A tutti noi capitano talvolta delle cose strane che sembrano dettate da sensazioni inconsce.
Può succede, quindi, che in un giorno particolarissimo si viene a realizzare una strana fotografia, che sembra voglia corrispondere alla sintesi di un avvenimento e di un sentimento complesso ad esso correlato.
Fisicamente, come nel caso in questione, frutto magari di causalità imprevedibili, di occasionali situazioni di una miscellanea irradiante di luce ombre, che all’autore generano un’illuminazione, sintesi di concetti filosofici complessi, che inducono a scrivere.
È quanto è accaduto all’amica Raffaella, nel realizzare - in un giorno per lei particolare - la foto posta in testa al suo articolo, suscitato dall’ennesima riflessione sui massimi sistemi; che sembrano assopirsi ma che restano perennemente latenti, sempre pronti a riaccendersi.
Si rilancia di seguito l’immagine in questione e il relativo articolo ad essa abbinato, che l'autrice ha provveduto a pubblicare nel suo spazio web del sito Fotoportal gestito da Salvatore Picciuto.
Buona luce a tutti!
© Essec
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Siamo anche ciò che non sentiamo
rendendocene conto unicamente quando lo percepiamo
Siamo stati dotati di un corpo stupendo, una macchina complessa, dotata di più sistemi assemblati apparentemente indipendenti; in un’armonica e primordiale sinergia, che ci dà forma esteriore e potenzialità, permettendoci di vivere.
Un corpo che diamo per scontato, non sostituibile, amato o ripudiato ed a volte purtroppo dannato. Un corpo effimero se rapportato all’immensità dell’universo, inevitabilmente reale e carico di illusorietà. Si, perché nei susseguissi degli hic et nunc, qui e ora, della nostra vita ci sentiamo fondamentalmente potenti ed immortali, finché non arriva un qualcosa che scardina le nostre certezze.
Quando siamo impegnati in gesti di routine, azioni compiute in automatico e, ancor di più, quando la mente viaggia solitaria, ci dimentichiamo di avere un corpo, così come ci dimentichiamo della sua complessità.
Abbiamo modo di scoprirlo al manifestarsi di una minima avaria fisica, quando scopriamo i limiti che diventano occasione per percepire la nostra fisicità. Quando mai percepiamo distinti, ad esempio, il fegato, i timpani, i menischi, i polmoni?... Esatto: solo quando dolgono. Ecco che, in quel presente, emerge tutta la nostra vulnerabilità, il senso di impotenza e la caducità del corpo che lo caratterizza. È li che cominciamo a sentire il corpo, a percepire in modo più conscio che la sua funzionalità unitaria non è scontata, a sentire ciò che non sentivamo.
Il rapporto innato che abbiamo con il nostro corpo rispecchia il rapporto che abbiamo con la nostra anima: non la sentiamo ma è li, parcheggiata in latente attesa del suo hic et nunc pronta ad esplodere tumultuosamente per farsi sentire nel momento in cui siamo fermati dalle emozioni e dai dolori. Si, perché quando ci troviamo di fronte ai nostri limiti fisici, in qualche modo entriamo inevitabilmente in contatto con la nostra anima; in quel momento scattano una serie di domande, tra cui le “Domande ancestrali” a cui l’uomo, dalla notte dei tempi, non sa dare risposte.
Da queste fermate non programmate, in prossimità della nostra anima, ripartiamo normalmente con una consapevolezza maggiore di noi stessi, una migliorata sensibilità e comprensione degli altri, consci della piccolezza dell’homo sapiens nell’infinito, senza poter darsi alcuna risposta sull’esistenza del tutto.
Tralasciando l’universo e tutti i suoi misteri inaccessibili, ciò che mi sovviene è la consapevolezza che corpo e anima viaggiano interconnessi: o entrambi non sentiti o entrambi sentiti. Quando un hic et nunc è segnato da un dolore fisico, sentiamo il corpo e, di riflesso, l’anima; viceversa, alcune battaglie intraprese dall’ anima ci fanno sentire, attraverso il dolore, la materialità del corpo.
Non è raro costatare come le persone che hanno sofferto molto fisicamente o coloro dall’animo tormentato abbiano sviluppato una maggiore empatia verso il prossimo e una sensibilità profonda.
E qui sorgono le domande, come: è plausibile asserire che ciò derivi da una battaglia combattuta contestualmente su due piani, quello il fisico e quello dell’anima, bisognosa di pace e serenità?
Inoltre, quando i limiti fisici, la malattia o la sofferenza sfociano in intolleranza, rabbia, astio o addirittura rifiuto della vita, può essere attribuito ad un’anima irrisolta e travagliata che rende il corpo dannato?
Infine, dal punto di vista mistico, in quale cinico disegno può mai rientrare la sofferenza gratuita, come quella sofferta dagli ammalati terminali o succubi di malattie degenerative fortemente disabilitanti? Come potrebbe mai l’anima trovare la pace? Eppure, ci sono testimonianze che ciò avvenga.
In tutto questo divagare di pensieri trovo solo una certezza palese: non esistono risposte certe o argomentazioni che possano illuminarci sul significato della Vita.
© Raffaella Tava
[07/09/2025]
"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."
Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).
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lunedì 8 settembre 2025
sabato 6 settembre 2025
Big Bang culturale in continua espansione
L’immagine proposta, che è stata realizzata dal fotografo Giuseppe Gerbasi, mi ritrae in una disfida d'inquadrature con Ferdinando Scianna, in occasione della preziosa Lectio tenuta dal Maestro presso l’Università di Palermo nel febbraio 2019. Evento integralmente documentato su You Tube e del quale, specie per gli appassionati, se ne consiglia la visione.
La sua venuta a Palermo ebbe anche a coincidere con la sua imponente Mostra antologica allestita alla GAM di Palermo.
Il regalo inviatomi dall’amico Gerbasi costituisce per me un ulteriore spunto per riflettere sull’importanza della fotografia, da molti vista come un lettino per innescare psicanalisi individuali, specie da coloro che la praticano e ne restano coinvolti: autori, critici, lettori o coccasionali osservatori.
Della stessa, del resto, tutti potranno sempre scriverne e leggerne in piena autonomia, ciascuno seguendo un proprio canone, per suscitare (gli uni) o leggere (altri) eventuali emozioni. Perseguendo le logiche riconducibili ai neuroni specchio, in parte anch’essi personalizzati, di cui si ebbe ad accennare in un altro articolo.
La fotografia può essere letta in tanti modi e pertanto significare tante cose. Dal costituire pretesto per poter poi raccontare pagine di vita, ovvero per documentare, fissare momenti e rievocare fatti, persone e personaggi correlati.
In qualche modo può ben corrispondere alle tante pagine che compongono un diario individuale, da aggiornare continuamente, dove annotare incontri, accadimenti, sensazioni, convinzioni, emozioni.
Con ogni immagine, che tende a raccogliere nel tempo elementi che implementano montagne di dettagli che sembrano assopirsi, restando sempre sensibili per riaccendersi e ritornare immediatamente vivi.
È anche un’arte, quindi, che tende a sublimare l'accumulo di ricordi, comunque destinati umanamente a dissolversi.
Così pure un pretesto per poter leggere – nel corso o alla fine - i tanti portfolio di vita che si realizzano con ogni giorno. Album che, pian piano raccolgono le tante tessere realizzate durante un’intera esistenza.
La fotografia è già l’immagine semplice che fin da piccoli ci identifica in un documento, ma anche una magia che rende longeva un’esistenza apparentemente effimera, manifestata anche da un fiore che sboccia per una volta sola.
È una formula complessa che alimenta varie illusioni che ci costruiamo tra tante parentesi e a cui amiamo credere.
La fotografia resta comunque un quadro in cui ogni artista ama disegnare quello che più gli aggrada; per fissare combinazioni reali di un momento o per dipingere un proprio immaginario che potrebbe solo corrispondere a verità inventate o ad eterne utopie.
Diventando arte la fotografia può rivelarsi, altresì, uno specchio che circoscrive un paesaggio indiretto, riflesso, che segue inquadrature variegate e circoscritte, secondo del momento in cui ci si decide ad effettuare lo scatto.
L’argomento si presta a continuare a scrivere, senza sosta, ma per chiudere vengo a proporre riflessioni di altri, come le tante contenute in un interessante articolo trovato casualmente in rete.
Pubblicato nel suo vasto sito web Massimo Cec si cimenta in un accostamento interessante della fotografia con la filosofia, esplorando tanti aspetti e personaggi attinenti all’universo del visivo creativo.
Chi ama la fotografia - e nel caso fotografare o leggerla fa poca differenza - non potrà esimersi dall'andare a intrattenersi su quanto viene a scrivere lo stesso Massimo Cec riguardo alla sua visione e sul concetto di "fotografare".
In conclusione si può affermare che l’arte fotografica rimane ancora un mondo indefinito, in continua evoluzione e che nasconde tanti antri inesplorati.
Accostabile quasi a un Big Bang culturale in veloce espansione e che induce moltissimi appassionati ad esplorare e sperimentare con ampi spazi disponibili e senza necessità di soste.
Ipotesi, teorie, e tesi si sviluppano continuamente in linguaggi nuovi, immediati e diretti, che, in presenza di poche regole e certezze assolute, costituiscono pretesti di studio e di riscritture.
Con la certezza che tanti altri continueranno a trovare spazi e spunti per tentare di confutare, o solo per poter rettificare quanto sostenuto da altri, per ridefinire e continuare a scrivere ancora.
Buona luce a tutti!
© Essec
giovedì 4 settembre 2025
Josè Saramago: "Quando arriverà, o Signore, il giorno in cui verrai a noi per riconoscere i tuoi errori dinanzi agli uomini?"
Pienamente coscienti che l’idealismo socialista non paga, l’esperienza ci insegna come moltissimi ex attivisti, arrivati in età matura, si rendono conto che trovarsi un’allocazione all’ombra può costituire un facile vantaggio, assicurando un riparo da possibili rischi e, facendo scelte oculate, procurare pure delle rendite di posizione.
Voltagabbana, opportunisti, certamente ideologicamente flessibili, ma forse disillusi dalle esperienze ipocrite e utopistiche di democrazie frutto di uomini, corrose da nepotismi e burocrazie ovvero, semplicemente fattisi furbi nell’aver capito che la vita reale necessita di cinismo nel caso si voglia accedere al vero potere.
Gli esempi si sprecano e una attenta lettura della storia e delle biografie di tanti personaggi è in grado di illuminare sulla ragionevolezza dei corsi e ricorsi.
Il Vico sosteneva, al riguardo, secondo una lettura mistica, che alcuni accadimenti si ripetono con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo e ciò avviene non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza. Machiavelli, più tecnocratico, teorizzava un tipo particolare di ciclicità, quello che va dalla rovina alla grandezza, all’ozio, alla debolezza, per poi tornare di nuovo alla rovina; quello che va dall’ordine al disordine per poi tornare all’ordine, dal bene al male e dal male al bene. Il tutto in modo quasi invisibile lungo il lento scorrere del tempo.
Sostanzialmente per corsi e ricorsi storici sono quindi ad intendersi cicli perpetui in cui l'umanità, distinta in una babele di culture diverse e anche contrapposte, progredisce attraverso varie fasi, tornando poi a uno stato primitivo, per poi tornare a ripetersi nel rifiorire, regredire, riemergere.
Come accade spesso in certi incontri e conoscenze, molti addottrinamenti e nuove vedute derivano dal caso, anche a seguito di eventi fortuiti.
In occasione dell'ennesimo compleanno, ad esempio, la fidelizzazione ad una libreria on line mi ha procurato un bonus per un volume a mia scelta, fra quelli della loro “universale economica”.
Non essendo mai stato un divoratore di libri ma avendo scoperto più la lettura in età senile, fra i tanti titoli di diversi autori, non mi è stato facile scegliere il regalo. Le opere letterarie sono molteplici ed i gusti dei lettori pure diversificati e assai differenti.
Alla fine ho optato per “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” di Jose’ Saramago e devo confessare che non avrei potuto fare una scelta migliore.
Dell’autore avevo già letto due sue opere di notevole spessore, anche per i contenuti socio politici molto allusivi e sempre attuali. Il titolo dell’opera che venivo ora a scegliere, atteso i precedenti, lasciava immaginare approcci originali di un vangelo assai diverso rispetto a quelli tramandati nella liturgia cristiana. E così è stato.
Le oltre trecento pagine del racconto, con una avvincente narrazione, catturano il lettore per la capacità di renderlo partecipe, quasi a includerlo in una complessa operazione antropologica e mistica.
L’ateismo manifesto di Saramago c’è tutto ed è illuminante, riuscendo peraltro a sviluppare con visione laica un racconto del Gesù di Nazaret fondatore del cattolicesimo. Mettendo in luce aspetti comuni dell’uomo, anche se nato, cresciuto e morto in seno a una cultura ebraica ortodossa.
Il tutto collegato alle eterne logiche filosofiche che hanno da sempre connotato le esistenze, nei secoli e fin dall’origine, estremizzata nella coppia di Adamo ed Eva generatori della razza umana, favoleggiati come i "primati" scacciati dall”Eden per aver disatteso agli ordini di Dio.
La quarta di copertina dell’edizione economica del libro, che riporta: “Quando arriverà, o Signore, il giorno in cui verrai a noi per riconoscere i tuoi errori dinanzi agli uomini?”, lascia immaginare la densità dei contenuti di quest’opera di Saramago.
Una attenta lettura non evidenzierà nulla che possa essere etichettato come blasfemo, bensì metterà in evidenza e sottolineerà i limiti della sacralità diffusa e più nota, oltre a ingenerare dubbi sull’attendibilità fondante dei principi realistici del cristianesimo tutto e del cattolicesimo in particolare.
In ogni caso, a prescindere da come uno la pensi, la lettura di questo "Vangelo" laico sarebbe da consigliare fortemente a tutti, ma a condizione di non approcciarsi in modo prevenuto ovvero filtrando il racconto con l’onestà intellettuale di cui si è dotati e che spesso si preferisce non usare.
La conoscenza non può fare a meno dello studio, per riuscire sentire le sonorità delle tante campane; per affinare le orecchie e cogliere le sottigliezze, utile per riflettere sulle miscellanee tonali nascoste nei rumori percepiti.
Ricerca di comodità e molta pigrizia intellettuale non fa propendere a contraddittori e confronto, specie se mette in pericolo privilegi goduti.
Buona luce a tutti!
© Essec
lunedì 1 settembre 2025
Laquartadimensionescritti (cartaceo)
"Ogni pagina è una tappa di un percorso che parte dall'esperienza personale e si apre a interrogativi più ampi. Il lettore non troverà una narrazione lineare, né una trama definita, bensì una serie di finestre da aprire a piacimento su scorci del nostro tempo. Come nel blog da cui questi scritti provengono, il tono è diretto, il pensiero critico, l'ironia costante. Ma sotto ogni parola, aneddoto o citazione si avverte l'urgenza di comunicare, di stimolare una riflessione, di coltivare la memoria e, soprattutto, l'invito a guardare — dentro e fuori di sé — con maggiore consapevolezza. Alcuni scritti, in particolare quelli dedicati alla fotografia e al ricordo, sembrano riecheggiare l'idea che il tempo reale non si misuri in secondi, ma si viva nella continuità soggettiva della coscienza. È quella stessa "durata interiore" che l'autore insegue nel tentativo di fissare attimi, volti, frammenti che sfuggono alla linearità del tempo, trasformandoli in tasselli di una memoria viva, personale e collettiva." (tratto da prefazione di Pasquale Tribuzio)
Youcanprint 192 pagine
Buona luce a tutti!
© Essec
sabato 30 agosto 2025
Libera nos a malo
Nato come dissertazione univoca, il pezzo è stato proposto e trasformato per sperimentare un articolo scritto a quattro mani, con l’intento di ampliare il campo della discussione e possibilmente introdurre aspetti altri.
Per essere più chiari, l’articolo originario di base corrisponderebbe all’unificazione dei testi attribuiti a “interlocutore 1”, l’idea dell’azione integrativa, lasciata libera anche di eventuali contraddittori, è l’insieme delle considerazioni intervallate e etichettate come “interlocutore 2”.
La formula adottata compatta in un unico post l’articolo e l’eventuale intervento a commento. Di seguito si espone il testo convenuto che ne è venuto fuori.
Interlocutore 1: L’arte, in qualunque forma si manifesti costituisce una psicanalisi individuale che si basa su un talento. Una palestra per chi resta impegnato in continue ricerche, per comunicare un pensiero o un semplice punto di vista. Quindi la domanda è pertinente nel chiedersi quanto inconscio c’è nel concepirla?
Interlocutore 2: Io non generalizzerei, in quanto ritengo che vada fatta una pre-analisi al fine di definire cosa ha spinto l’artista a realizzare la sua opera, sempre prima d’interrogarsi su quanto essa sia stata realizzata consciamente o inconsciamente e frutto di psicanalisi o meno. Ritengo infatti che generalizzare sia molto riduttivo. Ci sono artisti che producono unicamente per scopo commerciale, producendo opere figlie di grande raziocinio, normalmente affascinanti esteticamente (non sempre) e poco concettuali. Poi c’è chi sente il bisogno di comunicare il proprio mondo interiore, per esternalizzare le proprie emozioni, le gioie, le paure, il senso di ingiustizia e tanto altro ancora; per affermare se stessi esprimendo la loro interiorità e le proprie verità. C’è pure chi cercando di quietare la propria anima, al fine di ritrovare il proprio equilibrio emotivo, ha la necessità di esprimere, materializzare ciò che sente e lo fa attraverso il proprio talento, regalando arte. Ecco, io penso che unicamente le opere prodotte da questa ultima tipologia di artisti, tra i citati, possano essere frutto di un connubio tra conscio ed inconscio.
Interlocutore 1: In generale si può affermare che le produzioni di ciascuno inglobano componenti che derivano da esperienze dirette; ma che si vanno ad assommare anche ad altre pregresse, comprese quelle insite nei DNA individuali ricevuti e tramandati nel tempo. Ogni esistenza che assume il suo testimone andrà, quindi, ad annotare vissuti compositi. Facendo sì che diventi un tutt’uno, “modellato” in parte secondo il proprio libero arbitrio che non sempre libero rimane, attese le tante sollecitazioni che tendono a condizionare.
Interlocutore 2: Questa è la vita, è il nostro essere. Noi siamo il risultato nostro vissuto e, fortunatamente, in continua mutazione; cresciuti in comunità e forgiati, nel bene e nel male, sin dall’inizio della nostra esistenza dalle relazioni, dalle sollecitazioni, dalle regole, dai divieti… e dalle emozioni ataviche che influenzano e caratterizzano il nostro vivere; conseguentemente, non ritengo che ciò abbia un’attinenza con il conscio e l’inconscio.
Interlocutore 1: Di certo, ambienti (contesti fisici e condizionamenti sociali) incidono nelle alchimie psico-fisiche dei singoli. Aggregazioni, ricche di compromessi, influenzano le personalità, con scelte di parametri che associate tendono a consolidare quelle che chiamiamo convenzionalmente culture. Col tempo e con le varie sedimentazioni ogni schema teorico incentrato su artifici umani può così assumersi come plausibile, perchè legati a principi, in apparenza logici, ma solo convalidati nelle teorie dominanti del momento storico.
Interlocutore 2: Condivido pienamente il tuo pensiero, che introduce nuovi elementi al contesto, ma ancora non trovo un’attinenza… fammi capire.
Interlocutore 1: In assoluto, paradossalmente, tutto potrebbe anche avere un senso, se basato su ipotesi che supportano tesi definite, assunte da maggioranze dominanti. Ogni individuo così viene a maturare una propria dimensione. Fin da piccolo, fatto convinto di possedere certezze, solamente indossando abiti di comode verità preconfezionate, e, atteso che tutti gli esseri che si alternano sono comunque e sempre diversi, il pensiero unico rimane un’ambizione impossibile, un perseguimento di un’utopia irraggiungibile.
Interlocutore 2: Quindi, il tutto si basa sull’assunto, opinabile, che l’artista in quanto uomo non è né libero né conscio, conseguentemente crea opere, per l’appunto, ricche della sua incoscienza. Comincio a seguire la tua logica, prosegui pure.
Interlocutore 1: L’unica soluzione praticabile rimane il compromesso mediato, variegato e con diversificati approcci sociali, che rendono possibili solo coabitazioni e proseguimenti di segnali a cui rispondere. Allineati tutti secondo comportamenti che da sempre si alimentano nell’alternarsi delle esistenze. Sono pertanto esclusivamente le illusioni che governano i giochi e che, non essendo utopie, consentono di realizzare combinazioni temporanee d’equilibri, generati sempre da contrattazioni labili, che rimangono alla lunga fragili di fronte alla precarietà del tempo. Sono sempre tante le false verità che si appalesano e ciascuno potrà modellarle e farle proprie con idee inserendole nell’organizzazione sociale che è più confacente. In ogni caso, le differenti culture tendono a consolidare tantissimi modelli; e così accade che ogni soggetto che nasce potrà ritrovarsi protagonista o succube a secondo dell’ambiente sociale in cui viene alla luce. Illuminismo, oscurantismo, totalitarismi, democrazie e tanti altri orientamenti si compattano in stati nazione. Nelle varie formule politiche si consolidano e sfaldano, assemblando regole, religioni, e tanto altro d'interconnesso per rinnegarle dopo. Così nulla potrà mai corrisponde a verità assoluta, per poter dare certezza, atteso che ogni essere nasce e muore esaurendo il suo ciclo, navigando nel casuale mare in cui si è ritrovato.
Interlocutore 2: E, secondo la tua logica, illusoriamente cosciente.
Interlocutore 1: In conclusione, alla fine tutto si lega, anche se nessuno potrà mai conoscere dimensioni e i limiti che ci riguardano, dell’universo in cui fluttuiamo inconsci. Pensiamo d’essere al centro dell’esistente .... ma sulla base di cosa non è dato sapere. Si tratta di un pensiero illusorio immaginario e nient’altro. Il limite umano più evidente resta la presunzione di ritenersi convintamente l’unico essere intelligente nel creato. Al punto da disconoscersi perfino atei, al solo scopo di poter avvalorare l’operato di un’intelligenza superiore, dogmatica assunta per vera. Di un Dio di cui restar vassalli per esser stati noi fatti, per convenienza più che per convinzione dimostrabile, ad immagine e somiglianza. Mentre nell’espressione evangelica presente nella preghiera al Padre, nella versione latina della Vulgata, si recita: Libera nos a malo ("liberaci dal male").
Buona luce a tutti!
© Essec
mercoledì 20 agosto 2025
ABU AMMAR (Yasser Arafat), L’INTERVISTA di Oriana Fallaci del 1972
Da Intervista con la storia - 1974 (di Oriana Fallaci)
Amman, marzo 1972
Quando arrivò, puntualissimo, rimasi un attimo incerta a dirmi che no, non poteva essere lui.
Sembrava troppo giovane, troppo innocuo. Almeno al primo sguardo, non avvertivi niente in lui che denunciasse autorità, o quel fluido misterioso che emana sempre da un capo investendoti come un profumo o uno schiaffo.
Di impressionante non aveva che i baffi, folti e identici ai baffi che quasi ciascun arabo porta, e il fucile mitragliatore che teneva in spalla con la disinvoltura di chi non se ne stacca mai.
Certo lo amava tanto, quel fucile, da averlo fasciato all’impugnatura con nastro adesivo color verde ramarro: divertente e grazioso.
Di statura era piccolo, un metro e sessanta direi. E anche le mani eran piccole, anche i piedi. Troppo, pensavi, per sostenere due gambe così grasse e un tronco così massiccio, dai fianchi immensi e il ventre gonfio di obesità.
Su tutto ciò si rizzava una testaccia minuscola, col volto incorniciato dal kassiah, e solo osservando quel volto ti convincevi che sì: era lui Yasser Arafat, il guerrigliero più famoso del Medio Oriente, l’uomo di cui si parlava tanto, fino alla noia.
Uno stranissimo, inconfondibile volto che avresti riconosciuto tra mille: nel buio. Il volto di un divo. Non solo per gli occhiali neri che ormai lo distinguevano quanto la benda del suo acerrimo nemico Moshe Dayan, ma per la sua maschera che non assomiglia a nessuno e ricorda il profilo di un uccello rapace o di un ariete arrabbiato.
Infatti non ha quasi guance, né mento. Si riassume tutta in una gran bocca dalle labbra rosse e cicciute, poi in un naso aggressivo e due occhi che se non sono nascosti dietro lo schermo di vetro ti ipnotizzano: grandi, lucidi, sporgenti. Due macchie d’inchiostro. Con simili occhi ora mi guardava, educato e distratto. Poi con vocina gentile, quasi affettuosa, mormorò in inglese: «Buonasera, due minuti e sono da lei». La voce aveva una specie di fischio buffo. E un che di femminile.
Chi lo aveva incontrato di giorno, quando la sede giordana di Al Fatah era affollata di guerriglieri e di gente, giurava di aver visto intorno a lui un’eccitazione commossa: la stessa che egli solleva ogni volta che appare in pubblico. Ma il mio appuntamento era notturno e, a quell’ora, le dieci, non c’era quasi nessuno. Ciò contribuì a togliere al suo arrivo ogni atmosfera drammatica.
Ignorando la sua identità, avresti concluso che l’uomo era importante solo perché accompagnato da una guardia del corpo.
Ma quale guardia del corpo! Il bellone più bellone che avessi mai visto. Alto, snello, elegante, sai il tipo che indossa la tuta mimetizzata come se fosse un frac, e con un viso scavato: da rubacuori occidentale.
Forse perché era biondo, con gli occhi azzurri, mi venne spontaneo pensare che il bellone fosse occidentale anzi tedesco. E, forse perché Arafat se lo portava dietro con tanto orgoglio, mi venne ancor più spontaneo pensare che il bellone fosse qualcosa di più che una guardia del corpo. Un amico molto affezionato, diciamo.
Oltre a costui, che presto girò sui tacchi e scomparve, c’era un tipaccio in borghese che ti sbirciava brutto e col tono di dire: tocca-il-mio-capo-e-ti-uccido-a-mo’-di-un-colabrodo.
Infine c’erano l’accompagnatore che avrebbe fatto da interprete e Abu George: incaricato di scrivere domande e risposte onde controllarle poi col mio testo. Questi ultimi due ci seguirono nella stanza scelta per l’intervista. Nella stanza c’erano alcune sedie e una scrivania. Arafat posò sulla scrivania il fucile mitragliatore e si sedette con un sorriso di denti bianchi, aguzzi come i denti di un lupo.
Sulla sua giacca a vento, in tela grigioverde, spiccava un distintivo con due Marine del Vietnam e la scritta «Black Panthers against American Fascism. Pantere Nere contro il fascismo americano». Glielo avevano dato due ragazzuoli della California che si definivano americano-marxisti e che eran venuti col pretesto di offrirgli l’alleanza di Rap Brown, in realtà per fare un filmetto e ricavarci quattrini. Glielo dissi. Il mio giudizio lo toccò senza offenderlo.
L’atmosfera era rilassata, cordiale, ma priva di promesse. Un’intervista con Arafat non serve mai, lo sapevo, ad ottenere risposte memorabili. Tantomeno a strappare informazioni su lui.
L’uomo più celebre della resistenza palestinese è infatti anche il più misterioso: la cortina di silenzio che circonda la sua vita privata è così fitta da farci chiedere se non costituisca un’astuzia per incrementarne la pubblicità, una civetteria per renderlo più prezioso.
Perfino ottenere un colloquio con lui è difficilissimo. Col pretesto che egli si trova sempre in viaggio, ora al Cairo e ora a Rabat, ora al Libano e ora in Arabia Saudita, ora a Mosca e ora a Damasco, te lo fanno sospirare per giorni, per settimane, e se poi te lo danno è con l’aria di regalarti un privilegio speciale o un’esclusiva di cui non sei degno.
Nel frattempo tu cerchi, ovvio, di raccoglier notizie sul suo carattere, sul suo passato. Ma, a chiunque tu ti rivolga, trovi un imbarazzato mutismo: solo in parte giustificato dal fatto che Al Fatah mantiene sui suoi capi il più fitto segreto e non ne fornisce mai la biografia.
Confidenze sottobanco ti sussurreranno che non è comunista, che non lo sarebbe mai neanche se a indottrinarlo fosse Mao Tse-tung in persona: si tratta di un militare, ripetono, di un patriota, e non di un ideologo.
Indiscrezioni ormai diffuse ti confermeranno che nacque a Gerusalemme, forse trentasei o forse quaranta o forse quarantacinque anni fa, che la sua famiglia era nobile e che la sua giovinezza fu agiata: suo padre possedeva un’antica ricchezza che le confische non avevano troppo intaccato. Tali confische, avvenute nel corso di un secolo e mezzo, erano state imposte dagli egiziani su certi latifondi e su certi immobili al centro del Cairo. E poi?
Vediamo: poi, nel 1947, Yassir aveva combattuto contro gli ebrei che davano vita a Israele e s’era iscritto all’università del Cairo per studiare ingegneria. In quegli anni aveva anche fondato l’Associazione studenti palestinesi, la stessa da cui sarebbe fiorito il nucleo di Al Fatah.
Ottenuta la laurea, era andato a lavorare nel Kuwait e qui aveva fondato un giornale che incitava alla lotta nazionalista, era entrato a far parte di un gruppo detto Fratelli Musulmani. Nel 1955 era rientrato in Egitto per frequentare un corso di ufficiali e specializzarsi in esplosivi, nel 1965 aveva contribuito in modo speciale alla nascita di Al Fatah assumendo il nome di Abu Ammar.
Cioè Colui che Costruisce, Padre Costruttore. Nel 1967 era stato eletto presidente dell’OLP, Organizzazione di Liberazione Palestinese, movimento di cui fanno ormai parte i membri di Al Fatah, del Fronte Popolare, di Al Saiqa, eccetera: solo recentemente era stato scelto come portavoce di Al Fatah, suo messaggero.
Ma a questo punto, se chiedevi perché, allargavano le braccia e rispondevano: «Boh, qualcuno doveva pur farlo, uno o l’altro non fa differenza».
Della sua vita quotidiana non ti dicevano nulla fuorché il particolare che non ha nemmeno una casa.
Ed era vero: quando non abitava in quella del fratello, ad Amman, dormiva nelle basi o dove capitava. Era anche vero che non fosse sposato. Non gli si conoscevano donne e, malgrado il pettegolezzo di un platonico flirt con una scrittrice ebrea che aveva abbracciato la causa araba, sembrava proprio che ne potesse fare a meno: come avevo sospettato vedendolo arrivare col bellone.
Guarda, il mio sospetto è che, salvo particolari utili a correggere le inesattezze, non vi sia altro da dire su Arafat.
Quando un uomo ha un passato clamoroso lo senti anche se lo nasconde: perché il passato resta scritto sul volto, negli occhi.
Sul volto di Arafat, invece, non trovi che quella strana maschera impostagli da madre natura: non da esperienze pagate. V’è qualcosa di insoddisfacente in lui, di non ancora fatto. Se ci pensi bene, del resto, ti accorgi che la sua fama esplose più per la stampa che per le sue gesta: dall’ombra lo tirarono fuori i giornalisti occidentali e in particolare americani, sempre bravissimi nell’inventar personaggi o montarli.
Basti pensare ai bonzi del Vietnam, al venerabile Tri Quang.
D’accordo: Arafat non può essere paragonato a Tri Quang. Della resistenza palestinese è davvero un artefice, o uno degli artefici, e uno stratega. O uno degli strateghi. Il portavoce di Al Fatah lo fa per davvero a Mosca. A Rabat e al Cairo ci va per davvero.
Ma ciò non significa, tantomeno significava, che egli fosse il leader dei palestinesi in guerra. E, comunque, fra tutti i palestinesi che incontrai, Arafat resta quello che mi impressionò meno di tutti.
O dovrei dire quello che mi piacque meno di tutti?
Una cosa è certa: egli non è un uomo nato per piacere. È un uomo nato per irritare. Avvertire simpatia per lui è difficile. Anzitutto per il silenzioso rifiuto che oppone a chi tenti un approccio umano: la sua cordialità è superficiale, la sua gentilezza è formale, e un nulla basta a renderlo ostile, freddo, arrogante. Si scalda solo quando si arrabbia.
E allora la sua vocina diventa un vocione, i suoi occhi diventano polle di odio, e sembra che voglia sbranarti insieme a tutti i suoi nemici.
Poi per la mancanza di originalità e di seduzione che caratterizza tutte le sue risposte. A mio parere, in un’intervista, non sono le domande che contano ma le risposte.
Se una persona ha talento, puoi chiederle la cosa più banale del mondo: ti risponderà sempre in modo brillante o profondo. Se una persona è mediocre, puoi porle la domanda più acuta del mondo: ti risponderà sempre in modo mediocre.
Se poi tale legge la applichi a un uomo combattuto tra il calcolo e la passione, guarda: dopo averlo ascoltato, non ti resta in mano che un pugno di mosche.
Con Arafat mi trovai proprio con un pugno di mosche. Egli reagì quasi sempre con discorsi allusivi o evasivi, giri di frase che non contenevano nulla fuorché la sua intransigenza retorica, il suo costante timore di non persuadermi. E nessuna volontà di considerare, sia pure in un gioco dialettico, il punto di vista altrui.
Né basta osservare come l’incontro tra un arabo che crede alla guerra e un’europea che non ci crede più sia un incontro immensamente difficile. Anche perché quest’ultima resta imbevuta del suo cristianesimo, del suo odio per l’odio, e l’altro invece resta infagottato dentro la sua legge dell’occhio-per-occhio-dente-per-dente: epitome di ogni orgoglio.
Ma v’è un punto in cui tale orgoglio fa difetto, ed è laddove Yassir Arafat invoca la comprensione altrui o pretende di trascinare dentro la sua barricata chi è sconvolto dai dubbi.
Interessarsi alla sua causa, ammetterne la fondamentale giustizia, criticarne i punti deboli e rischiare quindi la propria incolumità fisica e morale, non è cosa che a lui basti. A ciò reagisce anzi con l’arroganza che ho detto, l’alterigia più ingiustificata, e quell’inclinazione assurda ad attaccar lite su ogni parola, suppongo.
E ciascuno di quei novanta minuti mi lasciò insoddisfatta sia sul piano umano che intellettuale o politico.
Mi divertì però scoprire che gli occhiali neri non li porta anche di sera perché sono occhiali da vista. Li porta per farsi notare. Infatti, sia di giorno che di notte, ci vede benissimo. Coi paraocchi ma benissimo.
Non ha fatto anche carriera negli ultimi anni? Non s’è fatto eleggere capo di tutta la resistenza palestinese e non se ne va in giro come un capo di Stato? Non pretende nemmeno più d’esser chiamato Abu Ammar.
ORIANA FALLACI. Abu Ammar, si parla tanto di lei ma non si sa quasi nulla di lei e…
YASSIR ARAFAT. Di me c’è solo da dire che sono un umile combattente palestinese. Da molto tempo. Lo divenni nel 1947, insieme a tutta la mia famiglia. Sì, fu quell’anno che la mia coscienza si svegliò e compresi quale barbara invasione fosse avvenuta nel mio paese. Mai una simile nella storia del mondo.
Quanti anni aveva, Abu Ammar? Glielo chiedo perché la sua età è controversa.
Niente domande personali.
Abu Ammar, le sto chiedendo esclusivamente quanti anni ha. Lei non è una donna. Può dirmelo.
Ho detto: niente domande personali.
Abu Ammar, se non vuole nemmeno dire l’età, perché si espone sempre all’attenzione del mondo e permette che il mondo guardi a lei come al capo della resistenza palestinese?
Ma io non ne sono il capo! Non voglio esserlo! Veramente, lo giuro. Io sono appena un membro del comitato centrale, uno dei tanti, e per precisione quello cui è stato ordinato di fare il portavoce. Cioè di riferire cosa decidono altri. È un grosso equivoco considerarmi il capo: la resistenza palestinese non ha un capo. Noi tentiamo infatti di applicare il concetto della guida collettiva e la cosa presenta difficoltà, ovvio, ma noi insistiamo poiché riteniamo indispensabile non affidare a uno solo la responsabilità e il prestigio. È un concetto moderno e serve a non recar torto alle masse che combattono, ai fratelli che muoiono. Se muoio, le sue curiosità saranno esaudite: lei saprà tutto di me. Fino a quel momento, no.
Non direi che i suoi compagni vogliano permettersi il lusso di lasciarla morire, Abu Ammar. E, a giudicare dalla sua guardia del corpo, direi che la ritengano molto più utile se resta vivo.
No. È probabile invece che io sia molto più utile da morto che da vivo. Eh, sì: la mia morte servirebbe molto alla causa, come incentivo. Aggiungerò anzi che io ho molte probabilità di morire: potrebbe accadere stanotte, domani. Se muoio, non è una tragedia: un altro andrà in giro pel mondo a rappresentare Al Fatah, un altro dirigerà le battaglie… Sono più che pronto a morire. Per la mia sicurezza non ho la cura che lei crede.
Capisco. D’altra parte, le linee per recarsi in Israele ogni tanto le passa anche lei: vero, Abu Ammar? Gli israeliani danno per certo che lei sia entrato in Israele due volte, sfuggendo alle loro imboscate. Ed aggiungono: chi riesce a far questo dev’essere assai furbo.
Ciò che lei chiama Israele è casa mia. Quindi non ero in Israele ma a casa mia: con tutto il diritto di andare a casa mia. Sì, ci sono stato, ma molto più spesso che due volte sole. Ci vado continuamente, ci vado quando voglio. Certo, esercitare questo diritto è abbastanza difficile: le loro mitraglie sono sempre pronte. Però è meno difficile di quanto essi credano: dipende dalle circostanze, dai punti che si scelgono. È necessaria scaltrezza, in ciò hanno ragione. Non a caso quei viaggi noi li chiamiamo «viaggi della volpe». Però li informi pure che quei viaggi i nostri ragazzi, i fedayn, li compiono quotidianamente. E non sempre per attaccare il nemico. Li abituiamo a passare le linee per conoscere la loro terra, per muovercisi dentro con disinvoltura. Spesso arriviamo, perché ciò l’ho fatto, fino alla striscia di Gaza e fino al deserto del Sinai. Portiamo anche le armi fin là. I combattenti di Gaza non ricevono mica le armi dal mare: le ricevono da noi, da qui.
Abu Ammar, quanto durerà tutto questo? Quanto a lungo potrete resistere?
Simili calcoli noi non ce li poniamo nemmeno. Siamo soltanto all’inizio di questa guerra. Incominciamo solo ora a prepararci per quella che sarà una lunga, lunghissima guerra. Certo una guerra destinata a prolungarsi per generazioni. Né siamo la prima generazione che combatte: il mondo non sa o dimentica che negli anni Venti i nostri padri combattevano già l’invasore sionista. Erano deboli, allora, perché troppo soli contro avversari troppo forti e sostenuti dagli inglesi, dagli americani, dagli imperialisti della terra. Ma noi siamo forti: dal gennaio 1965, cioè dal giorno in cui nacque Al Fatah, siamo un avversario pericolosissimo per Israele. I fedayn stanno acquistando esperienza, stanno moltiplicando i loro attacchi e migliorando la loro guerriglia: il loro numero aumenta precipitosamente. Lei chiede quanto potremo resistere: la domanda è sbagliata. Lei deve chiedere quanto potranno resistere gli israeliani. Giacché non ci fermeremo mai fino a quando non saremo tornati a casa nostra e avremo distrutto Israele. L’unità del mondo arabo renderà questo possibile.
Abu Ammar, voi invocate sempre l’unità del mondo arabo. Ma sapete benissimo che non tutti gli Stati arabi sono disposti a entrare in guerra per la Palestina e che, per quelli già in guerra, un accordo pacifico è possibile, anzi augurabile. Lo ha detto perfino Nasser. Se tale accordo avverrà, come auspica anche la Russia, voi cosa farete?
Non lo accetteremo. Mai! Continueremo a far guerra a Israele da soli, finché non riavremo la Palestina. La fine di Israele è lo scopo della nostra lotta, ed essa non ammette né compromessi né mediazioni. I punti di questa lotta, che piacciano o non piacciano ai nostri amici, resteranno sempre fissati nei princìpi che enumerammo nel 1965 con la creazione di Al Fatah. Primo: la violenza rivoluzionaria è il solo sistema per liberare la terra dei nostri padri; secondo: lo scopo di questa violenza è di liquidare il sionismo in tutte le sue forme politiche, economiche, militari, e cacciarlo per sempre dalla Palestina; terzo: la nostra azione rivoluzionaria dev’essere indipendente da qualsiasi controllo di partito o di Stato; quarto: questa azione sarà di lunga durata. Conosciamo le intenzioni di alcuni capi arabi: risolvere il conflitto con un accordo pacifico. Quando questo accadrà, ci opporremo.
Conclusione: voi non volete affatto la pace che tutti auspicano.
No! Non vogliamo la pace. Vogliamo la guerra, la vittoria. La pace per noi significa distruzione di Israele e nient’altro. Ciò che voi chiamate pace, è pace per Israele e gli imperialisti. Per noi è ingiustizia e vergogna. Combatteremo fino alla vittoria. Decine di anni se necessario, generazioni.
Siamo pratici, Abu Ammar: quasi tutte le basi dei fedayn sono in Giordania, altre sono in Libano. Il Libano non ha molta voglia di fare la guerra e la Giordania ha una gran voglia di uscirne. Ammettiamo che questi due paesi, decisi a un accordo pacifico, decidano di impedirvi gli attacchi a Israele. In altre parole, impediscano ai guerriglieri di fare i guerriglieri. È già successo e succederà di nuovo. Di fronte a ciò cosa fate? Dichiarate guerra anche alla Giordania e al Libano?
Noi non possiamo combattere sulla base dei “se”. È diritto di ogni Stato arabo decidere ciò che vuole, compreso un accordo pacifico con Israele; è nostro diritto voler tornare a casa senza compromessi. Tra gli Stati arabi, alcuni sono incondizionatamente con noi. Altri no. Ma il rischio di restare soli a combattere Israele è un rischio che avevamo previsto. Basti pensare agli insulti che ci hanno buttato addosso all’inizio: siamo stati così maltrattati che ormai ai maltrattamenti non ci facciamo più caso. La nostra stessa formazione, voglio dire, è un miracolo: la candela che si accese nel 1965 brillò nel buio più nero. Ma ora siamo molte candele, e illuminiamo l’intera nazione araba. E al di là della nazione araba.
Questa è una risposta molto poetica e molto diplomatica, ma non è la risposta a ciò che le ho chiesto, Abu Ammar. Io ho chiesto: se la Giordania non vi vuole davvero più, dichiarate guerra alla Giordania?
Io sono un militare, e un capo militare. Come tale devo tenere i miei segreti: non sarò io a rivelarle i nostri futuri campi di battaglia. Se lo facessi, Al Fatah mi manderebbe alla corte marziale. Perciò tragga le sue conclusioni da ciò che ho detto prima. Io le ho detto che continueremo fino in fondo la marcia per la liberazione della Palestina, che ciò piaccia o non piaccia ai paesi in cui ci troviamo. Ci troviamo in Palestina anche ora.
Ci troviamo in Giordania, Abu Ammar. E le domando: ma cosa significa Palestina? La stessa identità nazionale della Palestina s’è persa col tempo, e anche i suoi confini geografici si sono persi. C’erano i turchi, qui, prima del mandato britannico e di Israele. Quali sono dunque i confini geografici della Palestina?
Noi non ci poniamo il problema dei confini. Nella nostra costituzione non si parla dei confini perché a porre i confini furono i colonialisti occidentali che ci invasero dopo i turchi. Da un punto di vista arabo, non si può parlare di confini: la Palestina è un piccolo punto nel grande oceano arabo. E la nostra nazione è quella araba, è una nazione che va dall’Atlantico al Mar Rosso e oltre. Ciò che vogliamo da quando la catastrofe esplose nel 1947 è liberare la nostra terra e ricostruire lo Stato democratico palestinese.
Ma quando si parla di uno Stato bisogna pur dire entro quali limiti geografici si forma o si formerà questo Stato! Abu Ammar, le chiedo di nuovo: quali sono i confini geografici della Palestina?
Come fatto indicativo possiamo decidere che i confini della Palestina siano quelli stabiliti al tempo del mandato britannico. Se prendiamo l’accordo franco-inglese del 1918, Palestina significa il territorio che va da Naqurah, al nord, fino ad Akaba al sud e, poi, dalla costa del Mediterraneo che include la striscia di Gaza fino al fiume Giordano e al deserto del Negev.
Ho capito. Ma questo include anche un bel pezzo di terra che oggi fa parte della Giordania: cioè tutta la regione a est del Giordano. La Cisgiordania.
Sì. Ma i confini non hanno importanza, ripeto. Ha importanza l’unità araba e basta.
I confini hanno importanza se toccano od oltrepassano il territorio di un paese che esiste già, come la Giordania.
Ciò che lei chiama Cisgiordania è Palestina.
Abu Ammar, come è possibile parlare di unità araba se fin da ora si pongono simili problemi con alcuni paesi arabi? Non solo, quando neanche tra voi palestinesi andate d’accordo? Esiste una gran divisione perfino tra voi di Al Fatah e gli altri movimenti. Ad esempio col Fronte Popolare.
Ogni rivoluzione ha i suoi problemi privati. Anche nella rivoluzione algerina c’era più di un movimento e, ch’io sappia, anche in Europa durante la resistenza ai nazisti. Nello stesso Vietnam esistono più movimenti, i vietcong non sono che la stragrande maggioranza come noi di Al Fatah. Ma noi di Al Fatah raccogliamo il 97 per cento dei combattenti e siamo quelli che conducono la lotta all’interno del territorio occupato. Non a caso, quando decise la distruzione del villaggio di El Heul, e minò duecentodiciotto case a scopo punitivo, Moshe Dayan disse: «Bisogna chiarire chi controlla questo villaggio, se noi o Al Fatah». Citò Al Fatah, non il Fronte Popolare. Il Fronte Popolare… Nel febbraio del 1969 il Fronte Popolare si è scisso in cinque parti e quattro di esse sono già entrate a far parte di Al Fatah: lentamente, quindi, ci stiamo unendo. E se George Habash, il capo del Fronte Popolare, non è oggi con noi, si unirà presto a noi. Glielo abbiamo già chiesto: in fondo non c’è differenza di obiettivi tra noi e il Fronte Popolare.
Il Fronte Popolare è comunista. Voi dite di non esserlo per costituzione.
Tra noi vi sono combattenti di tutte le idee: li avrà incontrati. Quindi tra noi c’è posto anche per il Fronte Popolare. Dal Fronte Popolare ci distinguono solo alcuni sistemi di lotta. Infatti noi di Al Fatah non abbiamo mai dirottato un aereo e non abbiamo mai fatto esplodere bombe o causato sparatorie in altri paesi. Preferiamo condurre una lotta puramente militare. Ciò non significa, tuttavia, che al sistema dei sabotaggi non si ricorra anche noi: dentro la Palestina che lei chiama Israele. Ad esempio siamo quasi sempre noi che facciamo scoppiare le bombe a Tel Aviv, a Gerusalemme, a Eilat.
Ciò coinvolge i civili, però. Non è una lotta puramente militare.
Lo è! Perché, civili o militari, sono tutti ugualmente colpevoli di voler distruggere il nostro popolo. Sedicimila palestinesi sono stati arrestati perché aiutavano i nostri commandos, ottomila case di palestinesi sono state distrutte, senza contare le torture cui vengono sottoposti i nostri fratelli nelle loro prigioni, e i bombardamenti al napalm sulla popolazione inerme. Noi facciamo certe operazioni, chiamate sabotaggi, per dimostrargli che siamo capaci di tenerli in mano con gli stessi sistemi. Ciò colpisce inevitabilmente i civili, ma i civili sono i primi complici della banda che governa Israele. Perché se i civili non approvano i sistemi della banda al potere, non hanno che dimostrarlo. Lo sappiamo benissimo che molti non approvano. Quelli ad esempio che abitavano in Palestina prima dell’emigrazione ebrea, e anche alcuni tra quelli che emigrarono con la precisa intenzione di rubarci le terre. Perché ci vennero da innocenti, con la speranza di scordare le antiche sofferenze. Gli avevano promesso il Paradiso, qui nella nostra terra, e loro vennero a pigliarsi il Paradiso. Troppo tardi si accorsero che era invece l’inferno: sapesse quanti di loro ora voglion fuggire da Israele. Dovrebbe vedere le domande di espatrio che giacciono presso l’ambasciata del Canada a Tel Aviv, o presso l’ambasciata degli Stati Uniti. Migliaia.
Abu Ammar, lei non mi risponde mai direttamente. Ma stavolta deve farlo: cosa pensa di Moshe Dayan?
È una domanda molto imbarazzante. Come rispondervi? Diciamo così: io spero che un giorno egli sia giudicato come criminale di guerra: sia che si tratti di un leader geniale sia che la patente di leader geniale se la sia attribuita da sé.
Abu Ammar, mi par d’aver letto che gli israeliani la rispettino più di quanto lei li rispetti. Domanda: è capace di rispettare i suoi nemici?
Come combattenti, anzi come strateghi… qualche volta sì. Bisogna ammettere che alcune delle loro tattiche di guerra sono rispettabili, intelligenti. Ma come persone, no: perché si comportano sempre da barbari, in essi non c’è mai un goccio di umanità. Si parla spesso delle loro vittorie, io ho le mie idee sulla loro vittoria del 1967 e su quella del 1956. Quella del 1956 non dovrebbe neanche esser chiamata vittoria, quell’anno essi fecero solo da coda agli aggressori francesi e inglesi. E vinsero con l’aiuto degli americani. Quanto alla vittoria del 1967, essa si deve all’aiuto degli americani. Il denaro viene elargito senza controllo dagli americani a Israele. E oltre al denaro vengono loro elargite le armi più potenti, la tecnologia più avanzata. Il meglio che gli israeliani posseggono viene da fuori: questa storia delle meraviglie che essi avrebbero compiuto nel nostro paese va ridimensionata con più senso della realtà. Noi conosciamo bene quale sia e quale non sia la ricchezza della Palestina: più di tanto non si ricava dalla nostra terra, dal deserto non si fanno i giardini. Quindi la maggior parte di ciò che posseggono viene da fuori. E dalla tecnologia che viene loro fornita dagli imperialisti.
Siamo onesti, Abu Ammar: della tecnologia essi hanno fatto e fanno buon uso. E, come militari, se la cavano bene.
Non hanno mai vinto pei loro lati positivi, hanno sempre vinto pei lati negativi degli arabi.
Anche questo rientra nel gioco della guerra, Abu Ammar. Del resto hanno vinto anche perché sono bravi soldati.
No! No! No! Non lo sono, no! Corpo a corpo, faccia a faccia, non sono neanche soldati. Hanno troppa paura di morire, non dimostrano alcun coraggio. Così accadde nella battaglia di Karameh e così accadde l’altro giorno nella battaglia di El Safin. Passate le linee, piombarono con quaranta carri armati su Wadi Fifa, con dieci carri armati su Wadi Abata, con dieci carri armati e venti jeep con mitraglie da 106 su Khirbet el Disseh. Fecero precedere l’avanzata da un pesante bombardamento di artiglieria e dopo dieci ore fecero intervenire gli aerei che bombardarono indiscriminatamente tutta la zona, poi gli elicotteri che lanciarono missili sulle nostre postazioni. Il loro obiettivo era raggiungere la vallata di El Nmeiri. Non la raggiunsero mai, dopo una battaglia di venticinque ore li ricacciammo al di là delle linee. Sa perché? Perché usammo più coraggio di loro. Li circondammo, li prendemmo alle spalle coi nostri fucili, coi nostri bazooka: faccia a faccia, senza paura di morire. È sempre la solita storia con gli israeliani: attaccano bene con gli aerei perché sanno che non abbiamo aerei, coi carri armati perché sanno che non abbiamo carri armati, ma quando trovano una resistenza faccia a faccia non rischiano più. Scappano. E cosa vale un soldato che non rischia, che scappa?
Abu Ammar, che ne dice delle operazioni effettuate dai loro commandos? Ad esempio quando i loro commandos vanno in Egitto a smontarsi un radar per portarselo via? Un po’ di coraggio ci vuole per simili imprese.
No, non ci vuole. Perché cercano sempre obiettivi molto deboli, molto facili. È la loro tattica che, ripeto, è sempre intelligente però mai coraggiosa in quanto consiste nell’impiegare forze enormi in un’impresa della cui riuscita sono sicuri al cento per cento. Non si muovono mai se non sono certi che andrà tutto benissimo e, se li cogli di sorpresa, non s’impegnano mai fino in fondo. Tutte le volte che hanno attaccato in forze i fedayn, gli israeliani sono stati sconfitti. Con noi i loro commandos non passano.
Con voi forse no, ma con gli egiziani sì.
Ciò che fanno in Egitto non è un’azione militare, è una guerra psicologica. L’Egitto resta il loro nemico più forte, quindi essi cercano di demoralizzarlo e di svalutarlo attraverso una guerra psicologica messa su dalla stampa sionista con l’aiuto della stampa internazionale. Il loro gioco consiste nel propagandare un’azione esagerandola. Ci cadono tutti perché posseggono un ufficio-stampa poderoso. Noi non abbiamo alcun ufficio-stampa, nessuno sa cosa fanno i nostri commandos, le nostre vittorie passano inosservate perché ci mancano i telex per trasmettere la notizia ai giornali che del resto non la pubblicherebbero. Così nessuno sa, ad esempio, che lo stesso giorno in cui gli israeliani rubarono il radar agli egiziani noi entrammo in una base israeliana e gli portammo via cinque grossi razzi.
Io non parlavo di voi, parlavo degli egiziani.
Non c’è differenza fra palestinesi ed egiziani. Entrambi facciamo parte della nazione araba.
Questa è una battuta molto generosa da parte sua, Abu Ammar. Soprattutto considerando che la sua famiglia fu espropriata proprio dagli egiziani.
La mia famiglia fu espropriata da Faruk, non da Nasser. Conosco bene gli egiziani perché in Egitto ho fatto l’università e con l’esercito egiziano ho combattuto nel 1951, nel 1952, nel 1956. Sono bravi soldati e sono miei fratelli.
Torniamo agli israeliani, Abu Ammar. Lei dice che con voi subiscono sempre immense perdite. Quanti israeliani pensa che siano stati uccisi, a tutt’oggi, da voi?
Una cifra esatta io non posso dargliela ma gli israeliani hanno confessato d’aver perso, nella guerra contro i fedayn, una percentuale di uomini che è superiore a quella degli americani in Vietnam: in rapporto, s’intende, alla popolazione dei due paesi. Ed è indicativo che, dopo la guerra del 1967, i loro morti in incidenti automobilistici si siano decuplicati. Insomma, dopo una battaglia o uno scontro con noi, si viene a sapere che un mucchio di israeliani sono morti in automobile. Tale osservazione è stata fatta dagli stessi giornali israeliani perché è noto che i generali israeliani non ammettono mai di perdere uomini al fronte. Però posso dirle che, stando alle statistiche americane, nella battaglia di Karameh essi persero 1.247 uomini tra morti e feriti.
Anche il prezzo che pagate voi è altrettanto pesante?
Le perdite per noi non contano, a noi non importa di morire. Comunque, dal 1965 a oggi, abbiamo avuto un po’ più di novecento morti. Però bisogna considerare anche i seimila civili morti nelle incursioni aeree e i nostri fratelli morti in prigione sotto le torture.
Novecento morti possono essere molti e pochi: dipende dal numero dei combattenti. Quanti sono i fedayn in tutto?
Per dirle questa cifra io dovrei chiedere il permesso del Consiglio militare, e non credo che tal permesso lo avrei. Però posso dirle che a Karameh noi eravamo solo 392 contro 15.000 israeliani.
Quindicimila? Abu Ammar, lei vuol dire forse millecinquecento.
No! No! No! Ho detto quindicimila, quindicimila! Inclusi, s’intende, i soldati impegnati con l’artiglieria pesante, i carri armati, gli aerei, gli elicotteri, e i paracadutisti. Solo come truppa essi avevano quattro compagnie e due brigate. Ciò che diciamo noi non viene mai creduto da voi occidentali, voi ascoltate loro e basta, credete a loro e basta, riferite ciò che dicono loro e basta!
Abu Ammar, lei non è un uomo giusto. Io sono qui e sto ascoltando lei. E dopo questa intervista riferirò parola per parola ciò che mi ha detto lei.
Voi europei siete sempre per loro. Forse qualcuno di voi incomincia a capirci: è nell’aria, si annusa. Ma in sostanza restate per loro.
Questa è la vostra guerra, Abu Ammar, non è la nostra. E in questa vostra guerra noi non siamo che spettatori. Ma anche come spettatori lei non può chiederci d’essere contro gli ebrei e non deve stupirsi se in Europa, spesso, si vuol bene agli ebrei. Li abbiamo visti perseguitare, li abbiamo perseguitati. Non vogliamo che ciò si ripeta.
Già, voi dovete pagare i vostri conti con loro. E volete pagarli col nostro sangue, con la nostra terra, anziché col vostro sangue, con la vostra terra. Continuate a ignorare perfino che noi non abbiamo nulla contro gli ebrei, noi ce l’abbiamo con gli israeliani. Gli ebrei saranno i benvenuti nello Stato democratico palestinese: gli offriremo la scelta di restare in Palestina, quando il momento verrà.
Abu Ammar, ma gli israeliani sono ebrei. Non tutti gli ebrei si possono identificare con Israele ma Israele non si può non identificare con gli ebrei. E non si può pretendere che gli ebrei di Israele vadano un’altra volta a zonzo per il mondo onde finire nei campi di sterminio. È irragionevole.
Così, a zonzo per il mondo volete mandarci noi.
No. Non vogliamo mandarci nessuno. Tanto meno voi.
Però a zonzo ci siamo noi, ora. E se ci tenete tanto a dare una patria agli ebrei, dategli la vostra: avete un mucchio di terra in Europa, in America. Non pretendete di dargli la nostra. Su questa terra noi ci abbiamo vissuto per secoli e secoli, non la cederemo per pagare i vostri debiti. State commettendo uno sbaglio anche da un punto di vista umano. Com’è possibile che gli europei non se ne rendano conto pur essendo gente così civilizzata, così progredita, e più progredita forse che in qualsiasi altro continente? Eppure anche voi avete combattuto guerre di liberazione, basta pensare al vostro Risorgimento. Il vostro errore perciò è volontario. L’ignoranza sulla Palestina non è ammessa perché la Palestina la conoscete bene: ci avete mandato i vostri Crociati ed è un paese sotto i vostri occhi. Non è l’Amazzonia. Io credo che un giorno la vostra coscienza si sveglierà. Ma fino a quel giorno è meglio non vederci.
Per questo, Abu Ammar, lei porta sempre gli occhiali neri?
No. Li porto per non far capire se dormo o son sveglio. Ma, detto fra noi, io sono sempre sveglio dietro i miei occhiali. Dormo solo quando me li tolgo, e dormo pochissimo. Niente domande personali, avevo detto.
Solo una, Abu Ammar. Lei non è sposato e non si conoscono donne nella sua vita. Vuol fare come Ho Ci-min o l’idea di vivere accanto a una donna le ripugna?
Ho Ci-min… No, diciamo che non ho mai trovato la donna giusta. E ora non c’è più tempo. Ho sposato una donna che si chiama Palestina.
(stralcio dal libro "Intervista con la storia" - pubblicato nel sito Alberto Soave wordpress.com)
sabato 16 agosto 2025
Davide Currao (Pont-Raits). Liberi d’immaginare anche quello che l'artista non ha avuto il tempo di mostrare
Sono Fiera di te!!
Una intelligente voce fuori dal coro.
I tuoi ritratti mi hanno colpito per la loro profondità e intensità: Grazie Davide.
Non ti conoscevo, ma grazie alla tua arte mi sembra di conoscerti. Buon viaggio. Grazie per il patrimonio lasciato.
È una mostra bellissima. Le foto sono così belle che le potrei guardare tutto il giorno.
Ciao! Sono un fotoamatore. Premetto che il ritratto non è il mio genere. Trovo questi ritratti (non tutti) molto interessanti, diversi dai soliti ritratti statici. Bei colori e pose.
Notevolissimo.
Mi muovo in punta di piedi fra i ritratti di Davide: Mi guardano ed è uno sguardo sincero sul realismo della finzione e viceversa. E’ un divincolarsi nel circo del mondo, una presa di coscienza tra l’essere e l’apparire.
Davide … una grande luce.
Immerso nella tua fotografia!! Per un attimo non ho pensato nient’altro che alla capacità di ricreare momenti di vita dietro un obiettivo. Grazie! Ciao Davide.
LA PESANTEZZA DELLE NUVOLE.
Sono alcuni dei pensieri affissi sul muro al secondo giorno della mostra di Davide Currao. Mi piace evidenziare che il quinto messaggio era firmato da una bimba di cinque anni. Sono sicuro che moltissimi altri post it avranno ulteriormente arricchito i commenti dei visitatori e sono anche certo che gli organizzatori li avranno raccolti per farne buon uso.
Di questa mostra, che espone la selezione fra tante immagini di un’ampia produzione, ne hanno parlato in tanti. Anche io ne ho fatto cenno nel blog che curo e creato scrivere commenti sull’arte e principalment sulla fotografia.
Quando le opere esposte in una mostra d’arte colpiscono è utile rinviare la postproduzione. È quello che ho fatto io nel caso in questione. Per quanto mi riguarda, rivedere le stesse fotografie a distanza di tempo ha avvalorato ancora di più i contenuti e la qualità espositiva messa in campo dagli organizzatori.
Il conoscere pochi dei presenti all’inaugurazione mi ha consentito di osservare con maggiore attenzione le opere, anche se mi avevano catturato da subito. La cosa mi ha indotto a tornare, per documentare con una macchina fotografica migliore le foto esposte e poter meglio governare la luce e le dominanti presenti degli ambienti.
Nel procedere al riesame delle immagini si è rafforzata in me l’idea che ogni fotografia andava oltre l’apparenza e che ciascun osservatore poteva vederle a propriomodo.
Le singole opere evidenziavano come fossero frutto di un’unica regia, quella di Davide Currao, volta a catturare ogni volta con uno scatto il semplice risultato estetico, con la filigrana della personalità latente che tendeva a nascondersi davanti all’obiettivo. Catturando in modo preciso l’attimo fuggente attraverso una ipersensibilità intima, comune solo a pochi eletti. Sono anche certo che chi ha avuto modo di vederla di presenza non sarà rimasto indifferente.
Nelle variegate fotografie di Currao c’è di tutto: ironia, allegria, gioia, rabbia (per non fare un elenco si rimanda alle aggettivazioni raccolte nella pagina web Scuolissima che descrivono emozioni, sentimenti e stati d'animo)
Non so se gli organizzatori hanno oggi in mente di riproporre la mostra in altre sedi o, magari, realizzarne un libro. Nel caso potrebbe anche essere una buona idea, per esporre un esempio emblematico di come si può fare fotografia, mantenendosi all’ombra di riflettori. Un ottimo stimolo anche per tanti appassionati dell’arte fotografica interessata a vedere esposte delle belle cose.
Per chiudere, Davide Currao è un altro nome che si aggiunge all’elenco degli artisti che hanno avuto la sventura di morire in giovane età, con ancora molti sospesi e progetti pensati ma ancora indefiniti. Una di quelle morti premature che ci lasciano, ma anche liberi d’immaginare quello che non hanno avuto il tempo di mostrarci attraverso il frutto del loro talento.
Un reportage della Mostra è visionabile su You Tube.
Buona luce a tutti!
© Essec
Buona luce a tutti!
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giovedì 14 agosto 2025
“Qultura” dominante, quella con la “Q” maiuscola. Un mio amico usava aggettivare spesso taluni “Gnuranti con la GNU maiuscola"
“La morte di Berengo Gardin, tutti i commenti, le pagine a lui e al suo lavoro dedicate, condividendo le sue fotografie – quasi tutte, con poche eccezioni – raccontano l’Italia dagli anni ’50 agli inizi di questo secolo. Con lui, anche altri celebrati maestri ci hanno consegnato un racconto unico di quegli anni. E poi? Dopo di loro? Raf, in una canzone, si chiedeva: «...Cosa resterà di questi anni ’80!». Io mi chiedo: cosa resterà, nella memoria, di questi anni in cui la fotografia – quel genere di fotografia – è stata annientata da assurde leggi sulla privacy, e da un’assenza assoluta di committenza, sempre più orientata verso il “concettuale”, verso il prodotto da galleria che vende ma che spesso non racconta. Resterà poco, e frammentato. È impossibile autoprodurre una mole di lavoro di quella portata per quei pochi che ancora portano avanti quel tipo di fotografia. In futuro, mi chiedo quale sarà la memoria. ...Cosa resterà di questi anni?”
È il testo condiviso che è stato scritto e postato in questi giorni su FB dall’amico Fotografo (con la F maiuscola) Giuseppe Gerbasi.
Un post che dovrebbe indurre almeno molti di noi, che abbiamo visto più primavere, a fare delle riflessioni e delle attente considerazioni sull’oggi, oltre che sul futuro degli abitanti del mondo che temporalmente ospita.
La cultura latita.
La poca che si intravede - e che a stento sopravvive, a prescindere dalle ideologie variegate - riesce ad avere pochi spazi, mentre la pochezza e il banale riescono ad esprimersi tronfi.
Nemmeno quanto accade nel panorama politico promette bene.
Una spregiudicatezza etica e morale diffusa, associata a una disarmante mediocrità dei soggetti preposti a coprire i vari ruoli ne costituiscono esempio. In molti casi sempre costituiti da personaggi forgiati come ex portaborse ma che, diversamente dal passato, per tanti motivi risulttano oggi privi di talento.
Tutto questo, come detto, non fa ben sperare.
Anche perchè chi potrebbe ancora orientare per raddrizzare la barra verso un cambiamento di rotta viene vissuto come ostacolo (il Grillo di Pinocchio) e, se avanti negli anni poi, senza alcun esame di merito, viene pure deriso e oscurato dai media come fosse un "coglione".
Il tutto al sempice scopo di “non distrarre" l'occasionale preposto (senza avventurarsi sul genere) che periodicaente viene cooptato per far da guidatore nel governo degli interessi di parte del momento.
Per riprendere quanto già citato in una illuminante metafora sui piccioni, richiamata nel commento a un recente articolo, si può ben affermare che sono ormai tanti, troppi, i figuri impettiti che svolazzano nelle scacchiere del nostro quotidiano; costituenti ormai nugoli di piccioni appesantiti, che per opulenze lascive spesso non sanno neanche volare, ma che scacazzano ovunque, organizzati in lobby e partiti.
Sentendosi, da impuniti, i padroni incontrastati del territorio, "legalmente" occupato con destrezza; tacitando, con il controllo indiretto dei media, possibili vere opposizioni o altri controllori istituzionali costantemente marchiati come inadeguati, di parte e mai imparziali.
Il post dell’amico Giuseppe, che rappresenta un epitaffio perfetto per la fotografia d’un tempo, può essere assunto oggi per profetizzare un futuro prossimo. Applicabile a ogni risvolto di vita sociale.
In questo caso, come considerazione sulle prospettive dell’avvenire prossimo, più che il famoso brano della canzone i RAF occorrerà convincersi con un: “POVERI NOI e coloro che veranno le prossime albe".
Buona luce a tutti!
© Essec
mercoledì 13 agosto 2025
Sinonimi & negazionismo: vari spunti per scelte consapevoli
Wikipedia indica il negazionismo come “una corrente pseudostorica e pseudoscientifica del revisionismo che consiste in un atteggiamento storico-politico che, a fini ideologici e politici, nega contro ogni evidenza l'accadimento di fenomeni storici accertati, ad esempio guerre, genocidi, pulizie etniche o crimini contro l'umanità.”
Per quanto possa valere, voler ricercare ancora un contraddittorio con il “piccione” citato nell’aneddoto dell’amica Raffaella (commento), ispirato dall’articolo sui cretini.
In tempi di avanzamento dilagante dello sciatto “trampismo”, della profonda crisi del pensiero liberale, delle confusioni nelle ideologie socialiste e di opportunismi centristi, un invito a leggere la serie di sinonimi sotto elencati – e si avrà tempo - prima di andare a riconfermare la propria ultima scelta di voto o, peggio, perpetuare l’assurda opzione astensionista, convinti che sia il risultato di una cosciente analisi politica.
Ipocrita: falso, bugiardo, impostore, insincero, menzognero, dissimulatore, simulatore, infido, conformista, perbenista, convenzionalista, fariseo, filisteo.
Incivile: barbaro, selvaggio, arretrato, primitivo.
Cinico: indifferente, freddo, sprezzante, scettico, impassibile, impudente.
Scorretto: sbagliato, inesatto, impreciso, errato, improprio, sconveniente, maleducato, irrispettoso, indiscreto, scortese, sgarbato, indelicato, incivile, grossolano, cafone, villano, disdicevole, disonesto, falso, sleale, immorale, licenzioso.
Disonesto: criminale, malavitoso, ingiusto, scorretto, sleale, malvagio, perfido, iniquo, canaglia, delinquente, farabutto, furfante, imbroglione, malfattore, malvivente, mascalzone, truffaldino, truffatore, ladro, profittatore.
Imbroglione: disonesto, impostore, truffatore, frodatore, avventuriero, briccone, lestofante.
Falso: bugiardo, ingannatore, commediante, ipocrita, simulatore, fraudolento, inattendibile, infondato, illusorio, ingannevole, non vero, finto, fasullo, contraffatto, falsificato, copiato, imitato, adulterato, sbagliato, errato, inesatto, erroneo, ipocrita, simulato, falsità, falsificazione, bugia, finzione, inganno, imbroglio, menzogna, frode, simulazione, copia, imitazione, contraffazione.
Prepotente: arrogante, autoritario, forte, violento, aggressivo, tirannico, dispotico, incontenibile, irresistibile, urgente, impellente, imperioso, ossessionante, sopraffattore, tiranno, despota, oppressore, dittatore, bruto, autocrate.
Fanatico: settario, fazioso, partigiano, esaltato, invasato, fissato, maniaco, appassionato, entusiasta, sostenitore, tifoso, esagitato, esasperato, eccitato, accanito, delirante, ammiratore.
Eretico: eterodosso, ateo, miscredente, infedele, blasfemo, sacrilego, bestemmiatore, profanatore, contestatore, dissidente, critico, ereticale.
Oscurantista: passatista, reazionario, conservatore, retrivo.
Dittatore: tiranno, despota, autocrate, autoritario, prevaricatore, usurpatore, soverchiatore, prepotente Subdolo: falso, sleale, ipocrita, ingannatore, viscido, doppio, ambiguo, equivoco, infido.
Mafioso: malavitoso, criminale, prepotente, arrogante, prevaricatore, aderente alla mafia, membro di una cosca.
Pezzi di merda: frammenti, scheggie, ritagli, scampoli, resti, avanzi, brandelli, cocci, morso, bocconi, tozzi, esemplari, passi, passaggi, escrementi animali.
Politici: arte del governo, scienza del governo, pratica del governo, pratica dell'amministrazione statale, affari pubblici, ragion di stato, metodo, sistema, approccio, procedimento, abilità, furbizia, astuzia, prudenza, accortezza, avvedutezza, elezioni politiche.
Potere: essere capace, essere in grado, avere la forza, avere la capacità, disporre dei mezzi, disporre della facoltà, reggere, sopportare, avere l'autorizzazione, avere il permesso, essere possibile, essere probabile, essere permesso, essere consentito, essere legale, essere lecito.
Buona luce a tutti!
© Essec
sabato 9 agosto 2025
Destra e Sinistra ..... chi ne ha voglia rifletta su peculiarità e differenze
Un sagace articolo datato di Walter Donegà, pubblicato nell’ottobre 2016, intitolato “Dona 7, 9, 10 euro al mese. Una forma riprovevole di pubblicità”, affrontava la questione in modo pungente.
L’autore riportava: “Ultimamente in televisione c’è una e vera e propria corsa alle raccolte fondi. Dona 7 euro al mese rilanciato da 9 euro al mese fino ai 10 euro al mese. In soldoni si tratta di vere e proprie donazioni in abbonamento, si sa quando si inizia ma non quando si finisce. Le associazioni che pubblicizzano queste campagne in TV sono numerose: Save The Children, Telethon, Sightsavers, eccetera eccetera.”
Aggiungeva: “Il format dello spot è praticamente uguale per tutti, dalle immagini al testo. Viene mostrato un bambino in condizioni precarie e una voce gioca sull’emozionalità dello spettatore invitandolo a donare 9 euro al mese.” Continuando precisava: “Io credo (o meglio voglio credere) che la maggior parte di queste associazioni sia animato da un vero spirito umanitario ma sono molte le domande che mi pongo.”
Per completezza invito a leggere l’intero testo proposto dal trentino Donegà, stabilmente inserito nel suo sito web che tra l’altro dice anche: “Sono stanco di essere visto come un limone da spremere e sono stanco di dovermi sentire in colpa per non cadere nel tranello della colpevolizzazione emozionale mediatica.”
La verità, quella vera, è che viviamo senza alcun dubbio in una società malata.
La confusione regna sovrana e richieste e proposte di solidrietà sociali sono oggi canalizzate e accomunate alle tante formule pubblicitarie consumistiche.
Per non parlare del fatto che queste tipologie di spot anticipano o seguono notiziari o talk che parlano di guerre, di morti di fame, di terzo mondi e di tante ingiustizie che porterebbero a domandarsi (come fa Donegà): “Ma poi in Tv oltre allo spot del povero Keyembe, passa lo spot del bambino italiano povero che non ha soldi per permettersi i giochi come quelli di mio figlio. Allora sarebbe giusto aiutare anche loro…e via così in un tunnel senza fine. Se cominci con uno per coerenza devi continuare.”
Personalmente anche io ebbi a scrivere del fenomeno nel 2018, soffermandomi particolarmente sulle donazioni ad associazioni e fondazioni varie (Finanziamenti alla politica “ancora poco trasparenti”. Con donazioni anonime ai singoli candidati tramite fondazioni).
Premesso, a scanso di equivoci ed evitando ogni qualunquismo, che le campagne di raccolta nascono quasi certamente da intenti benefici nobili e non c’è dubbio che denuncino in modo palese questioni serie, ci sono aspetti generali, inerenti all’etica (per gli aspetti denunciati da Donegà), alla politica e alla gestione delle risorse pubbliche.
Non ultimo, per il fatto che ovunque le tasse e le imposte costituiscono obblighi necessari e fondamentali in uno stato di diritto, atti a garantire l’assetto sociale di ogni comunità nei suoi variegati aspetti. Tra cui anche quelli necessari per assicurare quelle garanzie assistenziali/sanitarie reclamizzate negli spot.
E qui il tema diventa una questione di pura politica, perché entrano in gioco tanti aspetti.
Subentrano, ad esempio, il principio delle tassazioni progressive e quello della sana amministrazione volta anche alla distribuzione equa e proporzionale della ricchezza (ovviamente in rapporto a ruoli e competenze) che dovrebbero costituire i cardini base per qual si voglia tipologia di politica attuata.
A questo punto, il paradosso reale che affiora è forse l’ipocrisia diffusa nelle pseudo democrazie improntate su assetti burocratici oligarchici sempre più complessi, gradualmente corrotti, che mantengono discriminazioni e privilegi sociali spesso senza specifici meriti, se non discendenze o appartemenze a ceti.
Ne viene che la creazione e il mantenimento di paradisi fiscali, multinazionali e trust legalizzati, regole tributarie non trasparenti e una giustizia inefficiente, generano discriminanti di casta che rendono impraticabili efficienze amministrative e garanzie sulle necessità primarie universali.
Un’architettura sociale di neo feudalesimo vede così aggiungere ogni giorno anche pletore di congreghe fideistiche che costituiscono blocchi parassitari, magari esenti o con bonus rispetto ai doveri sociali rispetto ai comuni assoggettamenti ad obbligi e imposte.
Ed in questo s'insinuano anche potentati occulti. Ad esempio? Chi paga gli stipendi ai preti in Italia? Ovvero, Quanto grava annualmente la Chiesa Cattolica sul bilancio della spesa pubblica? Secondo uno studio dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR), la cifra ammonterebbe addirittura a sette miliardi di euro l’anno. Inoltre, tornando al mondo laico, da una recente rilevazione del Corriere della Sera si apprende che più della metà dei connazionali non paga tasse e non contribuisce a sostenere i servizi di un Paese dove gli interessi sul debito superano le spese per la scuola. Mentre intanto la politica continua a dare bonus per cercare consensi.
Come si può ben intuire e, in verità, sono tantissime le patologie sociali non affrontate in questo scritto su cui si potrebbe ampiamente disquisire. Che si manifestano subdole con metastasi invasive o veleni insapori e inodori che determinano lente assuefazioni passive in tutti noi esseri intelligenti ormai "intronati".
Di certo in questa torre di Babele di furbetti e d'ingiustizie dove, ad esempio a Milano, basta una Scia per aggirare regole edilizie e trasformare un edificio di due piani in grattacielo, forse non sono gli spot che perseguono "beneficenze in abbonamento" e "lasciti" il nucleo principale delle questioni.
In pochi sembrano ricordarsi - o vogliono ricordare agli altri - che l'esercizio del voto potrebbe ancora rivelarsi un'arma attiva per rimettere nella giusta rotta una navigazione chiaramente sbagliata.
Del resto si può veleggiare di bolina, poppa, o traverso, seguendo le tre principali andature della vela. Sostengono i marinai esperti che un'imbarcazione non può andare contro vento ma adeguarsi allo stato delle cose e, quando vuole risalire il vento, deve procede per bordi, creando un angolo con la direzione dello stesso vento. L'astenzionismo è un lusso o anche segno di stupidità ..... ma non giustifica poi i lamenti.
Buona luce a tutti!
© Essec
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La fotografia è in genere un documento, la testimonianza di un ricordo che raffigura spesso persone e luoghi, ma talvolta può anche costituire lo spunto per fantasticare un viaggio ovvero per inventare un racconto e leggere con la fantasia l’apparenza visiva. (cliccando sopra la foto è possibile visionare il volume)
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