. Ma a Repubblica non ho nulla da rimproverare. Non erano loro a essere sbagliati – come la storia dimostrerà – ero io a essere sbagliato per loro.


 

venerdì 8 gennaio 2016

J’étais Charlie



Mentre il governo francese ricorda i caduti della strage di Charlie Hebdo sbagliando il nome del vignettista Georges Wolinski (scritto con la y finale) e il settimanale satirico esce con un numero speciale sull’anniversario della mattanza islamista che si portò via giornalisti e disegnatori, possiamo tranquillamente dire che tutto è tornato come prima, a dispetto dei tromboni del “nulla sarà come prima”. “Ora siamo davvero soli”, dicono i sopravvissuti in redazione. Lo slogan “Je suis Charlie”, appena 365 giorni dopo, va già coniugato all’imperfetto, “J’étais Charlie”.
Tutta colpa, anzi merito della copertina disegnata da Laurent Sourisseau in arte Riss, che ritrae un vecchietto barbuto in sandali e tunica bianca insanguinata che fugge con tanto di triangolo occhiuto sul capo e mitra a tracolla: “Un anno dopo, l’assassino è ancora in fuga”. Il vegliardo è inequivocabilmente il dio di tutte le religioni, in nome (ma all’insaputa) del quale i suoi sedicenti fedeli hanno seminato per millenni, da quando esiste il mondo, guerre e stragi senza fine. Ma grande è la confusione sotto il cielo, e quasi nessuno ha capito la battuta. La Conferenza episcopale francese, così come il presidente del Consiglio francese del culto musulmano, l’hanno criticata a una sola voce come bestemmia. La stampa italiana ha registrato il doppio anatema come se fosse normale prendersela con una vignetta: ignorando la polemica, registrandola con indifferenza o addirittura schierandosi con i censori.
Libero ha riassunto bene la nuova tendenza con un titolo e un commento di rara stupidità: “Se sbagliano Dio noi non siamo più Charlie Hebdo”. Insomma, Riss “se la prende col Dio sbagliato”, ergo “ormai Charlie non è più Charlie” perchè in redazione se la fanno sotto e “optano per l’autocensura”: anziché sbertucciare Allah e Maometto, se la prendono col “Dio ebraico- cristiano”. Ora, a parte il fatto che nessuno sa che faccia abbia il Dio ebraico-cristiano (sempre ammesso che ne abbia una), a questi finissimi teologi sfugge che si tratta dello stesso Dio degli islamici: quello delle tre religioni monoteiste. Ma soprattutto sfugge il senso della battuta. I redattori di Charlie sono notoriamente atei e nessun ateo serio insulterebbe chi ritiene non esistere. Infatti non ce l’hanno con Dio ma con chi, nella loro visione, se l’è inventato per scopi più prosaici e inconfessabili: non pregare e osservare comandamenti, ma acquisire potere, reclutare adepti, fare soldi, scatenare guerre, perpetrare massacri.
I credenti – ebrei, cristiani o musulmani che siano – non condividono ovviamente l’idea che Dio sia un’invenzione. Ma non possono non condividere il fatto che, nella storia, ogni volta che la religione invase il campo della politica e si fece potere temporale, provocò guasti irreparabili in una catena di vendette e rappresaglie e revanscismi che non s’è ancora interrotta. E non parliamo solo delle guerre ebraiche immortalate dall’Antico Testamento, delle crociate cristiane del Medioevo e delle varie declinazioni del Jihad (guerra santa) nei tempi moderni e odierni. Fu un estremista ebraico, nel 1995, a uccidere il premier israeliano Rabin in nome (e all’insaputa) di Dio. E sono spesso fanatici cristiani a sparacchiare qua e là negli Stati Uniti e non solo lì.
Naturalmente non tutte le stragi della storia sono di matrice religiosa: pure la Rivoluzione francese, atea e illuminista, fece correre sangue a fiumi e Voltaire – campione della tolleranza – commerciava in schiavi, per non parlare dei crimini delle ideologie pagane del nazismo e del comunismo. Senza contare le miriadi di dittatori tutt’altro che religiosi che usano la religione come instrumentum regni. La via d’uscita, almeno per chi capisce le battute, è proprio quella indicata col linguaggio fulminante e urticante della satira dalla copertina di Charlie Hebdo: lasciare in pace Dio nelle faccende del mondo, cioè della politica. Che poi è il secondo comandamento del Decalogo, riconosciuto dalle tre religioni monoteiste: “Non nominare il nome di Dio invano”. Ed è anche la lezione di Gesù nel Vangelo di Marco, quando i farisei tentano di coglierlo in fallo e incastrarlo come eversore: “Maestro, è lecito pagare il tributo a Cesare?”. E lui: “Mostratemi un denaro: di chi è l’immagine e l’iscrizione?”. “Di Cesare”. “Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”.
Quella lezione si chiama laicità ed è valida tanto per gli atei quanto per i credenti di ogni religione: ciascuno è libero di credere in ciò che vuole, ma nessuno può imporre la sua religione (o il suo ateismo) agli altri. Ogni religione ha il sacrosanto diritto di predicare i propri princìpi, ma nessun governante è obbligato a seguirli nelle proprie scelte politiche, che devono perseguire l’interesse generale, cioè garantire a tutti eguali diritti e imporre a tutti eguali doveri. Oggi, numericamente, è la comunità musulmana la più allergica alla laicità, ma non è la sola: di bigotti, confessionali, nostalgici del potere temporale, è pieno anche il mondo occidentale che se ne ritiene immune. Basti pensare alle crociate di tanti cattolici (alcuni veri, altri presunti, altri finti) contro la fecondazione eterologa e addirittura contro l’idea di una legge che garantisca i diritti elementari alle coppie omosessuali. Non nel Medioevo: oggi, qui, in Italia. Spesso sono gli stessi che s’indignano con le teocrazie islamiche senz’accorgersi di sognarne una in casa nostra. Quelli che “Je suis Charlie” con la religione degli altri e ora non lo sono più per non mettersi in discussione.



Afghanistan, la guerra inutile del soldato Renzi

Sui media inglesi alcune madri di soldati uccisi in Afghanistan hanno protestato ponendo la semplice e lineare domanda: “Per che cosa sono morti i nostri figli?”. Gli inglesi, proporzionalmente al proprio contingente, sono quelli che hanno avuto le maggiori perdite, circa 500 uomini, anche se il dato è approssimativo perché il governo britannico come quello americano tende a nascondere le proprie perdite per non alienarsi l’opinione pubblica e seppellisce i suoi soldati in tutta fretta e senza tante cerimonie. Gli inglesi hanno avuto più morti (oltre che qualche migliaio di feriti) perché sono gli unici ad aver combattuto con un po’ di lealtà, soprattutto in Helmand dove i Talebani sono padroni (in quella provincia è nato il Mullah Omar) non utilizzando solo l’aviazione ma battendosi anche sul campo arginando così, almeno in parte, il fenomeno per cui moltissimi afgani, che talebani non erano affatto o addirittura gli erano stati acerrimi nemici, si sono uniti alla resistenza. Perché per gli afgani, talebani o meno, guerrieri da sempre, il nemico che non si presenta sul campo e non combatte a viso aperto è oggetto del più profondo disprezzo (lo stesso ex presidente Karzai, che pur era, come l’attuale, Ashraf Ghani, alle dirette dipendenze del Dipartimento di Stato, rendendosi conto di quanto stava succedendo, fu costretto a dire agli americani: “Ma combattete almeno un po’ all’afgana!”). Che è poi una delle ragioni, e non la minore, per cui gli americani pur così superiormente armati stanno perdendo la guerra in Afghanistan, anche se si rifiutano di ammetterlo per ‘salvare la faccia’ (“la guerra che non si può vincere”).
Noi italiani in Afghanistan abbiamo perso solo 54 uomini (uno dei quali morto per conto suo, di malore) pochi per una guerra che dura da 14 anni, la più lunga in era moderna. Degli americani siamo alleati fedeli, ma sleali, come spesso ci è capitato nella nostra storia. In Afghanistan, nelle regioni più pericolose, ci siamo accordati con i Talebani: loro ci lasciavano in pace, noi facevamo solo finta di controllare il territorio lasciandoli agire indisturbati. Questa, al di là delle scontate smentite ufficiali, è la pura verità. Lo dirà con brutale franchezza il colonnello dei marines Tim Grattan: “Ora tocca agli italiani fare la loro parte. Stringere patti con i comandanti talebani è perdente. I nemici si combattono e basta”. Inoltre il grosso delle nostre forze è schierato a Herat, feudo dell’antico ‘signore della guerra’ Ismail Khan, che è stato a lungo nel governo di Karzai, che i Talebani avevano cacciato dal Paese, insieme a Massud, Heckmatyar e Dostum, e godono quindi della sua protezione.
Ciò non toglie che la domanda posta dalle madri inglesi rimanga valida anche per noi, insieme, anche se in subordine, a quella che riguarda i costi che, in una congiuntura economica sfavorevole, affrontiamo per rimanere inutilmente in quel Paese. La missione Resolute Support è quella che ci costa di più fra tutte quelle in cui siamo impegnati e recentemente è stata rifinanziata per 78 milioni che coprono solo gli ultimi tre mesi di quest’anno. Poi ci sarà da fare i conti del 2016 anche se la missione doveva terminare nel 2015, ma gli americani ci hanno chiesto, o piuttosto ordinato, di rimanere per almeno altri due anni. Il governo italiano, quatto quatto, ha deciso a metà ottobre l’ulteriore finanziamento delle nostre missioni militari all’estero (fra cui ce ne sono di altrettanto assurde, anche se minori, come in Mali) compresa naturalmente quella in Afghanistan. Siccome quella in Afghanistan non può essere gabellata in alcun modo come un’operazione di ‘peacekeeping’ (come, per esempio, è quella in Libano dove i contingenti internazionali si interpongono fra due comunità che altrimenti si massacrerebbero) ma è una guerra nel senso letterale del termine ci sarebbe voluto almeno un voto del Parlamento visto che l’articolo 11 della Costituzione dichiara solennemente: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Invece tutto è passato come se nulla fosse. Alessandro Di Battista mi dice che i 5Stelle hanno fatto opposizione. Nessuno se n’è accorto. Eppure quella all’Afghanistan è una guerra di offesa, e non di difesa, poiché l’Afghanistan non costituisce un pericolo né per noi né per i nostri alleati. L’Afghanistan, talebano o no, non è mai uscito, storicamente, dai propri confini e nessun attentato terrorista, in Europa, negli Stati Uniti, in tutto l’Occidente può essere attribuito a soggetti afgani, talebani o no.
Già l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan nel 2001 nasce da un equivoco, più o meno voluto. Gli Stati Uniti colpiti dall’attentato dell’11 settembre, rimessisi in piedi come un cowboy stordito da tanta audacia, cercavano un capo espiatorio purchessia. E lo trovarono facilmente nell’Afghanistan governato dai Talebani perché vi stazionava Bin Laden. Ma i Talebani l’ambiguo Califfo saudita se lo erano trovati in casa. Ce lo aveva portato il nobile Massud, dal Sudan, dove Bin Laden aveva le sue basi, perché lo aiutasse a combattere un altro ‘signore della guerra’, Heckmatyar. Di Bin Laden, che chiamava “un piccolo uomo”, il Mullah Omar si sarebbe volentieri sbarazzato, tant’è che quando Bill Clinton nel novembre/dicembre del 1998 gli propose di toglierlo di mezzo Omar mandò a Washington il suo ministro degli Esteri, Wakil Muttawakil, perché desse il suo assenso, sia pur a certe condizioni. Ma Clinton, all’ultimo momento, si tirò indietro (Documenti del Dipartimento di Stato). E dopo l’11 settembre mentre le folle arabe scendevano in piazza per manifestare la loro gioia, l’Emirato islamico d’Afghanistan mandò un messaggio di cordoglio al governo degli Stati Uniti. Ma nel momento in cui il governo afgano-talebano era comunque sotto il mirino degli americani, Bin Laden non faceva che sculare in tutti i filmati possibili e immaginabili attribuendosi, sia pur sempre indirettamente, la paternità di quell’attentato. Bell’amico, davvero.
In ogni caso se nel 2001 l’invasione dell’Afghanistan poteva avere una parvenza di senso, oggi dopo 14 anni di occupazione non l’ha più. E infatti gli olandesi se ne sono già andati nel 2011, ricevendo il ringraziamento ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan l’unico governo legittimo di un Paese dove la leadership si conquista non attraverso la farsa delle urne ma avendo l’appoggio della maggioranza della popolazione. Seguiti poi dai canadesi, dagli spagnoli e da altri. In Afghanistan sono rimasti gli americani, gli inglesi, i tedeschi, gli italiani e qualche frattaglia come l’Albania noto paese democratico. A fare che?
Ma c’è di più. L’ultimo atto ufficiale del Mullah Omar è stata una lettera aperta diretta ad Al Baghadi dove gli intimava di non intromettersi nelle vicende afgane perché, diceva, la nostra è una guerra di indipendenza nazionale che non ha nulla a che vedere con le tue mire espansionistiche. Il Mullah Omar si ergeva quindi con i suoi Talebani che pur sono in maggioranza sunniti (anche se nei sei anni del governo di Omar la consistente minoranza sciita non è stata mai discriminata) come bastione contro le mire dell’Isis che guarda, al di là dell’Afghanistan, al Turkmenistan, all’Uzbekistan e anche al Pakistan (Progetto Khorasan). Se l’Isis, come ora dicono tutti, ma come io anticipai quando si chiamava ancora ‘Stato islamico dell’Iraq e del Levante’, è il più grave pericolo per l’Occidente, i Talebani dovrebbero essere considerati oggettivamente, anche se indirettamente, dei preziosi alleati. Tanto è vero che i questi mesi, in questi giorni, in queste ore ci sono furiosi combattimenti sul lungo confine afgano-pachistano fra i Talebani e i guerriglieri di Al Baghdadi. Ma la morte del Mullah Omar, che col suo prestigio, conquistato in un quarto di secolo di lotta per l’indipendenza afgana, riusciva a tenere unito il variegato mondo talebano, ha indebolito il movimento indipendentista. Molti giovani afgani si sentono attratti dall’Isis che in un paio di anni con i suoi metodi feroci ha conquistato un territorio vasto, mentre Omar, utilizzando solo i mezzi della guerriglia classica (nessun rapimento a scopo di estorsione, nessun video con prigionieri umiliati e sgozzati ma al contrario trattati con rispetto) è riuscito in 14 anni solo a riconquistare la pur vasta area rurale dell’Afghanistan. E i guerriglieri di Al Baghdadi, meglio armati, meglio foraggiati, con disponibilità di denaro quasi illimitate (nessuno, dico nessuno, ha mai aiutato i Talebani) hanno già conquistato tre distretti dell’Afghanistan e rischiano di dilagare.
E allora la domanda personale delle madri inglesi diventa politica: che ci facciamo noi in Afghanistan, contro ogni legittimità contro ogni morale e contro i nostri stessi interessi?

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2016)

martedì 5 gennaio 2016

Non una conclusione (perché è solo l’inizio)


Qui i veri ricchi sono i morti; poveri sono i vivi che li ricordano.
Strani pensieri mi assalgono mentre passeggio sotto un sole tropicale dentro il cimitero monumentale dell’Avana. Sterminato, imponente, maestoso come i cimiteri delle grandi capitali imperiali: viene in mente il Père Lachaise di Parigi.
Questo dell’Avana è deserto, vista la controra e la canicola implacabile.
A un certo punto, dall’ingresso principale alla chetichella sfilano alcune auto, ruderi scassati degli anni Cinquanta, un corteo funebre d’altri tempi. Visto il luogo, quelle carcasse di Cadillac di sessant’anni fa sembrano fantasmi venuti a ricongiungersi con i parenti. Mi sento in un romanzo di Gabriel García Márquez. Lo spettacolo sembra alludere a qualcosa che ci riguarda, come se da questa isola dei Caraibi emanasse un presagio del nostro destino.
Cuba vive abbarbicata come l’edera sugli splendori del passato. Fu la seconda isola dei Caraibi dove sbarcò Cristoforo Colombo nel 1492, e ne fu sedotto.
Nel suo diario di bordo, tenuto in spagnolo, scrisse: «Es la isla mas hermosa que ojos humanos hayan visto». Da quel momento in poi il destino di Cuba fu segnato. I colonizzatori spagnoli ne fecero uno degli scali più importanti per i galeoni che trasportavano oro e argento dalle Americhe. Di quella ricchezza restano le vestigia nel centro storico dell’Avana, dove i palazzi spagnoli sono di una raffinatezza rara. La fortuna dell’Avana, o la sua sciagura, proseguì quando, sul finire dell’Ottocento, all’impero spagnolo subentrò il neocolonialismo degli Stati Uniti.
All’epoca del proibizionismo, quando negli Usa la vendita di alcol era fuorilegge, l’Avana offriva ogni sorta di piaceri proibiti per i suoi nuovi padroni. I grandi latifondisti della canna da zucchero si mescolarono ai boss di Cosa Nostra come Sam Giancana, Lucky Luciano, Al Capone. Ernest Hemingway vi prese casa per vent’anni e scrisse qui Il vecchio e il mare. Ai fasti del barocco spagnolo si aggiunsero gli edifici stile Liberty decorati con mobili e vetrate Tiffany.
Di tutto quello splendore restano le vestigia macilente, in putrefazione, che aggiungono il fascino della decadenza. Pochi angoli del centro storico sono restaurati. La maggior parte dei palazzi antichi sono dei ruderi, spesso puntellati con precarie impalcature di legno, sovraffollati da abitanti poveri. Un popolo sull’orlo della miseria abita nei saloni diroccati della nobiltà.
Anche il cimitero è così. È un susseguirsi di lussuosi mausolei, tombe delle famiglie abbienti di una volta: si va dallo stile spagnolesco all’Art Nouveau.
Da fuori rimane un’apparenza di ricchezza antica, ma appena ti affacci a guardare l’interno dei mausolei, lo spettacolo è diverso: pavimenti sfondati, pareti scrostate, piastrelle sconnesse, intonaci crollati. Tutto è decrepito. Fa eccezione la tomba recente del grande musicista Ibrahim Ferrer, del Buena Vista Social Club: l’amore dei fan garantisce una manutenzione frequente e accurata.
Mi guida tra i morti un guardiano del cimitero, racconta le glorie passate, le ricchezze sfrenate, i lussi di un tempo che fu. Senza rimpianti, senza nostalgie, talmente quella storia gli sembra lontana. Eppure non lo è.
Quando passo davanti alle ultime tombe maestose costruite negli anni Cinquanta, alla vigilia della rivoluzione castrista, il calcolo è presto fatto: due generazioni soltanto separano questo regno dei morti ricchi dai cubani di oggi. Alcuni discendenti dei privilegiati del primo Novecento sono emigrati in Florida; ma vivono ancora qui altri nipoti o bisnipoti dei latifondisti, dei padroni del rum e dei bordelli, dei signori del narcotraffico di una volta. E se vengono al cimitero, rendono omaggio ai parenti che vissero in un mondo sfarzoso, opulento, che non tornerà. (Neanche, presumo, con la levata dell’embargo Usa.)
Ho il presentimento che questo cimitero mi voglia dire qualcosa. Quel rapporto rovesciato tra le ricchezze dei nonni e la povertà dei nipoti allude forse a quel che sta accadendo tra noi e i nostri figli.
La storia non va in un’unica direzione. Intere civiltà hanno conosciuto un apice e poi il declino, seguito da secoli di arretramento e di impoverimento: è accaduto all’impero romano e a quello spagnolo, ai maya e agli inca e a molti altri.
I cimiteri hanno tante storie da raccontarci, bisogna avere la pazienza di ascoltare, anche quando il sole picchia duro e nella luce accecante non vola una mosca.

Federico Rampini (Tratto da “L’Età del Caos” – 2015 – Mondadori Libri SpA)


domenica 3 gennaio 2016

Valeria Cimò: "C'era una volta un re, bafè, biscotto e minè"



“C’era una volta un re, bafè, biscotto e minè”
www.tradizionisicilia.

Testo Originale

C’era ‘na vota ‘n re,
bafè, viscottu e minè
c’aveva ‘na figghia, bafigghia,
viscottu e minigghia.
Sta figghia, bafigghia,
viscottu e minigghia,
aveva ‘naceddu, bafeddu,
viscottu e mineddu.
Gn’ionnu st’aceddu,bafeddu,
viscottu e mineddu, abbulò.
Allura lu re, bafè,
viscottu e minè disse:
a cu’ trova l’aceddu,bafeddu,
viscottu e mineddu.
cci dugnu a me figghia,
bafigghia viscottu e minigghia.
Iù truvai l’aceddu, bafeddu,
viscottu e mineddu,
ci rissi ‘ncarusu, vavusu, fitusu,
viscottu e minusu.
Allura , lu re, bafè,
viscottu e minè ci dissi :
e iu pi ‘naceddu bafeddu,
viscottu e mineddu,
ti dava a me figghia bafigghia,
viscottu e minigghia?
Ah! Vattinni,
vavusu, fitusu, murvusu,
viscottu e minusu

Traduzione Letterale

C’era una volta un Re,
bafè biscotto e minè
che aveva una figlia, bafigghia,
biscotto e minigghia.
Questa figlia, bafigghia,
biscotto e minigghia,
aveva un uccello, bafeddu,
biscotto e mineddu.
Un giorno quest’ uccello, bafeddu,
biscotto e mineddu, volò.
Allora il Re, bafè,
biscotto e minè disse:
a chi trova l’uccello, bafeddu,
biscotto e mineddu,
gli dò a mia figlia,
bafigghia, biscotto e minigghia.
Io ho trovato l’uccello, bafeddu,
biscottu, e mineddu,
gli disse un ragazzo, bavoso, lercio,
biscotto e minusu.
Allora, il Re bafè,
biscotto e minè gli disse:
e io per un uccello bafeddu,
biscotto e mineddu,
ti davo a mia figlia bafigghia,
biscotto e minigghia ?
Ah! vattene,
bavoso,lercio,murvusu,
biscotto e minusu.

Da Copenaghen ai bond: breve storia dei risparmiatori, fessi di professione

Il risparmiatore è il fesso istituzionale del sistema del denaro. Perché, avendone poco, lo presta, attraverso l’intermediazione delle banche, ai ricchi perché diventino sempre più ricchi. Se poi a costoro le cose van male scaricano i loro debiti, divenuti inesigibili, sulle banche che, a loro volta, li scaricano sui risparmiatori che, in varie forme (conti correnti, obbligazioni) vi han depositato i propri quattrini.
Il fatto è che esiste una regola generale, quella enunciata da Vittorio Mathieu nella sua pregevole Filosofia del denaro: “I debiti, alla lunga, non vengono pagati”. Per questo i grandi imprenditori e finanzieri, che sono quelli che hanno capito meglio il gioco, hanno più debiti che crediti. Basta leggere, con una certa attenzione, i loro bilanci. Per la verità la figura dell’imprenditore è radicalmente e antropologicamente cambiata dopo la Rivoluzione industriale. Un tempo il mercante utilizzava il proprio patrimonio e, conseguentemente, si accollava in prima persona tutti i rischi. Se falliva erano affari suoi. Oggi l’imprenditore, soprattutto il grande imprenditore, rischia il denaro che gli viene prestato dalle banche che a loro volta, come si è detto, mettono a rischio quello che han loro prestato i risparmiatori. E’ l’intrapresa sulla pelle altrui.
Ma il risparmiatore ha anche un altro grave handicap. Il denaro, poiché è un puro nulla e non ha un valore in sé, intrinseco, ma rappresenta solo una scommessa sul futuro, è estremamente volatile e si sposta in continuazione per andare a cercare la situazione dove è meglio remunerato, con una velocità che è diventata stratosferica da quando, dopo essere stato sganciato definitivamente dall’oro, si è fatto ancor più virtuale e grazie al computer può spostarsi, in quantità enormi, da un settore all’altro. Ma poiché qualsiasi investimento, prima o poi, più prima che poi, va in perdita, l’abilità del finanziere è di abbandonarlo un attimo prima lasciando il cerino acceso ad altri. Questo il piccolo risparmiatore, col suo modesto gruzzolo, non può farlo. E’ costretto a immobilizzare il suo capitale, pronto per essere impallinato come un tordo. Questa rapina può essere attuata in due modi. O lentamente, come in una tortura cinese, per esempio con l’inflazione per cui il valore nominale del nostro denaro non corrisponde più a quello reale. O con uno scippo improvviso. La storia è piena di crac non di banchette come Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti, Carife ma di prestigiosi e anche statali Istituti di credito. Si cominciò con l’antica Banca di Copenaghen che fu costretta a sospendere i pagamenti nel 1745; rifondata nel 1791 collassò nuovamente nel 1831; la Banca di Vienna sospese i pagamenti nel 1797 e la Banca di Stoccolma, la prima Banca centrale comparsa nel mondo, nel 1762 pagava soltanto 1/96 dei suoi debiti originari. Poi ci sono i collassi, non di questa o quella Banca, ma di un intero Paese: la grande inflazione che colpì gli Stati Uniti dopo la guerra di secessione (al Sud la moneta perse il 98,4% del suo valore) e quella, ancor più devastante, di Weimar che in pochi mesi cancellò l’intero risparmio tedesco, fino al notissimo crollo di Wall Street del ’29. Si potrebbero anche ricordare i bond argentini, il collasso del Messico del 1996 e delle cosiddette ‘piccole tigri’ asiatiche nel ’96/’97. Ma fermiamoci qui.
Un’ulteriore beffa per il normal people contemporaneo è che da una parte gli si chiede imperiosamente di risparmiare per finanziare, attraverso le banche, la produzione, dall’altra, altrettanto imperiosamente, gli si intima di consumare, sempre per tenere in piedi la produzione (come ho già scritto altre volte non produciamo più per consumare, ma consumiamo per poter produrre, siamo i tubi digerenti, i lavandini, i water da cui deve passare il più rapidamente possibile ciò che altrettanto velocemente produciamo, degradati da esseri umani a consumatori). Una mission impossible. Anche se, fra le due scelte, il modo migliore per salvare il nostro denaro è spenderlo, dilapidarlo. Possibilmente a bagasce o al Casinò.
Infine si sarà anche vecchi e intorpiditi ma in un mercato in cui il denaro, per i comuni mortali, non dà alcun interesse o, se lo dà, è negativo, si dovrebbe perlomeno diffidare di chi propone guadagni che sfiorano il 10 per cento. Spiace dirlo ma i risparmiatori delle varie Banca Etruria sono stati particolarmente coglioni. E il risultato di questa coglionaggine è che, col ‘decreto umanitario’ varato dal Governo, ricadrà sulla testa di tutti i contribuenti. La solita soluzione all’italiana.

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Monte Pellegrino visto dalla borgata di Acqua dei Corsari

Monte Pellegrino visto dalla borgata di Acqua dei Corsari

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