"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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domenica 26 agosto 2012

IL CAPITALISMO INCLUSIVO

"Molte cose andarono storte. Ma cinque debolezze in particolare hanno provocato il disastro. Esse sono: la cattiva distribuzione dei redditi, la debolezza delle imprese, la fragilità del sistema bancario, la pessima bilancia commerciale, la povertà del pensiero degli economisti".

Sono parole del 1955. Le scrisse il grande economista John Kenneth Galbraith, nel suo libro "La grande crisi del 1929". Queste parole, con la loro involontaria analogia rispetto alla situazione attuale, ci confermano il pensiero di Hegel: "Ciò che l'esperienza e la storia insegnano è questo: che uomini e governi non hanno mai imparato nulla dalla storia, né mai agito in base a principi da essa edotti". Diversamente, politici ed economisti avrebbero già realizzato una Bretton Woods del capitalismo finanziario. Ma così non è stato.

Purtroppo, fino a quando questo non verrà fatto siamo destinati ad avvitarci in crisi finanziarie ripetute, con effetti negativi sull'occupazione e per le tasche della gente. Sì, perché il punto è che il capitalismo finanziario sregolato e ipertrofico produce disoccupazione e povertà, mentre arricchisce indecentemente i suoi protagonisti. Il 55% di disoccupazione giovanile in Spagna, il 36% in Italia, sono tassi di disoccupazione post-bellici.

A una disoccupazione in crescita si aggiunge una disuguaglianza socio-economica in aumento, provocata dalle continue manovre finanziarie draconiane dei governi, messi con le spalle al muro dagli speculatori. Ma il 2012 è peggio del 1929. Nel '29 non c'erano i computer per muovere masse enormi di denaro sui mercati finanziari nello spazio di un secondo, né c'era la possibilità di investire in "scommesse" (derivati) con le garanzie misere (massimo il 10%) che oggi si richiedono agli speculatori, né c'erano i famosi CDS (Credit Default Swap) "completamente svincolati" dai relativi titoli di stato: vale a dire CDS acquistabili anche da parte di coloro che non ne possiedano il titolo obbligazionario. In pratica, come se qualcuno potesse stipulare l'assicurazione sulla vita di una persona senza essere quella persona. Il che, evidentemente, è una sorta d'incitazione all'omicidio. Il punto è di principio: perché si è permesso che uno strumento, concepito per assicurarsi contro il rischio di fallimento da parte di coloro che possedevano titoli di uno stato, fosse trasformato in un mercato libero delle scommesse in cui è lecito puntare sul fallimento di quello stato?

Quello che manca nel dibattito sulla crisi europea è una chiara azione, concertata a livello internazionale, per il ridimensionamento dell'uso degli strumenti speculativi come i derivati o i CDS. Fino a quando quest'azione non sarà compiuta, vivremo il paradosso di paesi messi con le spalle al muro da una pressione speculativa senza freni né limiti, che li costringe a piani di rientro del debito così ingenti nell'entità, e così accelerati nella tempistica, da tradursi in riduzioni del PIL le quali, a loro volta, aumentano il rapporto debito/PIL di quei paesi.

E siamo da capo, solo più poveri e arrabbiati. Il buon senso esigerebbe una constatazione: non si cambiano i fondamentali dell'economia reale in poche settimane, ci vogliono alcuni anni. Mentre questa speculazione selvaggia (s)ragiona in mezza giornata. Bene: se non possiamo abolirla (che sarebbe l'optimum) almeno ridimensioniamola. Staremmo tutti meglio, e potremmo rientrare in modo fisiologico e graduale sul debito, accompagnando i tagli e le efficienze necessarie allo scopo con investimenti in innovazione e nuove imprese in grado di aumentare il tasso di occupazione e il benessere della gente. Certo, nella situazione che stiamo vivendo non aiuta l'ortodossia di buona parte degli economisti, i quali continuano a parlare di mercati razionali (!). Ma cosa c'entra la razionalità? Qui occorre parlare di mercati regolati bene o di mercati regolati male. Questo solo conta. Quando il governatore della BCE Mario Draghi ha dichiarato che si è "pronti a tutto per salvare l'EURO", e questo ha determinato un'immediata e rilevante discesa degli spread di Italia e Spagna, qualcuno ha scritto su Corriere della Sera che questa è la nuova maniera di governare l'economia, orientando le attese a livello psicologico degli investitori. Ma scherziamo? E secondo questo qualcuno noi in che mondo dovremmo vivere? In un mondo nel quale ci alziamo la mattina preoccupandoci di cosa penseranno trader e speculatori del nostro futuro di nazione?.

Beh aboliamo il loro, di futuro, e potremo finalmente ricostruire il nostro. Detto questo, dal dibattito chiassoso che si compie ogni giorno sul tema "EURO salvo - EURO in rovina", e sue possibili conseguenze, accompagnato dall'ossessiva litania tedesca sul necessità del rientro del debito da parte dei PIIGS, sono assenti le riflessioni che veramente contano. Primo: la doverosa constatazione che il rientro del debito pubblico da parte dei paesi viziosi è sì da compiersi, ma che i mercati drogati dalla troppa speculazione stanno esigendo percorsi di riduzione troppo veloci e quindi dannosi e depressivi, mentre nell'interesse di tutti questi rientri andrebbero programmati su periodi più lunghi. Nel frattempo, bisognerebbe imbrigliare la speculazione aumentando le somme minime a copertura delle "puntate" degli scommettitori finanziari, e vietare quelle vere e proprie bische che sono i mercati dei CDS (credit default swaps) svincolati dai titoli di credito. Secondo: la ancora più doverosa constatazione della vergogna di un'Europa tutta che, con la sola eccezione dei paesi scandinavi, vede crescere costantemente il proprio tasso di diseguaglianza economico-sociale e, in parallelo, diminuire il tasso di occupazione e la mobilità sociale.

La riduzione della diseguaglianza e l'aumento del tasso di occupazione, accompagnati da sistemi economici che consentano a chi è nato povero di diventare benestante nell'arco della vita grazie al proprio merito e lavoro, dovrebbero essere i temi al centro dell'agenda europea, non la crescita. A questo proposito, occorre sfatare il mito che l'occupazione non potrebbe crescere, e la disuguaglianza ridursi, senza crescita. Non è vero. Nuove politiche fiscali, che tassassero di più le rendite e i patrimoni e di meno il profitto e il lavoro, ridurrebbero la disuguaglianza e aumenterebbero il tasso di occupazione anche in uno scenario di crescita zero. In un bellissimo articolo dell'Herald Tribune di qualche tempo fa, si faceva rilevare come un sistema economico sano non dovrebbe consentire ai ricchi di diventare dei "rent seekers".

La perpetuazione dei grandi patrimoni senza che questi corrano veri rischi imprenditoriali (e quindi senza investire in impresa e lavoro) non è un bene per l'economia, ma un male. A livello mondiale in pratica oggi esiste un sistema organizzato fatto di paradisi fiscali, e relativa elusione fiscale, che realizza questa perpetuazione. Esso, insieme con l'eccesso di speculazione consentita, forma un capitalismo esclusivo che premia troppo i ricchi, e crea crescente disoccupazione e povertà per tutti gli altri. Terzo, manca una riflessione condivisa, al centro dell'agenda politica ed economica internazionale, per rispondere alla domanda essenziale: "quale forma di capitalismo adottare per il nostro futuro e per il nostro benessere?".

E qui occorre dire, in modo forte e chiaro, che chi si è in questi anni arrischiato a sottolinearne la necessità è stato prontamente etichettato come, a seconda dei casi, disfattista o comunista. Per essere poi liquidato con battute come: "il capitalismo è la peggiore forma di economia che abbiamo, ma è l'unica possibile" (parafrasando, sic, Winston Churchill con la sua famosa battuta sulla democrazia). Batture che dimostrano, in capo a chi le pronuncia, di non aver capito né Churchill né il nostro attuale problema. Perché la battuta di Churchill deriva da una constatazione storicamente "robusta": tremila anni di storia politica conosciuta provano che le dittature non possono essere alternative alle democrazie. Mentre la crisi del capitalismo attuale è la crisi di un modello che ha solo duecento anni di storia alle spalle. Se poi lo valutiamo nella forma del capitalismo finanziario attuale, appena quaranta.

Vale a dire troppo poco tempo per farci arrivare a dire che quello attuale è l'unico capitalismo possibile. E invece questo è quello che, sotto sotto, connota ancora la real politik e l'ortodossia economica dominanti: l'idea che questo capitalismo sia il "meno peggio" e che vi sia una sorta di inevitabilità in quello che stiamo vivendo. Nossignori. Questo tipo di capitalismo non funziona. Perciò cambiamolo. Il che non significa affatto, come cantano molte sirene (altrettanto idiote), che il capitalismo sia morto. Significa che dobbiamo interrogarci, e sarebbe meglio che lo facessimo in fretta, su quale forma dovrebbe avere il capitalismo del futuro. Per darci una risposta che avrebbe, già di per sé, il beneficio di restituirci una prospettiva per l'avvenire. In questa nostra ricerca di una risposta non è un dettaglio trascurabile e, anzi, ne rappresenta un requisito fondamentale, il darci delle priorità. Occorre che ci domandiamo che cosa viene prima, e che cosa viene dopo. Vogliamo favorire il profitto da innovazione o la rendita da speculazione?

Vogliamo tutelare la dignità e il lavoro oppure subordinarli, sempre e comunque, alla massimizzazione del profitto "costi quello che costi". Perché chi scrive ha visto, una sera del 2005, lo sguardo umiliato di un gruppo di donne cinesi che, vestite tutte uguali con delle tute da lavoro sporche e lacere, attendevano in fila che venisse dato loro un martello a testa, per spaccare a mano le strade da riasfaltare nel mezzo di una delle più grandi citta cinesi, Chongqing. Perché chi scrive ha visto, giorni fa in televisione, lo stesso sguardo umiliato negli occhi degli operai dell' ILVA di Taranto, che si sentono burattini di un gioco più grande di loro e che viene deciso senza di loro. Perché chi scrive non può non notare, come oggi un operaio italiano guadagni 1.000 euro al mese e uno cinese 200.

Vale a dire, fatte le debite proporzioni in termini di costo della vita e relativo potere d'acquisto in Italia e in Cina, lo stesso stipendio. E chi scrive allora pensa, che il capitalismo del futuro dovrebbe mettere la dignità dell'uomo e il suo lavoro allo stesso livello, e con altrettanto potere contrattuale, rispetto al profitto. Non al di sotto. E se qualcuno ancora sostiene che in realtà il capitalismo sregolato e globalizzato di questi ultimi venti anni è stato un bene, adducendone a dimostrazione il fatto che l'operaio cinese (neanche tutti poi, ma solo alcuni) possa arrivare a guadagnare 200 euro al mese, beh allora quel qualcuno dimostra di non avere capito proprio nulla. Dimostra di non vedere come la globalizzazione si sia in pratica tradotta in uno "squeezing globale" del reddito da lavoro, a esclusivo vantaggio del reddito da capitale. Alla fine del grande trasferimento a oriente della produzione europea, a dieci anni dall'entrata della Cina nel WTO, lo stipendio dell'operaio italiano e quello del suo corrispondente cinese ci restituiscono una comune povertà redistribuita su scala globale, per il reddito da lavoro. Eppure, la disinformazione e la superficialità dominano.

Ancora alcune settimane or sono, sul Corriere della Sera, qualcuno ha scritto che in Europa dovremmo ispirarci al vecchio proverbio di Deng Xiao Ping secondo il quale "non è importante il colore del gatto, ma è importante che acchiappi il topo". Insomma: il fine giustifica i mezzi in salsa cinese. Non ci siamo. Sono questa amoralità, questo pensiero convenzionale secondo il quale in fondo i mercati sono comunque razionali, e si regolano da soli, che ci hanno portato a questo disastro economico e sociale. Ed è davvero incredibile come, ancora oggi, si continui a pensare che le dimostrazioni delle persone a Madrid o quelle di Occupy Wall Street a New York siano soltanto rigurgiti di comunismo di piazza, o proteste di lavoratori che non vogliono perdere privilegi ormai insostenibili nel grande gioco spietato del capitalismo finanziario. Se andiamo avanti a pensarla in questo modo, non ascoltando queste proteste che sono invece figlie di un'economia reale bistrattata dalla finanza, e di una cittadinanza vittima designata e carne da macello fiscale dei disastri che combinano i banchieri, senza rispondervi con un progetto nuovo di economia e di società, saremo destinati a veder degenerare questa protesta in violenza. Il che, davvero, non è augurabile.

Dobbiamo invece ribaltare la nostra prospettiva attuale e andare al cuore del problema, per risolverlo. Problema che risiede essenzialmente nel nostro credere che anteporre l'uomo al profitto sia inefficiente, mentre è vero il contrario. Perché creando un'economia in cui l'uomo viene mercificato, si determina un contesto talmente spietato da indurre nella collettività stessa la mancanza di una vera speranza per l'avvenire. E un'economia senza futuro, che vive unicamente il presente senza investire per gli anni che verranno, è non solo triste e becera, ma anche profondamente inefficiente. Lo aveva già capito oltre quarant'anni fa un grande economista, Ernst Friedrich Schumacher, il quale scriveva: "Qual è il significato di democrazia, libertà, dignità umana, tenore di vita, autorealizzazione, appagamento? E' una questione di beni o di persone? Certamente, è una questione di persone".

Quindi, se il capitalismo è prima di tutto una questione di persone, e la dignità dell'uomo non è merce negoziabile, allora il capitalismo non può che essere inclusivo di tutti gli uomini. Deve essere l'opposto, per intenderci, di questo capitalismo esclusivo che permette l'accumulo di ricchezze tanto immense da diventare quasi irrealistiche, nella loro entità. Ricchezze in grado di acquistare per capriccio quadri da 200 milioni di dollari ciascuno, mentre nella sola città di New York vi sono quarantamila (quarantamila!) "senza tetto". Ma quali sono le condizioni che un nuovo capitalismo dovrebbe soddisfare, per essere inclusivo? In primo luogo, si dovrebbero favorire fiscalmente il profitto d'impresa e il reddito da lavoro, e penalizzare con tasse più elevate le rendite di qualsiasi tipo (finanziario, immobiliare, ecc.).

Un'eccessiva tesaurizzazione del capitale o, in altre parole, un capitale che ha maggiore convenienza nell'essere perpetuato attraverso la rendita, invece che nell'essere investito in attività produttive, è la ragione del declino economico e sociale delle nazioni. Ce lo dice la storia. In secondo luogo occorre discriminare tra le diverse "qualità" di profitto, in economia. Un imprenditore che dà lavoro a mille operai non può pagare, alla fine dell'anno sul suo reddito d'impresa, la stessa aliquota di un gioielliere che dà lavoro a quattro o cinque dipendenti. Deve pagare un'aliquota inferiore, se vogliamo far crescere l'occupazione. Altrimenti non andiamo da nessuna parte. Inoltre: è ormai comprovato come vi sia una correlazione tra grado d'innovazione associato al profitto d'impresa e "robustezza" dei posti di lavoro generati da quella data impresa. In pratica: più un'impresa investe in innovazione più è probabile che, nel futuro, essa mantenga i suoi posti di lavoro. Questo perché tanto più elevata è l'innovazione quanto più è difficile l'imitazione da parte dei concorrenti, in primis quelli dei paesi a basso costo della manodopera.

Di conseguenza, quanto più un'impresa investe in ricerca e sviluppo tanto meno dovrebbe pagare di tasse. Anche in questo caso, con il fine ultimo di far crescere il tasso di occupazione stabile, in quel paese. Che è poi quello che conta. Perché di un tasso di occupazione in crescita, ma infarcito di posti di lavoro temporanei nei call center, non ce ne facciamo nulla. Sono posti di lavoro di serie "Z", che non generano in chi li occupa nessun sogno, nessuna volontà di progettare il proprio futuro e di investire. Sono posti di lavoro inutili per una buona economia. In terzo luogo, occorre ripristinare a livello internazionale il principio fiscale per cui le aliquote "sostanziali" (cioè il prelievo effettivo) devono crescere al crescere del reddito. Oggi ci ritroviamo in una situazione opposta, nella quale il miliardario Warren Buffett (sono le sue stesse parole) paga tasse inferiori in percentuale sul reddito di quanto non ne paghi la sua segretaria. C'è qualcosa che non funziona. Il punto è che il sistema organizzato dei paradisi fiscali, e della relativa elusione fiscale, è più avanti delle normative e della politica.

Dunque occorrerebbe, così come per la finanza, una Bretton Woods per le tasse che si ponesse l'obiettivo di eliminare questi paradisi fiscali, costringendo il capitale accumulato a emergere per essere reinvestito in attività produttive e generatrici di nuovi posti di lavoro. Non, come accade ora, per essere parcheggiato in luoghi nei quali la tassazione è praticamente nulla e, dunque, esso può perpetuarsi senza correre rischi. In un libro recentemente pubblicato, un economista americano ha calcolato che la quantità di denaro depositata in questi luoghi "protetti" ammonta ormai a parecchi trilioni di dollari, vale a dire una percentuale rilevante del PIL mondiale. Un accordo internazionale in merito, quindi, permetterebbe la re-immissione di tutto questo denaro "inattivo" nel circuito, con indubbi benefici per le attività imprenditoriali e produttive. Quarto: un capitalismo inclusivo deve coniugare la riduzione della diseguaglianza sociale ed economica con l'aumento della mobilità sociale intra-generazionale. Il perseguimento contestuale di una ridotta diseguaglianza e un'elevata mobilità sociale è l'obiettivo fondamentale di un capitalismo inclusivo.

Perché significa creare una società nella quale da un lato non ci sono esclusi ed emarginati, e dall'altro il valore del bene-merito vince sulla rendita di posizione del bene-stante. In pratica, una società in cui la condizione in cui si nasce non determina la propria vita ma, invece, sono il proprio talento e capacità di lavoro a farlo. In questo tipo di capitalismo inclusivo "l'ascensore sociale" funziona a due vie: per una persona che sale grazie al proprio merito ce n'è un' altra che scende a causa del proprio demerito. Per un povero in gamba che diventa benestante grazie alla propria capacità e competenza, ci deve essere un ricco che s'impoverisce a causa della sua incapacità e incompetenza. Altrimenti non funziona.

Una delle due azioni fondamentali da portare avanti affinché l'ascensore sociale a due vie si realizzi, è proprio la determinazione di un sistema fiscale che favorisca il reddito da lavoro e il capitale di rischio (impresa) da un lato, penalizzi la rendita finanziaria e patrimoniale dall'altro. La seconda azione da implementare è un sistema d'istruzione pubblica di alto livello a disposizione di tutti, anche dei più poveri. Non si scappa: nell'economia della conoscenza in cui viviamo, il non garantire ai meno abbienti l'accesso a quella conoscenza equivale a una ghettizzazione preventiva. Ma il capitalismo inclusivo funziona? O meglio ancora, conviene? La risposta è si, che funziona e che conviene. Solo che fino ad adesso siamo riusciti a realizzarlo in paesi piccoli come Danimarca, Svezia, Norvegia, Svizzera, Olanda. Ma funziona, eccome. Non caso quelli citati sono i paesi nei cui titoli di stato tutti vogliono investire.

Il motivo è che questi sono paesi stabili. E la stabilità, unita a una superiore robustezza del sistema economico, sono le conseguenze più rilevanti per quanto concerne i fondamentali macro-economici, per quei paesi che perseguono la via del capitalismo inclusivo. Ben più rilevanti sono le conseguenze per la società: meno violenza, meno furti e truffe, meno reati e, quindi, anche meno persone incarcerate. E poi meno divorzi, un superiore tasso di natalità (tra i paesi a economia matura), un grado di salute delle persone migliore rispetto a quello degli altri paesi. In generale, siamo tutti più onesti, più felici e più sani, in uno stato il cui capitalismo persegua una minore diseguaglianza e l'inclusività. Ma non è finita qui, perché come dimostra uno studio compiuto da alcuni ricercatori un paio di anni fa, il capitalismo inclusivo conviene. Il motivo è che, alla fine dei conti, è meno costoso per la società. Se traduciamo in termini economici i minori divorzi, i minori obesi, il maggiore tasso di fertilità (ribadisco, per un paese maturo) dei paesi a capitalismo inclusivo, quello che troviamo sono costi inferiori da sostenere per la collettività e una demografia più favorevole. Naturalmente questi dati e queste analisi sono note.

Allora perché non se ne parla abbastanza? Beh, oltre alle solite ragioni di miopia politica, di opportunismo e d'interesse precostituito, si aggiungono anche alcuni economisti che hanno l'ardire di sostenere come questo modello non sia applicabile, se non in paesi di piccola dimensione. Per paesi come gli Stati Uniti, la Cina, o anche l'Italia, esso non sarebbe replicabile a causa della dimensione geografica e demografica in gioco. Beh, è falso: chiunque abbia un minimo di nozione di teoria dei sistemi infatti, sa che quello che conta in un sistema (e quindi anche in un sistema economico o in un paese) non è la dimensione, ma la struttura. Come ben c'insegna il sistema migliore che vi sia: la natura. Per usare una bella immagine: il gatto e la tigre. Metteteli fianco a fianco, e non troverete praticamente nessuna differenza in termini di struttura tra il nostro simpatico micio domestico e la regina dei felini. Come scrisse Leonardo da Vinci, "Dio inventò il gatto, affinché l'uomo potesse accarezzare la tigre". Per cui, la dimensione non è un ostacolo all'applicabilità del modello del capitalismo inclusivo. Semplicemente, nessuna tra le grandi economie del mondo (con la sola parziale eccezione della Germania) ha fino ad ora seriamente tentato la cosa.

I motivi per cui questo non è ancora avvenuto nei grandi paesi a economia avanzata come gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Francia, ecc.. sono molteplici e multiformi, e un'analisi completa richiederebbe un libro, non un articolo. Ciò che conta è ricordarci che non c'è nessun limite, né teorico né pratico, alla diffusione del capitalismo inclusivo nei grandi paesi del mondo. Il motivo per cui non si è ancora fatto risiede unicamente nella mancanza di una volontà politica (e di una correlata visione politica) da un lato, nella forza degli interessi precostituiti che difendono il capitalismo esclusivo, e che si oppongono al capitalismo inclusivo, dall'altro. Eppure i dati parlano chiaro: il capitalismo esclusivo è socialmente doloroso. Gli Stati Uniti, che sono i campioni di quel modello, hanno un numero di detenuti che in proporzione è il quintuplo di quello della Danimarca. Sempre negli Stati Uniti, un individuo che nasce povero ha il 50% di probabilità di rimanere povero anche da adulto.

In Danimarca questa probabilità scende al 25%. In poche parole, le probabilità di diventare benestante sono a tuo favore, se nasci povero in Danimarca. E ancora: il capitalismo esclusivo è ingordo, e si tiene per se tutta la torta lasciando al ceto medio-basso giusto poche briciole per sopravvivere. Nel 2010, che fu un anno di ripresa economica negli Stati Uniti, l'1% degli americani più ricchi si accaparrò il 93% degli utili addizionali generati in quella ripresa. In pratica, tutti gli utili. Infine: il capitalismo esclusivo non fa pagare la crisi a tutti, ma solo al ceto medio-basso. In tempo di crisi infatti, sono i posti di lavoro ad essere eliminati e gli stipendi degli impiegati e operai ad essere ridotti, non quelli dei CEO. Ma soprattutto, i grandi patrimoni occultati nei paradisi fiscali, e gestiti da professionisti all'uopo preparati, non vengono intaccati dalla crisi. E' la perpetuazione della rendita organizzata su scala globale. Sono i "rent-seekers", come li chiama l'economista Joseph Stieglitz. Quel 20% di americani che, attualmente, possiede l'85% (l'85%!!) di tutta la ricchezza degli Stati Uniti. Tornano alla mente le parole di Jack London nel Tallone di Ferro: "La classe lavoratrice (...) era annientata. Eppure la sua sconfitta non pose fine alla crisi. Le banche, che già costituivano una forza non indifferente per l'oligarchia, continuavano ad accettare i risparmi dei lavoratori. Il gruppo di Wall Street trasformò la borsa in un turbine che spazzò via tutti i beni del paese. E sui disastri e sulle rovine, s'innalzò la forza della nascente oligarchia: imperturbabile, indifferente e sicura di sé.

Questa serenità e sicurezza erano terrificanti. Per ottenere lo scopo, essa non ricorreva soltanto a tutta la propria potenza, ma anche a quella del Tesoro degli Stati Uniti. I capitani dell'industria si erano poi volti contro la media borghesia. Le associazioni padronali, che li avevano aiutati a sconfiggere l'organizzazione del lavoro, erano alla loro volta sconfitte dai loro antichi alleati. In mezzo al crollo dei piccoli finanzieri e industriali, i trust resistevano magnificamente. Non solo erano solidi, ma anche attivi. Seminavano vento, senza paura né esitazioni, perché essi solo sapevano il modo di raccogliere tempesta e trarne profitto." Ci risiamo da capo. E possiamo fare due cose. Aspettare che questo capitalismo esclusivo si autodistrugga, vittima della sua stessa ingordigia e cupidigia, oppure cercare come cittadini di portare avanti il capitalismo inclusivo. A noi la scelta.

Davide Reina (Cadoinpiedi.it - 26 agosto 2012)

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Monte Pellegrino visto da casa natia di Acqua dei Corsari

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