"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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domenica 20 settembre 2009

La perizia psichiatrica


Lezione tenuta il 7 maggio 1999 alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria Forense dell'Università del Sacro Cuore di Roma.



La capacità di intendere e di volere

" Dica il perito, valutato l'imputato e presa conoscenza degli atti e fatte tutte le acquisizioni e gli accertamenti che riterrà opportuni, se, al momento dei fatti per cui si procede, egli era capace di intendere e di volere, oppure se le capacità erano totalmente o grandemente scemate". È questa la formula che, con piccole variazioni, viene usata giudizialmente nel conferire l'incarico a uno psichiatra. Talvolta si legge: " Dica il perito qual è la capacità di intendere e di volere allo stato attuale e al momento dei fatti per cui si procede". Spesso può essere aggiunta un'ulteriore domanda: "Dica, inoltre, il perito se il soggetto sia socialmente pericoloso". A questa parte del quesito il perito dovrà dare risposta solo qualora si configuri, nel soggetto, una limitazione della capacità di intendere e di volere, mentre non può esprimersi sul punto, e anzi il suo comportamento sarebbe illecito, se dalla conclusione della sua indagine risultasse che l'imputato non è limitato grandemente o totalmente in queste capacità. Quello che oggi ci domandiamo è se il tenore del quesito, formulato secondo il contenuto delle norme che regolano il diritto penale, tenga effettivamente conto della scienza psichiatrica attuale, se cioè il sapere psichiatrico sia adeguato a dare una risposta a una domanda così proposta. Non si può mancare di sottolineare che il quesito, in questa esatta dicitura, risale agli anni Trenta, riferendosi pertanto a conoscenze psichiatriche ben lontane dagli sviluppi a cui siamo arrivati negli ultimi decenni. D'altra parte, nella riforma del codice di procedura penale di pochi anni fa, non si è intervenuti sulla norma che lo regola, lasciandola immutata. Tuttavia il problema se questa richiesta del magistrato trovi o meno una corrispondenza nelle discipline psichiatriche rimane fondamentale. Il primo punto che vorrei analizzare riguarda la capacità di intendere e di volere, l'unica a cui il quesito faccia espressa menzione. Precisamente, una volta stabilito o ipotizzato, attraverso prove e indagini, che un soggetto possa avere attinenza con un reato penale e possa esserne quindi il colpevole, perché il magistrato lo dichiari responsabile deve avere la certezza che quella persona, nel momento in cui ha commesso il fatto, fosse capace di intendere e di volere. Se, invece, queste due facoltà sono grandemente o totalmente scemate, nonostante la colpevolezza del soggetto, la legge impedisce che venga dichiarato responsabile. Ecco, dunque, perché la perizia psichiatrica diventa uno strumento fondamentale per il magistrato al fine di decidere una sanzione. Egli deve accertare non solo che il soggetto abbia compiuto il fatto, ma che abbia capito che cosa stava per fare. E, una volta valutati i significati delle azioni che hanno condotto alla consumazione del reato, se davvero abbia voluto commetterlo. La formulazione della legge ha dato adito a discussioni incessanti: innanzitutto perché non è facile chiarire il senso di questa capacità. Giudizialmente si è proceduto nel senso di ritenere non responsabile, sebbene colpevole, chi ha commesso un reato anche quando solo una delle due capacità sia grandemente scemata. Per esempio, non è ritenuto responsabile del reato chi, pur avendo inteso chiaramente che cosa stava facendo, lo abbia commesso pur non volendo, a causa di un difetto nella capacità di volere. Gli accertamenti sulla volontà vengono, attraverso la perizia, affidati agli psichiatri, che oggi, almeno a partire dal 1900, cioè dalla data di pubblicazione dell'Interpretazione dei sogni di Freud, si sono convinti, con sempre maggiore certezza, che il comportamento umano non può dipendere solo da questioni di intelligere e di volere, ma viene fortemente influenzato da una grande quantità di forze, che non hanno nulla a che fare né con l'intelligenza, né con la volontà. A partire dagli inizi del Novecento, da quando è nata l'idea che il comportamento dell'uomo è dominato anche dall'inconscio, cioè da qualche cosa di cui non può essere consapevole, e pertanto non riconducibile alla capacità di capire e volere, il quesito formulato dalla norma di legge è diventato inadeguato, o quanto meno amputato rispetto alle conoscenze e agli studi della psichiatria. Tar l'altro, per lungo tempo la magistratura ha applicato un'interpretazione assolutamente restrittiva del già inadeguato contenuto del quesito. Fino a qualche anno fa nelle corti non si accettava, infatti, che il perito presentasse le sue conclusioni riguardo alla personalità dell'imputato in esame. Non era possibile offrire elementi di carattere psicologico, dal momento che il riferimento teorico era ancora quello ottocentesco, secondo cui un'alterazione dell'intelletto o della volontà dipendeva da una lesione che riguardava l'organo cervello, una sua area specifica, e pertanto il magistrato chiedeva che venissero indicate, in maniera esatta, le lesioni che sottendevano a queste limitazioni. Ne discende che tutto quanto fosse attinente all'analisi psicologica, veniva considerato inidoneo alla chiarificazione dei fatti, e addirittura illecito parlarne, tanto che spesso la difesa o il pubblico ministero chiedevano che non si tenesse conto dei riferimenti formulati dal perito che si fondavano sulla cosiddetta analisi psicologica. Su questo punto, però, non solo i magistrati si erano divisi, ma una dura reazione era stata sollevata anche da parte dei cultori delle scienze psicologiche, tant'è che all'inizio degli anni Settanta, attorno al tribunale di Milano, si affermò un movimento di psicologia giuridica, che si proponeva di difendere l'accoglimento nelle aule di giustizia delle scoperte fondamentali delle scienze psicologiche. Oggi, naturalmente, è difficile trovare giudici o pubblici ministeri che si oppongano all'analisi della personalità dell'imputato. Spesso, anzi, sono proprio i magistrati a formulare, nel quesito, la richiesta che si proceda a una valutazione specifica della personalità. Tuttavia è evidente come quegli aspetti psicologici, che sono così essenziali nel lavoro psichiatrico e terapeutico, rimangano affidati alla discrezione delle singole corti, quando ritengano di volerne fare un'indagine specifica. Eppure la norma del codice di procedura penale continua a ignorarli.


Tra norma e psichiatria

Ancora qualche anno fa, in alcuni processi, si è discusso se ammettere o non ammettere una serie di prove e di valutazioni psicologiche riguardanti l'imputato. La distanza tra psichiatria e diritto è dunque, anche storicamente, molto evidente: per la psichiatria, infatti, il concetto di inconscio è entrato già all'inizio del secolo scorso con Freud, cambiando completamente il modo di interpretare il comportamento umano. Le aule giudiziarie sono state ‘sorde' molto a lungo. Per questo, gli psichiatri continuano a chiedere, ancora, che venga modificata, per legge, la formulazione della richiesta relativa alla perizia psichiatrica, domandando espressamente che il medico compia una valutazione globale della personalità del soggetto, comprese anche quelle componenti che non sono certamente riducibili alla capacità di intendere e di volere ma nondimeno si mostrano fondamentali nel comprendere i comportamenti. La scienza psichiatrica deve, infatti, potere applicare gli strumenti che le sono propri, in modo da dare una lettura quanto più veritiera e completa possibile della personalità, sulla cui condanna il tribunale andrà poi a decidere. Non c'è psichiatra al mondo che, davanti a un proprio paziente, possa distinguere da una parte l'intendere e, dall'altra parte, il volere. C'è una serie complessa di altre dimensioni che attengono ai meccanismi dell'inconscio, traumi, rimozioni, non consapevoli eppure capaci di condizionare, talvolta completamente, il comportamento. Ricordo a questo proposito un caso che mi fu sottoposto qualche anno fa, conosciuto, anche alla stampa, come il caso Rozzi. Rozzi era un ragazzo della periferia romana, che un giorno uccise entrambi i genitori, dichiarando, però, che il suo reale desiderio era di ammazzare soltanto il padre, a seguito di forti litigi riguardanti la destinazione di un immobile. In quell'occasione, si configurava in lui la volontà di commettere il reato, c'era stato anzi un progetto preciso. Eppure l'intera storia permise di vedere che, in realtà, quel comportamento non era altro che la realizzazione, seppure tardiva e esteriorizzata sul piano della cronaca, del complesso di Edipo teorizzato da Freud. La conflittualità con la figura paterna che, secondo Freud, si inscriveva in una precisa fase della crescita del bambino, se non risolta, può spingere un soggetto adulto a percepire incessantemente il padre come nemico, non tanto per ragioni concrete o specifiche richieste, ma per traumi passati mai elaborati. Freud rilevò, infatti, come il complesso edipico venisse risolto attraverso l'uccisione simbolica del padre. Se questo non accade, la crescita psicologica non è equilibrata, perché la non soluzione tiene in sospeso un'energia che tende a riproporre incessantemente il conflitto, fino a spingere, addirittura, il soggetto a mettere in atto, nel teatro della cronaca e della realtà, quanto non risolto simbolicamente. E dunque, a compiere un omicidio. Naturalmente si tratta di un caso limite, eppure l'ho riportato perché dimostra come eventi criminosi possano trovare la loro reale motivazione in fatti assolutamente slegati dalla capacità di intendere e di volere strettamente intesa, affondando le loro reali radici nella storia complessa del soggetto. Il quesito di legge con cui si incarica il perito psichiatra in corso di giudizio penale fa ancora riferimento soltanto a quei due parametri, riportando la psichiatria indietro di oltre un secolo, al tempo delle teorie lombrosiane. Lo psichiatra veronese Cesare Lombroso aveva sostenuto che il compimento di un delitto fosse in sé segno certo che il soggetto soffre di una malattia di mente, intesa, secondo le teorie dell'Ottocento, come una degenerazione. Precisamente, influenzato dagli studi di Morel, Lombroso intendeva il delitto come sintomo di una vera e propria alterazione anatomopatologica di aree cerebrali. E ne era a tal punto convinto da avere elaborato intensi studi di fisiognomica, atti a dimostrare come determinate caratteristiche del viso e del corpo risultassero utili per rilevare anomalie del cervello, che invece non era possibile guardare direttamente. Ecco, allora il concetto di degenerazione: in presenza di un atto criminoso, non poteva che esistere un'alterazione cerebrale che avrebbe tolto al soggetto la capacità, chiamata già da allora così, di intendere e di volere. Oggi nessuno più in psichiatria si sentirebbe di sostenere simili teorie, perché le scoperte degli ultimi decenni hanno davvero rivoluzionato il modo di pensare e studiare il cervello umano. Queste scoperte hanno reso più urgente la modificazione della normativa penale. Le richieste del giudice devono essere proporzionate, anche nel linguaggio, allo stato attuale delle conoscenze psichiatriche. Se il comportamento non è, dunque, riducibile alla sola volontà e intelligenza, vorremmo che il magistrato che chiede a noi il perché del comportamento criminoso, ci permettesse di valutarne tutte le componenti. Per questa ragione, quando vengo chiamato per una perizia, chiedo sempre la riformulazione del quesito, in modo che espressamente ampliata la premessa, "valutata la personalità del soggetto, tenuto conto delle condizioni ambientali in cui vive e in cui ha agito". Eppure il giudice non può omettere nel quesito la formulazione richiesta per legge sulla capacità di intendere e di volere, se sia ampiamente, grandemente o totalmente scemata. E' questo il punto che impone assolutamente una modifica. Nel richiedere, come io faccio, l'amplia premessa del giudice, mi assicuro una specie di legittimità per andare davanti alla Corte d'Assise cominciando a parlare della personalità del soggetto, svolgendo così pienamente la mia professione di psichiatra. Ma la difficoltà è quando, per concludere, devo ridurre la risposta finale al solo profilo delle capacità di intendere e di volere.


Sulla pericolosità sociale

A questo primo e fondamentale elemento di insoddisfazione ne aggiungo subito un altro, e cioè il modo in cui viene intesa, secondo il diritto penale, la cosiddetta pericolosità sociale. Il codice stabilisce, infatti, che, qualora un soggetto abbia commesso un reato ma, nel momento del fatto, fosse grandemente o totalmente incapace di intendere e di volere, egli non può essere condannato alla pena prevista per il reato, ma se si accerti che, comunque, costituisce un pericolo per la società, in quanto ci siano fondate ragioni di ritenere che commetterà nuovi fatti di reato, possono essergli applicate misure alternative. Quello che stupisce è che una simile facoltà sia ammessa solo se si sia concluso per la parziale o totale infermità di mente del soggetto. A questo proposito, infatti, nella formulazione del quesito al perito la richiesta di questo accertamento è subordinata alla risposta affermativa circa quel primo punto. Ne deriva l'impossibilità di parlare di pericolosità sociale in chi è capace di intendere e di volere. Anzi, se il perito, di fronte al giudice, concludesse che il soggetto è capace di intendere e di volere, ma anche pericoloso socialmente, sarebbe perseguibile per legge, in quanto avrebbe fatto un'osservazione non pertinente al caso, idonea a ledere i diritti dell'imputato stesso. Dunque, per il codice penale, la pericolosità sociale si lega soltanto alla malattia di mente. Questo è chiaramente inaccettabile dal punto di vista psichiatrico. Ritroviamo anche a questo proposito le influenze delle teorie ottocentesche: Cesare Lombroso, nel congresso di criminologia del 1905 in Belgio, era riuscito a far passare l'equazione delitto — malattia di mente. Se, sosteneva, il crimine è degenerazione mentale, dell'organo cervello, con tutta probabilità chi porta quell'anomalia riprodurrà in seguito il delitto. Pertanto, proseguiva Lombroso, la pena prevista per il singolo delitto, una volta scontata, lasciava libero il criminale di colpire ancora. Si auspicava così l'applicazione di ulteriori misure di sicurezza, esaurito il periodo fissato per la pena vera e propria. Questo retaggio antico ha tuttora lasciato i suoi riflessi in questo concetto di pericolosità sociale. Siamo passati dall'automatismo tra malattia e crimine, secondo Lombroso la circostanza era certa, a una presunzione da accertare di volta in volta. Credo non ci sia nessuno psichiatra che possa sostenere oggi una simile affermazione. Non solo da tutte le statistiche più recenti risulta falso che i malati di mente diano un grosso contributo a delitti gravi, per esempio all'omicidio, rispetto alla popolazione in generale. Inoltre, non è assolutamente dimostrabile che l'aggressività e la violenza siano un dato più specifico per i cosiddetti malati di mente, rispetto ai non malati di mente. Pertanto riteniamo che il giudice abbia ragione di domandare nella formulazione del quesito che si valuti la pericolosità sociale del soggetto, ma non ci sono motivi per cui la ricerchi nel solo caso di malattia di mente. Coordinando le due critiche mosse, de iure condendo, il conferimento della perizia dovrebbe articolarsi in questo modo: nel primo quesito chiedere che vengano analizzate tutte le componenti che hanno agito sulla personalità del soggetto, influenzandone il comportamento per cui si procede; nel secondo quesito che si sposta dal momento in cui fu commesso il fatto al presente, domandare che si accerti se il soggetto è pericoloso adesso. Solo in questo modo verrà garantita allo psichiatra la libertà necessaria a compiere pienamente il suo lavoro, valutando effettivamente il soggetto sotto la dimensione della pericolosità sociale, che rimane un quesito psichiatrico importante. Sempre gli psichiatri si chiedono, nel loro lavoro anche non giudiziario ma finalizzato alla terapia, se il paziente possa compiere gesti in qualche modo lesivi per la comunità o per se stesso. Però questo deve essere un quesito specifico e separato diverso dalla valutazione psicologica, in quanto impone di applicare una parte precisa del sapere psichiatrico, che riguarda il rapporto del soggetto con l'ambiente, ossia il campo privilegiato della psichiatria relazionale. Non si tratta più della valutazione del soggetto, ma ci chiediamo come quel soggetto interagisce con altri soggetti. Si può arrivare così ad affermare, per esempio, che esiste una pericolosità sociale del soggetto all'interno della famiglia, ma non verso l'esterno. Possiamo dunque formulare un giudizio di pericolosità nel non malato di mente, la pericolosità nel cosiddetto normale.


Giudici e psichiatria

La considerazione attuale da parte delle corti del lavoro psichiatrico è spesso inadeguata e talvolta persino disastrosa: in tribunale la psichiatria viene sovente strumentalizzata, e anzi accade che sia il magistrato a utilizzare lo psichiatra, non per uno specifico sapere, ma per una sorta di condivisione di un giudizio. Non è casuale, per esempio, che, in uno stesso processo, ci siano addirittura tre conclusioni psichiatriche, formulate rispettivamente dal medico chiamato dal Gip, da quello della difesa e da quello scelto dal pm. Così, anche a livello psichiatrico viene ripetuta quella sorta di conflittualità, tipica del diritto della difesa e dell'accusa, inscenando sul sapere psichiatrico una battaglia di teorie a seconda della posizione in cui si è stati chiamati. Al punto tale, che se gli psichiatri cambiassero ruolo, lo stesso psichiatra che prima aveva assunto una linea, per esempio difensiva, ne assume un'altra opposta. Certamente sto portando un caso estremo di un modo di agire che, di fatto, ha indotto la magistratura a un atteggiamento molto guardingo e di scarsissima fiducia negli psichiatri, nel risultato delle loro perizie. Tanto che spesso la richiesta di un consulente non viene fatta perché ritenuta utile al processo, ma perché, in qualche modo, rende meno gravosa la dura decisione del giudizio, che spetta, in ultima istanza, soltanto al magistrato. Ciò non toglie che sia assurdo che il giudice possa considerarsi peritus peritorum: in altre parole, se è certo che la sentenza spetti soltanto a lui, non per questo può interferire con la conclusione peritale. E precisamente, potrà scegliere se tenerne conto o meno, ma non disattendere la perizia nel suo contenuto finale. Altrimenti si arrogherebbe un sapere che non possiede, ragione esatta per cui chiama, nel processo, il perito a renderlo edotto sul punto. In pratica, questo significa che se, come è accaduto nel caso Maso, il soggetto deve essere considerato sano di mente, o comunque capace di intendere e di volere nel momento, del fatto, il magistrato non può fondare la propria decisione sul fatto che Maso sia seminfermo di mente. Può addurre qualsiasi altra motivazione alla sua sentenza, tranne questa. Altrimenti diventa un'offesa allo psichiatra e soprattutto alla psichiatria. Se la corte mi chiede: "come fa, professore, a concludere che è sano di mente, se ha ammazzato sua madre e suo padre per una eredità?", l'unica risposta che posso dare è chiedere al giudice: "se lei è già convinto di sapere, perché chiama me?". Non spetta al perito imporsi o proporsi, la legge espressamente dà questa facoltà al giudice per aiutarlo ad assumere gli elementi necessari a decidere. Ma, se questi decide di avere bisogno di una consulenza psichiatrica, deve, sul punto, attenersi alle conclusioni date dalla psichiatria. Alla fine potrà non tenerne conto, ma mai contraddirla. Perché, altrimenti, significa che chiama un esperto su ciò che lui, come giudice, non può sapere, essendo esperto di leggi, ma si arroga, infine, il diritto di discuterne, senza strumenti appropriati, la validità. Come ogni disciplina, la psichiatria ha conoscenze proprie che vanno rispettate, qualora la si chiami in causa. Al giudice rimane la libertà assoluta di scelta di lasciarla fuori. Mi preme sottolineare che non sto assolutamente sminuendo l'autorità dei giudici, tutt'altro. Ma lo psichiatra vuole essere una persona che, chiamata, abbia il diritto di usare la propria professionalità correttamente, applicando le tecniche e il sapere, propri della sua scienza, formulando una risposta, a cui il giudice potrà anche non dare attenzione, ma non può modificarla. Naturalmente, io faccio questo discorso dal punto di vista della psichiatria, ma credo che sia un assunto che si estenda a tutti gli aspetti peritali. Ma per la psichiatria la situazione è particolarmente delicata: si è infatti creata la convinzione che lo psichiatra entri nel processo senza contare nulla. Prova ne sono i compensi bassissimi — ragione per cui io ho lavorato gratuitamente —, le condizioni sfavorevoli, come la difficoltà di vedere il paziente, senza contare che il setting non è certo favorevole per poter fare un'analisi relazionale. Si tratta del carcere, non si può rinunciare alla presenza della guardia carceraria, a meno che uno non si assuma, per iscritto, la responsabilità di ciò che può succedergli. Ma il compito è, anche socialmente, molto importante. Per questo c'è da auspicare che la psichiatria acquisti lo spazio che le spetta rispetto al comportamento criminale, fino al punto da chiedersi se sia possibile che un giudice possa sancire una condanna senza avere raccolto dati tecnici sulla valutazione della personalità. Bisogna tuttavia che questo ruolo venga rivisto, cominciando a far sì che il quesito sia aderente al sapere psichiatrico, che lo psichiatra possa insomma agire secondo quella scienza e coscienza che non applica vedendo per due volte un carcerato assieme ai periti di parte, magari in condizioni dove non c'è neanche uno studio medico. Entrate in un carcere per una perizia psichiatrica e vi accorgete di qual è la considerazione dello psichiatra rispetto alle altre figure che hanno a che fare con il processo. Non chiedo certo che si provveda a fornire il lettino di Freud, ma lo psichiatra deve essere messo nelle condizioni di decidere come lavorare, seguendo i propri metodi per creare la relazione terapeutica o comunque di comprensione, altrettanto necessari al suo lavoro quanto un bisturi al chirurgo.


Domande e risposte

Può chiarire qual è il percorso più opportuno da seguire nell'analisi di una personalità?

Per capire un comportamento nella sua complessità, oggi la scienza psichiatrica dice che occorre analizzare tre componenti fondamentali: quella biologica, quella psicologica e quella ambientale. Sappiamo da tempo che la biologia influenza il comportamento, e per biologia noi intendiamo certamente la genetica, ovvero l'insieme dei messaggi trasmessi nei geni, che informano e condizionano il comportamento, ma anche il cervello. Uno psichiatra che voglia studiare il comportamento, di qualunque natura sia, deve dunque chiedersi: qual è la componente biologica in quel soggetto? Per esempio, si può procedere a rilevare l'assetto della mappa cromosomica: se, dall'esame, risulti che sono intervenute delle alterazioni, se ne approfondirà la natura. Riguardo alla funzionalità cerebrale, invece, si dispone di solito la risonanza magnetica nucleare, da preferire anche alla TAC. Se si riscontrassero sospetti di qualche alterazione si può procedere a una indagine più accurata, per singoli comparti. Esaurito l'aspetto biologico, si deve procedere all'analisi di quella che chiamiamo personalità di base. Si domanderà, a esempio, se si abbia di fronte un soggetto intro-verso o estroverso, se l'elaborazione delle esperienze sia di tipo depressiva, oppure tenda alla maniacalità. Tra le caratteristiche su cui soffermarsi un ruolo di grande rilevanza spetta al comportamento sessuale. Ci sono strumenti notevolissimi, oggi, per scandagliare non solo gli aspetti strutturali della personalità, ma anche queste componenti particolari. Compiuto anche l'accertamento sulla personalità, il perito dovrà studiare una terza componente rappresentata dall'ambiente in cui il soggetto agisce e quindi lo spazio, fisico ma soprattutto relazionale in cui è stato compiuto il fatto criminoso, considerando a esempio la famiglia, attraverso specifici test. Quindi oggi c'è una scienza psichiatrica che ha raggiunto una precisa convinzione su come portare l'analisi del comportamento e che ha stabilito molti strumenti utili. Per questo, dopo i primi colloqui orientativi con il soggetto, è bene che il perito o i periti possano decidere insieme quali esami è più opportuno fare nel caso specifico.

Quanto sono utili gli esami ematochimici al fine di valutare una personalità, e soprattutto, qual è il ruolo degli ormoni rispetto alla determinazione di un comportamento, per esempio violento o aggressivo?

Per la componente biologica ho fatto riferimento propriamente alle analisi del cervello, perché è la parte anatomica che più direttamente viene implicata nel comportamento. Tuttavia è certo che possiamo cogliere molti elementi utili per l'analisi attra-verso le valutazioni ematochimiche: la valutazione degli ormoni della sessualità. Su questo punto, infatti, vorrei sottolineare che la differenza tra l'apporto maschile e fem-minile nella criminalità è rilevantissimo: in Italia, la popolazione carceraria è media-mente formata dal 15% di sesso femminile, il resto sono maschi, anche se negli ultimi anni è assai cambiata la geografia dei reati. Io credo che questa proporzione sia destinata a cambiare molto, perché risente notevolmente della situazione culturale, e quindi di quelli che erano stati anche i ruoli che la donna e l'uomo avevano avuto in una so-cietà che adesso sta cambiando molto. Reati da cui le donne erano ritenute ‘immuni' sono ora in continuo aumento tra la popolazione femminile. Però non c'è dubbio che esami di laboratorio ematoclinici possano rivelarsi utili, quando mostrino alterazioni di qualche organo, spingendo pertanto il medico ad approfondirne cause e natura. Pertanto, quando c'è da valutare il perché di un comportamento che noi chia-miamo in questo caso malato, bisogna fare accertamenti biologici più accurati possi-bili, purché non ci si soffermi a questo solo, e uguale attenzione sia assicurata all'a-nalisi della personalità e a quella sull'ambiente.

Lei ha criticato il modo in cui la psichiatria è trattata nelle aule di giustizia. Però ha anche sottolineato che talvolta gli psichiatri si mettono a disposizione del gioco tra le parti. Come succede?

Ho certamente detto che talvolta il comportamento di singoli psichiatri è vergognoso, perché non usano professionalità verso il loro compito, esaurendo in due incontri la valutazione a cui sono chiamati. Tuttavia il lavoro, come già ho precisato, non viene agevolato. Al di là del luogo delle visite, il carcere, che ha regole rigidissime, è la considerazione finale del lavoro psichiatrico che viene troppo spesso disat-tesa dalla magistratura, vanificandone lo sforzo e la competenza. Se il giudice dispone una perizia psichiatrica, ritenendo questa scienza capace di fornire elementi utili sul soggetto che la corte non può ottenere da sé, deve necessariamente mostrare rispetto per il lavoro svolto. Porto a questo proposito un esempio molto semplice. Mi sono occupato del caso Carretta. In realtà eravamo in tre psichiatri, ciascuno lavorava per conto di un diverso soggetto, eppure siamo tutti arrivati a conclusioni comuni. Questo è un esempio chiarissimo di come tre psichiatri che decidano di svolgere seriamente il loro compito possono dal punto di vista clinico formulare una sola analisi. E questo perché si sono applicate le conoscenze della psichiatria e si è fatto di tutto perché le condizioni di lavoro fossero rispettate. Anche nel caso Maso, in cui lavoravo alla valutazione della personalità di tre ragazzi, ho dovuto battermi per questo. Li incontravo almeno tre volte la settimana. Quando, a un certo punto, il mio compito venne ostacolato dalla struttura carceraria, scrissi una lettera al magistrato, dicendo che o mi si metteva nelle condizioni di avere rispettato il mio setting, o rinunciavo al lavoro, per ragioni di etica professionale. Nel giro di quarantotto ore è stata messa a disposizione una stanza nel carcere, con uno spioncino che mettesse insieme la mia esigenza analitica con il dovere della guardia carceraria di essere presente. Queste pretese non sono capricci né manifestazioni di potere. Solo io, come psichiatra, so di che cosa c'è bisogno per studiare il comportamento. Pertanto, se un giudice mi chiama per fare questo, devo poterlo eseguire secondo professionalità. Bisogna arrivare a una condizione in cui gli psichiatri possano fare gli psichiatri. Allo stato attuale delle cose non è assolutamente facile. Ma, d'altra parte, non c'è nessuna soluzione diversa. Un altro tema molto dibattuto è se sia corretto affidare la valutazione di un soggetto a un singolo professionista, lo psichiatra, il cui parere condizionerà il giudice. In questa critica si propone di risolvere l'impasse, sostituendo al perito un centro o istituto autorizzato dallo Stato, in cui lavorino équipe. Questa è la strada seguita, per esempio, in America, dove funzionano centri per lo studio del comportamento altamente specializzati, in cui il magistrato manda l'imputato per un certo numero di giorni, trascorsi i quali si esprime una valutazione, di cui il giudice terrà conto.

Lei rileva un atteggiamento piuttosto diffidente da parte dei giudici nell'accettare che comportamenti criminosi, anche efferati, non siano in qualche modo legati alla follia?

E' necessario che la magistratura riesca a capire e accettare le scoperte delle scienze psicologiche riguardo al legame tra malattia e crimine, che non ha nulla a che fare con le teorie antiche di Lombroso. Purtroppo non sempre il giudice riesce a su-perare, culturalmente, quella specie di apparente buonsenso secondo cui certe azioni sono talmente terribili da non potere che sconfinare nella malattia. Lo studio dell'ambiente e della dimensione della personalità, come questa si vada sviluppando a confronto con determinate esperienze e traumi, hanno mostrato allo psichiatra come non si possa sempre ‘rifugiarsi' nel concetto di malattia di mente. Esiste il dramma anche dentro alla normalità. La capacità di intendere e di volere può essere integra, come nel caso Maso, eppure il soggetto compie ugualmente un omicidio. La categoria della follia non può essere utilizzata e questo disorienta. Vorrei fare un esempio attinto dalla storia. Quando ho cominciato a lavorare quarant'anni fa in manicomio, l'omosessualità era considerata una psicosi. Soltanto dal 1992 l'Organizzazione Mondiale della Sanità l'ha cancellata dall'elenco delle malat-tie, inserendola tra le caratteristiche della personalità. Anche la psichiatria è dunque in evoluzione. A questo la magistratura deve mostrarsi disponibile tutte le volte in cui, per chiarire un caso, chiede aiuto agli psichiatri.

Vittorino Andreoli


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