"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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mercoledì 15 dicembre 2021

“Oggi ho imparato a volare” - Un racconto di Sura Bizzarri



Capita spesso di ritrovarsi ad ascoltare discorsi che in qualche modo attirano l’attenzione. Succede pure che talune menti, come quella della mia amica Sura, inconsciamente inneschino una sorta di elaboratore automatico che, già nell’ascolto, intanto immagina l’abbozzo di altre storie correlate.
Del resto a persone che hanno queste capacità basta poco per infarcire racconti che, per la ricchezza di particolari e l’intensità narrativa trasfusa, hanno tanti di quei connotati da renderli quasi storie verosimili, come fossero realmente accadute.
Narratori si nasce e chi ha in dono l’arte di saper raccontare, affastellando peraltro vicende con il proprio sentire, saprà sempre impreziosire con valori aggiunti anche cose semplici, per indurre a pensare.
Con il suo consenso e con l’aggiunta di foto di street art che mi piace abbinare, propongo di seguito questo suo ultimo bel racconto, che merita un’attenzione anche per i tanti messaggi nascosti, apparentemente messi in penombra, in secondo piano.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

“Oggi ho imparato a volare” - Un racconto di Sura Bizzarri

Mia nonna era nata in Ucraina all’inizio del secolo scorso. Da sempre la sua famiglia si occupava di cibo; una cucina e una stanza abbastanza grande con tavoli, sedie e finestre grossolane di tende ricamate. Un orto ben coltivato suddiviso in solchi e quadri che delimitavano le diverse colture, galline e conigli. Cucinavano per la gente, per lo più per i lavoratori delle miniere; piatti poveri ricavati dai prodotti del loro appezzamento.
Lei era ancora giovane quando scoppiò la guerra. E quando i tedeschi occuparono il suo ristorante obbligandola a cucinare per loro, lei e l’intera famiglia furono additati come collaborazionisti.
Olga, il cui giovane marito Piotr era partito per la guerra, allora si addentrò un giorno nella foresta con la figlia fra le braccia per non fare più ritorno.
Quante volte ho ascoltato la sua storia nella cucina nella quale lei si muoveva ancora sicura di sé, sebbene appesantita dall’età. Ed ogni volta saltava fuori un particolare in più a ricostruire un romanzo che mai era stato scritto.
Le sue mani nodose accarezzavano la mia testa mentre con i grossi incisivi addentavo il pane imburrato che lei mi aveva preparato. Il sapore del pane mi pareva antico, come se le sue mani avessero impastato il grano proveniente dalle steppe ucraine.
Ero piccola, la mia immaginazione si addentrava nei boschi muschiosi e freddi di cui lei mi parlava, gli occhi della mente percorrevano distese di betulle argentate per scorgere anfratti protetti nei quali la nonna e sua figlia avrebbero trascorso la notte.
Era ancora bella, mia nonna, gli occhi chiari aperti come una piazza sul mare, il viso pallido senza rughe, i capelli raccolti in un ricordo di femminilità.
Per un bimbo tutto è facile, la sua fiducia nelle parole degli adulti è completa e incondizionata. La fuga della nonna mi pareva un gioco fatto di belle passeggiate nei boschi e rifugi improvvisati sotto foglie morbide, sotto le stelle.
La nonna camminò tanto, fino a raggiungere la Polonia. E in quel periodo sospeso nel quale la sua esistenza si improvvisava giorno dopo giorno, lei incontrò un uomo. Tutti noi siamo naturalmente portati a vedere negli altri ciò che cerchiamo, ciò che abbiamo bisogno di trovare.
Mia nonna sapeva vedere nella gente solo cose belle, le era difficile ed estraneo individuare i difetti, le brutture e gli eccessi. Per di più, nei timori di una vita nomade e inventata con una bimba piccola sempre legata al petto, lei aveva bisogno di trovare un appoggio, di condividere con qualcuno la sua diaspora.
Nonna Olga vide in quell’uomo che conosceva appena l’uomo della sua vita. E a lui si appoggiò, senza mai pesare troppo, che questo aveva imparato dall’educazione ricevuta, con lui continuò il viaggio alla ricerca di una casa e di un lavoro.
Insieme a lui sopportò il freddo delle notti trascorse in capanne, in rifugi di fortuna e fu lui che sposò in una chiesa di campagna ancora prima di giungere a Cracovia.
I suoi bisogni erano tanti, la paura di non riuscire ad allevare la figlia la attanagliava. Non stette a farsi troppe domande quando in un sabato balenante di sole, fra le stoppie bruciate delle campagne, coi vestiti pesanti addosso e la bimba sempre stretta al petto in una fascia ormai logora e sdrucita, disse si all’uomo che sarebbe diventato mio nonno.
Una giovane coppia ed una bimba arrivarono in città, fra le mani non avevano niente, neanche abiti per cambiarsi ma erano disposti a fare qualsiasi cosa. Nonna cominciò a lavorare in un ristorante e nonno, carattere forte e irascibile, passò da un’occupazione all’altra prima di aprire con la moglie un piccolo ristorante subito fuori Cracovia. Acquistarono pagando in tante piccole rate un appezzamento di terreno con baracca annessa e lì aprirono il loro piccolo locale, misero, semplice, una cucina vecchia e logora che produceva ottimi piatti contadini, un locale chiaro e caldo dove mangiare era un piacere antico.
Olga lavorava sodo; accudiva gli animali, aveva le mucche da mungere ogni mattina e ogni sera. Lei cucinava, puliva, lavava al fiume, raccoglieva le verdure e amministrava la sua azienda. Perché quel ristorante, alla fin fine, era solo suo. Sua ogni incombenza, ogni problema, sua la responsabilità di onorare le rate che scadevano ogni mese.
Il nonno era l’uomo, il capo famiglia, il padrone di sua moglie e dei figli che continuava a farle partorire. Col tempo arrivarono ad averne otto; quelli più grandi facevano i genitori ai piccoli, mentre la nonna lavorava, scendeva al fiume e rincasava col fiatone, perché il pranzo doveva essere pronto, abbondante e ben servito, non un minuto di ritardo altrimenti il marito avrebbe preso la catena delle mucche e con questa le avrebbe sferzato le gambe, il busto, le braccia.
Lei si rifugiava nella forza prepotente della sua vita, aiutata da un vigore fisico senza uguali. E mentre le sue braccia lavoravano senza sosta la mente immaginava il futuro dei figli, a Cracovia, nella città della grande bellezza e il suo lavoro non era mai abbastanza per assicurare loro l’istruzione, abiti dignitosi e un amore carico di attenzioni per controbilanciare la grettezza del marito, la cui violenza si caricava dell’alcool trangugiato durante tutta la giornata.
Il sorriso di lei mai era una maschera, ma l’immagine concreta dell’istinto innato di voler trasformare la realtà. I suoi gesti non erano violenti, il suo corpo morbido era lo scudo che proteggeva i figli, perché le botte c’erano anche per loro. Jude, il cane di mio nonno, era diventato il suo alleato, perché era Olga che riconosceva come capobranco e da lei si rifugiava quando la violenza degli scarponi del nonno si abbatteva sulle sue zampe indebolite e tremanti. I gesti di nonna non erano forzati e la dedizione in ogni gesto, anche i più semplici, quelli di ogni giorno, erano la prova della volontà di cambiare la vita dei figli. Senza abbassare mai la guardia.
Ognuno ha il suo modo di reagire agli avvenimenti, ognuno ha una personale scala di valori e in nome di questi è disposto a lottare, fin quasi a soccombere. D’altronde la vita è un continuo esperimento, ogni fase superata preclude a quella successiva.
I dolori più grandi di nonna Olga non erano le botte ma la malinconia dei suoi figli, le umiliazioni che subivano per ogni nonnulla, l’insicurezza che li bloccava ogni volta che il babbo rientrava.
I loro sguardi rivolti alla mamma erano richieste di aiuto e lei li guidava con gli occhi, con i sorrisi di approvazione o con l’invito a scappare, comunicato col linguaggio del corpo e dei segni.
Ormai madre e figli erano organi di uno stesso corpo, correlati e collegati fino a formare una macchina di precisione, dotata di allarmi e segnali in codice.
Così lei gestiva l’errore di aver sposato un uomo che non conosceva, di essersi aggrappata alla prima scialuppa ed esserne salita a bordo senza conoscere l’equipaggio, la direzione, la meta definitiva. Ma Olga non era una perdente e, soprattutto, era disposta a tutto perché i suoi figli non diventassero tali.
Intanto la città cresceva e la prima figlia, ormai grande, lì si era trasferita non appena era riuscita a trovare un lavoro. Nonna stava invecchiando ma ancora riusciva a gestire il suo locale, che senza quello la vita sarebbe stata esclusivamente di proprietà del marito. E il marito continuava a bere e ad invecchiare a ritmo veloce. Il suo corpo si era screpolato, la pancia prominente di chi abusa dell’alcool, i denti sciupati, l’irascibilità sempre più livida contro un mondo nel quale non era mai riuscito ad entrare veramente, troppo concentrato sulla rabbia contro la vita, dalla quale prendeva sempre più le distanze.
Lei si era organizzata seguendo i ritmi dell’uomo che mai le era stato accanto; concentrava i momenti per i figli, per concedersi un attimo di tregua, per guardarsi intorno e riprendere fiato quando lui dormiva, nel primo pomeriggio e la sera presto, che la giornata di lui si concludeva subito dopo la cena. Certo, il calvario di convivere con un nemico era devastante ma, al contempo, le aveva insegnato il valore delle piccole cose, la gioia della normalità. Olga aveva imparato ad assaporare con un piacere speciale, di liberazione, i momenti che erano solo suoi.
Ricordo quando il sabato mattina la nonna e io salivamo sull’autobus per andare in città. Lei era fiera di avermi al suo fianco, ben vestita, le trecce inframezzate da un nastro rosso; la nostra gita seguiva riti ben precisi, il cappuccino e una pasta rigonfia di crema sempre nella stessa drogheria ed ogni volta, immancabilmente, andavamo nel negozio di scampoli. Pile di stoffe arrotolate su se stesse e scale semovibili per raggiungere gli scaffali più alti. Quelle stoffe erano il suo vizio, la sua conquista, l’esplosione liberatoria di esprimere la sua creatività, di pensare e progettare un’attività completamente sua.
Quel mondo incantato era diventato anche il mio. L’odore dei tessuti inamidati, i colori, le fantasie di ghirigori contorti ripetuti all’infinito, un territorio totalmente femminile e curato nei particolari. Quello era un mondo buono, non c’erano oggetti pericolosi, ferri, catene, lo sterco delle stalle e la fatica sempre dipinta sul volto sudato di nonna. Era un porto franco, un’isola di gentilezze femminili che non eravamo abituate a ricevere.
Ci concedevamo quella gita, quel momento solo nostro prima di rientrare nel livore di quell’uomo che non parlava mai, che entrava pesantemente e con ruvidità cattiva usava gli oggetti, per poi lanciarli contro il muro, che intorbidava l’aria, la stessa che eravamo costretti a condividere.
Fu in una tarda mattinata di festa, la nonna e io occupate con le nostre stoffe.
Lei non si fermava mai, non riuscivo a convincerla a starsene seduta. Mi preoccupavo, la vedevo stanca. Avevo superato la fanciullezza e cominciavo ad aver paura della vita. Diverse persone che ruotavano intorno alla nostra famiglia erano morte.
Alcune per vecchiaia, altre erano morte nonostante fossero ancora giovani, nonostante avessero figli da accudire, lavori da portare avanti, progetti appena iniziati. Il racconto della vita che scorreva nella mia testa aveva subito un disguido, c’era una evidente anomalia, un cortocircuito che andava oltre la mia comprensione e creava un disagio che mai avevo avvertito, ancora più penetrante della violenza del nonno.
Sentivo sempre più forte il bisogno di proteggere mia nonna, di regalarle quella spensieratezza che solo con me era tangibile, che le spianava le rughe sulla fronte.
Odiavo mio nonno, finalmente avevo trovato il coraggio di ammetterlo dentro me stessa.
E odiavo anche i suoi figli, quelli che come lui avevano cominciato a bere e ad assumere atteggiamenti violenti, scurrili, inconcepibili per una bimba in bilico fra la fanciullezza e l’adolescenza. Quei figli appartenevano solo a lui, mia nonna li aveva solo incubati ed espulsi. Non avevano con lei alcuna correlazione.
Quel giorno stavo porgendo a nonna Olga le tende da appendere alla finestra. Lei era in bilico sulla scala, protesa verso i vetri, abbagliata dal sole estivo, dai suoi potenti raggi obliqui.
Lui entrò con la violenza di sempre, aprendo la porta con un movimento esagerato, tutto era amplificato dalla sua incoerenza, dalla ferocia della sua infelicità, un tale comportamento non poteva esser dettato che da quello.
Il suo odore, già in un attimo, aveva saturato la stanza. Il sentimento che provavo era una intima nausea, l’incapacità di ribellarmi, di proteggere la persona che più amavo dalla smania cieca di un animale affamato. Entrambe eravamo sulle difensive, smettevamo di parlare, di sorridere; ogni nostra forma espressiva era da lui interpretata come un affronto.
Nella sua mentalità estrema ed estremista eravamo di sua proprietà e solo lui poteva concederci la facoltà di parlare, di ridere, di dedicarci l’una all’altra.
Non ricordo quale fu il motivo scatenante, quale nostro comportamento, sguardo di intesa, o semplicemente gesto di gentilezza dell’una verso l’altra scatenò il suo livore.
Già aveva bevuto, il nonno, nonostante il mattino fosse tutto da trascorrere. E già la sua mente contorta aveva individuato un nostro fallo, una nostra intenzione, il bagliore di un pensiero.
Sorpassò con noncuranza il cane che era entrato prima di lui, poi il suo passo pesante andò pericolosamente verso la scala e un calcio prepotente troncò le assi inferiori facendola barcollare.
La nonna cadde dall’alto, ancora non aveva fatto in tempo a posare la stoffa e scendere di qualche gradino. Rovinò sulle mezzane dure.
Ricordo la mia rabbia, l’urlo che mi uscì dalla gola, il desiderio prepotente di scagliarmi contro di lui, di cancellarlo per sempre dalla nostra vita.
Invece corsi da lei, ferma fra il tavolo e l’acquaio, incapace di muoversi e paralizzata dalla paura. La coprii col mio corpo, le baciai il viso e respirai il suo respiro concitato.
Attendemmo in terra, ferme, in silenzio, finché lui non si chiuse in camera. Solo all’arrivo di mia madre riuscimmo a muovere la nonna e chiamare aiuto.
Correndo fuori avrei voluto bruciare tutto, dimenticare quella casa che pure amavo, allontanarne mia nonna per sempre.
Tirai dietro la porta, intimai Jude a rimanere dentro, di guardia davanti alla porta di camera dove il nonno riposava.
Quello era il suo giaciglio abituale, serviva a lui per piantonare il nonno e a noi per essere avvisate della sua presenza.
Ma sbattere la porta non era abbastanza, dovevo porre una barriera fra lui e noi, dovevo isolare il nonno, renderlo inoffensivo. Chiusi a chiave dall’esterno e puntai un palo sotto la maniglia. In casa quella settimana non ci sarebbe stato nessuno; i figli fuori per lavoro o a studiare.
Nella mia mente stava nascendo un impulso che mai avevo conosciuto. La parte primordiale del cervello, quella più in ombra, si stava gonfiando di rabbia cattiva. La piccola Angelika si stava trasformando in un’eroina ribelle. La piccola Angelika avrebbe voluto ucciderlo, quel nonno che tanto dolore aveva portato nella sua vita. Perché lui aveva paralizzato ogni desiderio, ogni speranza, anche quella semplicissima di poter vivere una vita dignitosa.
Corsi forte, per raggiungere mia madre e dentro martellava un solo pensiero, così prepotente da sembrare reale, la stessa immagine si parava davanti ai miei occhi ad ogni battito del cuore. I piedi picchiavano forte sul terreno, il corpo risuonava di quell’onda pesante che dal suolo si ripercuoteva alle gambe e su, fino al petto, fino al cervello in fiamme.
Avevo mal di gola, tanto il respiro era affannoso e sparato fuori e risucchiato dentro. L’aria sembrava non essere sufficiente e la distanza pareva non finire mai. E dentro la mia testa io vedevo solo il volto paonazzo di mio nonno che scoppiava, colpito da un grosso bastone o dalla vanga che aveva nel tempo curvato la bella schiena dritta della nonna.
Ogni respiro un grido e la gola pulsava e si infiammava e gonfiava. Gli occhi colmi di lacrime quasi non vedevano più la strada e il naso colava fino sulle labbra, dentro la bocca socchiusa, sui vestiti scomposti dalla corsa convulsa.
Caddi diverse volte, i miei ginocchi di bimba cresciuta erano pieni di ghiaino che pizzicava sulla pelle scoperta, macinata dalla terra e aperta in diversi punti. Ero un piccolo mostro urlante che si barcamenava fra il desiderio di vendetta verso l’uomo che aveva condizionato la nostra esistenza e le preghiera perché la vita della nonna fosse risparmiata.
Non appena atterrai nel cortile di casa, come un uccello caduto in volo, mia madre mi abbracciò e mi baciò forte sui capelli, cercava di calmarmi ma le mie braccia quasi la picchiavano per svincolarsi da quella stretta e raggiungere l’ambulanza ancora ferma dove Olga taceva.
Fu un’infermiera a sorridermi e dalla nebbia di una rabbia che assomigliava alla pazzia capii che la nonna non era in pericolo. Saltai sul mezzo ancora fermo e le strinsi la mano. E lei mi lesse dentro.
Capitano talvolta momenti di lucidità estrema nei quali la comunicazione fra due persone molto vicine è una realtà che non ha bisogno di parole. O almeno, non è necessario pronunciarle.
Io e mia nonna in quella mattina di inizio estate ci dicemmo tutto in un attimo. Anni di sentimenti trattenuti, forse addirittura inconsapevoli erano diventati improvvisamente un disegno ben preciso.
Quelli che seguirono furono giorni di riscatto, giorni nei quali io e lei, in silenzio, cominciammo a progettare una nuova esistenza, come se fosse possibile ripartire da una pagina bianca.
I momenti straordinari sono sospesi e, in conseguenza di questo, forieri del nuovo che sta dopo di essi. Quante aspettative stavano dentro la nostra stretta di mano!
Solo quel gesto ci sembrava capace di innescare il cambiamento verso la normalità. In fondo solo ad essa aspiravamo e forse era giunto il momento di provare ad assaporarla.
Dalla nostra parte c’era l’ospedale, c’erano le forze dell’ordine e il racconto di tutto l’orrore che era stato, fino a quel momento. Ma c’era anche di più. C’era una intima consapevolezza che brillava nei miei occhi e in quelli di nonna Olga, ogni volta che si incontravano.
Avevamo capito che la nostra forza, se solo sommata, aveva il potere di moltiplicarsi. Che l’intransigenza del nonno avrebbe dovuto scontrarsi con la nostra intransigenza, uguale se non superiore alla sua. E sentivamo qualcosa che non sapevamo esprimere. Ma che sicuramente era patrimonio di entrambe.
Ci sono cose inspiegabili ma tangibili come i sassi lungo la strada, come la coda dei gatti, come l’esistenza delle montagne, delle distese di alberi, delle onde formidabili del mare che sbattono e deflagrano contro gli scogli. Il nodo che ci aveva trattenute dalla ribellione si stava sciogliendo.
Quello che per tanto era stato taciuto, seppure patrimonio dell’intero villaggio, soffiato dalle donne al mercato, spiato attraverso le tende di casa, ascoltato attraverso le pareti era venuto a galla in modo irrimediabile. E questo giocava a nostro favore. Al punto da farci dimenticare che il nonno era ancora chiuso in casa.
Non avevamo sporto denuncia; il ricovero in ospedale che aveva reso pubblica la nostra situazione era già di per sé un deterrente, l’idea che le violenze subite circolassero ormai liberamente sulla bocca di tutti ci faceva sentire più forti e lui, sempre più debole, chiuso in casa e in se stesso, solo e invecchiato prima del tempo.
Ma qualcosa di superiore, alla stregua di un giudizio divino, della forza livellatrice della natura era il sentimento che ci legava, che ci rendeva uniche in mezzo agli altri, perché partecipi dello stesso stato d’animo, della stessa certezza interiore. C’era uno stato di grazia particolare, fra me e lei, superiore a quello che da sempre ci aveva unite. E questa particolare condizione era visibile, perché ci illuminava, fortificava e saziava. Una serenità immotivata era scesa su di noi. E ci rendeva persino più belle.
Avendo toccato il punto più basso delle nostre relative esistenze davanti a noi si parava un deserto tutto da riempire.
Senza aspettative particolari, se non quelle dei bisogni minimali. E la forza livellatrice della natura, quella che ogni giorno sentivamo sempre più tangibile, stava lavorando effettivamente per i fatti suoi ma, indirettamente, anche nel nostro interesse.
E’ brutto da dirsi, è uno scempio dell’anima ammettere che il male altrui potesse non solo restarci indifferente, ma addirittura gratificarci.
Qualche giorno dopo l’incidente la mamma andò a casa di nonna Olga. Doveva prendere alcuni suoi oggetti perché alle dimissioni ospedaliere lei era venuta ad abitare momentaneamente da noi.
La porta era chiusa e dentro Jude mugolava tristemente. Un’onda forte di calore paralizzò la mano di mamma sulla maniglia. Il cane si agitava, guaiva, era rimasto prigioniero col nonno. E la porta non si apriva, qualcosa di pesante ostruiva dall’interno lo spazio sul pavimento.
Mia madre era una donna intelligente e non nuova agli atti dissoluti del nonno. Pensò che lui potesse essersi ubriacato ed essere caduto davanti alla porta. Cominciò a chiamarlo: “Babu babu”. Ma il silenzio era riempito solo dalle unghie di Jude che grattavano ferocemente la porta.
Ci vollero tanta forza e un piede di porco a contrasto nella fessura che non voleva allargarsi. Ma già da essa si vedeva tanto sangue e l’occhio del nonno fermo, opaco, velato. Indubitabilmente un occhio senza vita. Ci vollero due uomini per scardinare l’infisso e spingere e liberare l’accesso.
Ci volle tanta forza per poter passare e constatare che nonno era morto da tempo. E per capire che Jude, involontariamente, nel tentativo di liberarsi da quella prigione maleodorante aveva raspato, graffiato, scavato per giorni. Sul legno antico e resistente della porta e sul corpo che lì davanti stava disteso, grosso e pesante, ma non più forte e cattivo.
Jude era una maschera di sangue e il nonno era un impasto macilento scavato dalle unghie del cane e dalla sua testarda violenta intransigenza.
Fu con compostezza che mia madre aiutò gli uomini, lavò e ricompose il corpo di suo padre, ripulì Jude e calmò la sua paura. Lo portò a casa nostra ed evitando la retorica ci comunicò che il nonno era morto e la mattina successiva sarebbe andata in comune per i documenti necessari alla sepoltura.
Nessuno pianse, solo la malinconia degli appuntamenti con la vita, e la morte.
Nonna ed io ci stringemmo e avvinghiammo ancora più tenacemente allo stato d’animo che ci aveva tenute vive, avviate verso un futuro che sarebbe stato diverso. Per tutti.
Ci raccogliemmo in salotto, sul divanetto verde, il cane disteso sul tappeto tondeggiante a bearsi dei nostri sguardi senza paura.
Non ci furono particolari circa la morte del nonno. Semplicemente, lui non esisteva più. Solo una volta diventata grande mia madre mi raccontò la precisa dinamica dell’incidente. E anche allora, ingollai la notizia, senza una parola. Ognuna di esse, semmai le avessi pronunciate, sarebbe stata di troppo.
Preferii stringermi a nonna Olga, alle sue dita nodose ma ancora calde e buone e, mentre mi addormentavo, in quel momento in cui il presente comincia a svanire e ad intrecciarsi con le immagini della mente, pronunciai poche parole: “Oggi ho imparato a volare!”
Quella era la sensazione di leggerezza che provavo e che neanche la morte riusciva a incrinare.
Da quel giorno nessuno ha mai più pensato di picchiare me, o la nonna, che la nostra forza e il coraggio che avevamo acquisito eran più solidi di una montagna.
I suoi figli, gli uomini che ho incontrato, chiunque abbia provato rabbia nei miei confronti mai si è permesso di alzare le mani su di me. Non glielo avrei permesso. Si legge nei miei occhi.

© Sura Bizzarri

martedì 14 dicembre 2021

L'archivio mentale del fotoamatore



Tutte le belle fotografie che ciascuno di noi non è riuscito a scattare non rimarranno delle occasioni perse.
Le immagini fotografiche che abbiamo nettamente visto ma che, per vari motivi, non abbiamo fissato con un click, restano indelebili nella nostra mente.
Quasi sempre accade poi che la memoria le riporti a galla, in occasioni similari, e succede che una piccola luce si accende per avvertirci.
Per quanto mi riguarda, il non essere riuscito a cogliere l’attimo che l’intuizione prospettava non ha mai alimentato rammarichi.
L’indole fatalista, del resto, accetta l’insuccesso allo stesso modo di un evento possibile che rimane concretizzato dal “Fattore C”, che costituisce anch’esso parte integrante del processo.
Allora può anche capitare che, durante una lunga camminata con la tua mirrorless, alla ricerca di immagini, riesci ad avere la prontezza di cogliere l’immagine che hai prontamente letto in anticipo nella sua possibile evoluzione, come il vedere nettamente un risultato di una foto solo da scattare, semplicemente, perchè già pronta in compomenti e dettagli, e .... titubare fino a far sì che scemi naturalemtne quella scena (il mancato "cogli l'attimo").
Ma, come detto, tutto fa parte del gioco, dell’imprevisto e dell’imprevedibile, e - ancorché rimasta non immortalata - sai bene che anche quell’ultima immagine non è andata sprecata. Anche se non materialmente fruibile per poter essere mostrata: anche quello scatto rimane fissato in eterno nella mente del fotografo appassionato.
Tutto l’insieme di queste fotografie “apparentemente perse” costituiranno elementi della memoria visiva che accompagna ciascun amante della fotografia.
S’assoceranno anche queste a quelle che per noi sono le più belle foto che raccogliamo lentamente nel tempo, attraverso le visioni di mostre, gallerie, musei e soprattutto dai libri.
Tutti noi abbiamo delle predilezioni per le foto scattate dagli innumerevoli maestri che hanno saputo leggere e rappresentare le manifestazioni umane.
Le selezioni rappresentano per ciascuno gli esempi della grammatica e della sintassi prescelte per esprimerci e cercare di comunicare, tutto quello che costituisce il bagaglio del nostro lessico.
Sono le scelte che andremo a privilegiare per il modo di esprimerci, per manifestare le nostre caratteristiche di autore, per raccontare il nostro punto di vista, per esprimere il nostro pensiero al di là delle immagini e a prescindere da chi poi andrà a leggere le nostre personalissime produzioni.
Per quanto ovvio si sorvola su coloro che continueranno esclusivamente a cercare di copiare modelli non propri, che non potranno mai aggiungere nulla di nuovo a quanto è stato ampiamente detto.
Altro destino avrà riservato, con successo o non, ma poco importa per il nostro discorso, chi saprà leggere il solco tracciato da altri e magari, intuendone possibili risvolti, sarà in grado di sviluppare percorsi innovativi.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

martedì 23 novembre 2021

I tanti traguardi che ciascuno ripone nella maratona



Capita di ritrovarsi di pessimo umore, per una serie di accadimenti. In questi casi torna sempre utile cercare di trovare un’occasione, per distrarsi completamente dalla quotidianità temporaneamente non favorevole, e immergersi in qualcosa che possa coinvolgere positivamente.
E allora che c’è di meglio che andare a fotografare una maratona?
Domenica si è disputata per le strade cittadine la 26^ Maratona Città di Palermo, un evento tanto atteso dopo la sosta forzata del 2020 a causa della pandemia Covid 19. Quasi milletrecento atleti hanno invaso il persorso, con i soliti keniani che gareggiano con i loro motori turbo.
Dal 2009, con un variegato gruppo di amici, tutti accomunati dalla forte passione per la fotografia, abbiamo iniziato a documentare le varie fasi della manifestazione, dislocandoci nei vari punti del percorso per cercare di testimoniare un po’ lo spirito e gli splendidi luoghi del circuito di gara.
Ogni volta, secondo le proprie attitudini e caratteristiche, ciascun fotoamatore è sempre riuscito a cogliere gli aspetti particolari e talvolta spettacolari che caratterizzano le capacità atletiche, i momenti di goliardia, le crisi fisiche, le sofferenze per la durezza dello sforzo, le gioiosità anche per aver raggiunto solo il proprio traguardo personalizzato (ognuno ne ha uno proprio).
Ciascun atleta, infatti, ha sempre un suo traguardo personale: sportivo, esistenziale o di cercare di mantenere i suoi standard nel tempo o magari migliorarsi.
C’è anche chi corre per affrancarsi da patologie da cui è fortunatamente uscito o per verificare le sue possibilità di tenuta.
Chi ne avrà voglia potrà trovare testimonianza visiva di quanto detto in molte immagini postate nel blog che curo, sempre alimentato dall’apporto gratuito dei tanti amici fotoamatori che ogni anno continuano ad assicurare la produzione di tante foto.
Una sequenza da me realizzata in questa ultima edizione della Maratona di Palermo e che mi fa piacere proporre all’attenzione, è quella che documenta la felicità sprigionata dopo il suo arrivo dalla maratoneta locale Grazia Maria Paterna.
Dopo aver tagliato la linea del traguardo, Grazia Maria ha scatenato l'immensa gioia che sono riuscito fortunatamente a documentare con una sequenza di immagini (classico e famoso Fattore C). Mi è sfuggito purtroppo lo scatto all’arrivo, che i suoi tanti amici hanno però saputo ben catturare con i loro cellulari (foto in ogni caso visionabile attraverso la pubblicazione nella sua pagina FB).
Non mi dilungo oltre, perché in questo caso può ben dirsi che le immagini non necessitano di didascalie, parlano da sole, esprimendo tutto sull’essenza dello sport amatoriale. Quello sano che fortunatamente ancora resiste.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

-- PS – Per chi è curioso e vuol saperne di più sulle vicissitudini che hanno martoriato Grazia Maria, si rimanda a quanto da lei stessa a scritto nella sua pagina di Facebook.

giovedì 18 novembre 2021

Il barbiere Luciano del Quartiere Capo



A chi come me ha la passione della fotografia, capita spesso di percorrere itinerari che, gioco forza, portano a ritrovarsi in luoghi conosciuti e d’imbattersi in persone che a lungo andare creano una certa familiarità empatica.
In una di queste circostanze, una mattina mi sono ritrovato davanti alla bottega di un barbiere del quartiere Capo. Una persona molto gentile e affabile che si è sempre mostrata disponibile per qualche fotografia da scattare al suo salone o per ritrarlo nell’esercizio del suo antico mestiere.
Era diventata consuetudine, nel passare per la sua strada, di dare sempre un’occhiata dietro la vetrata a giorno e salutarlo mentre si ritrovava intento in una barba o in un taglio di capelli.
Una mattina giravo per il quartiere in cerca di qualche scatto di street e, transitandogli davanti, lo ritrovai inattivo, seduto senza la presenza di alcun avventore, mi soffermai per il solito saluto a cui lui rispose con la consueta cortesia e un gentile sorriso.
Un negoziante che si ritrovava vicino, guardando la mia sparuta zazzera che necessitava di una sistemata, disse: “e perché non entra e si fa un bel taglio di capelli?” Ci pensai un attimo e accolsi l’invito.
Il signor Luciano, questo era il suo nome, mi fece accomodare nella prima sedia e mi mise subito a mio agio. Nel sedermi, però, io mantenni fra le mani la mia mirrorless e all’annuncio che avrei fatto qualche scatto durante il taglio non trovai alcuna resistenza.
Fotografare un barbiere da questa prospettiva non è cosa usuale. Per me era diventata l'opportunità per una cosa curiosa, un gioco mai fatto che meritava d’essere provato.
Devo riconoscere che era da molto tempo che non ricevevo un trattamento così professionale. Pochi tagli sicuri con risultati che non manifestavano segni di sbavature. Mi sembrava di essere tornato all’età giovanile, quando ricorrevo alle prestazioni del mio vecchio barbiere di borgata. In quel quarto d’ora mi ero ritrovato a respirare gli stessi odori, si era magicamente ricreata la stessa atmosfera d’allora.
Intanto conversando il signor Luciano mi raccontava il suo vissuto da barbiere, che aveva intrapreso all’età di dieci anni, ovviamente sotto padrone.
Le sue prime esperienze ebbe a svolgerla a quella tenera età innalzandosi su una piccola panca, per poter raggiungere la stessa altezza del cliente assiso. Ma prima, ancora, aveva iniziato con la scopa, rimuovendo dal pavimento i tanti resti di capelli. Poi le varie promozioni, con l’apprendimento delle varie fasi del mestiere e poi venne il giorno per un salone tutto suo.
Ad un cento punto arrivò l’opportunità di un impiego pubblico e si avventurò in un nuovo lavoro impiegatizio. Tanti anni e poi maturò il tempo per andare in pensione.
I tempi duri che stiamo vivendo non consentono una certa agiatezza con una pensione ridotta e il sig. Luciano pensò bene di rilevare il salone che aveva dato in gestione.
Certi mestieri non si dimenticano per nulla e basta poco per rimettersi nuovamente in carreggiata.
L’esperienza e la stima nel quartiere gli consentirono di recuperare parte della clientela che si era dispersa, riuscendo a far rinascere, in una passione mai sopita, il classico mix tra utile e dilettevole.
Intanto che procedeva nel taglio, qualche abituè del salone entrava nel locale. Più che per una barba o per un taglio per farsi compagnia, anche perchè quando si è avanti negli anni occorre sempre trovare un modo per far trascorrere al meglio il tempo.

Buona luce a tutti!

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lunedì 15 novembre 2021

Visitando una mostra di fotografie



Può capitare talvolta di visitare una mostra e, per l’immediata empatia che si viene ad instaurare fra i presenti, si abbia modo di parlare delle opere esposte, nell’ambito di un confronto di idee alimentate dalla partecipazione e dall’ascolto reciproco, cosa che costituisce oggi quasi eccezione in eventi di questo tipo.
Una parola tira l'altra e, nel presentare reciprocamente argomenti più variegati, saltano fuori in taluni dialoganti comunanze professionali o l’incrocio di identiche passioni coltivate.
In breve la fotografia, che era stato dapprima lo spunto per la visita della mostra, si rivela un’occasione per discussioni interessanti, per approfondire conoscenze e farne crescere di nuove.
L’incontro diviene anche l’occasione per verificare la mia sostanziale teorie sull’arte e la cultura in genere, compresa la fotografia, cioè quella di un’associazione multipla di divertimento, stimolo, partecipazione, nuove conoscenze, crescita.
Nell’occasione ho avuto, quindi, la riprova che, volendo, qualunque evento può essere lo spunto per allargare le proprie cognizioni, per recepire nuove visioni dagli ascolti che intrigano, perché liberi e senza pregiudizi, anche se le convinzioni e gli sperimentati modi di operare di ciascuno possono rivelarsi differenti.
Dopo queste mie brevi considerazioni, nel leggere il commento di accompagno alla mostra e scritto da Tiziana Mangia, ritrovo una citazione di Simona Galbiati che recita: “considerare la fotografia come un luogo d’incontro dove le traiettorie temporali e spaziali di diverse persone s’intersecano in un punto: lo spazio-tempo del dialogo, del riconoscimento e della trasformazione”.
Soffermandosi sulle opere esposte, Tiziana Mangia aggiunge, tra l’altro: “le fotografie di Citelli raccontano una realtà multiculturale, stratificata e colorata, dove il passato e il presente si intrecciano raccontando ‘le storie nella storia’".
Le stratificazioni e la multiculturalità sono quelle di cui è ricca la Sicilia d’ieri e di oggi, che la caratterizzano come terra di conquiste dei tanti popoli invasori, che hanno contribuito a formare la sua storia.
Il popolo "shakerato" e frutto di sintesi, che ancor oggi ripropone una miscellanea perpetua d'incontri con le migrazioni moderne; che va, nei tempi più recenti, da quelle dei pescatori tunisini pienamente integrati nel tessuto Mazarese a quelle dei migranti che alimentano flussi etnici provenienti da tante terre più o meno lontane.
Nel fare delle considerazioni sulla produzione di Zino, nella postfazione al suo libro che porta lo stesso titolo della mostra, Serena Marotta, dopo aver citato Henri Cartier-Bresson (“le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento”), scrive a sua volta: “l’arte di fotografare è insieme un’emozione, un battito, un gioco che si impadronisce dell’anima dello spettatore. La fotografia accompagna ogni istante di vita, restituisce i ricordi e ne crea di nuovi.”
Per la cronaca, con i miei amici Salvo e Greg mi ero riproposto più semplicemente di visitare la mostra personale del comune amico Zino; il pomeriggio invece ha visto fluire il tempo velocemente con dialoghi d’interesse comune.
Tornando alla mostra, l’esposizione delle foto risulta allestita in una location molto particolare, immersa nell’atmosfera suggestiva di un luogo che in qualche modo richiama il fascino unico dell’Abbazia di San Galgano.
Il Complesso monumentale dello Spasimo di Palermo rappresenta, peraltro, uno dei siti più suggestivi di Palermo, recuperato dopo un lunghissimo periodo di trascuratezza, grazie alla forte volontà di far rinascere i territori principalmente alimentata dalla “Primavera palermitana”, capitanata dal Sindaco Leoluca Orlando con i suoi proseliti.
Per chi ne ha l’opportunità, costituisce una visita obbligata in occasione di una eventuale gita in Sicilia e se si visita Palermo.

Buona luce a tutti!

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giovedì 4 novembre 2021

"La mia Asia" di Silvana Licciardello



Stamani mi ha sorpreso positivamente l’aver ricevuto il libro realizzato da Silvana.
Avevo assistito alla presentazione che una sera il mitico Pippo, amico comune, ne aveva fatto durante una diretta streaming dell’ACAF in cui ero ospite, ma sfogliare le pagine del libro in prima persona è un’altra cosa.
Oltre alla passione per la fotografia l’impaginato testimonia dell’amore per l’Oriente dell’autrice e scorrendo le pagine consente il riaffiorare di esperienze vissute da chi ha avuto l’opportunità - e la fortuna, aggiungo io – di visitare paesi di un così vasto continente.
Parlando con Lei ho osservato che anche se ASIA è una parola composta da sole quattro lettere, racchiude in sé un universo immenso, variegato e composito.
L’umanità che respiri visitando i luoghi è lontana dal vivere del nostro mondo occidentale, non etichettabile in migliore o peggiore come frettolosamente noi preferiamo classificare, ma semplicemente profondamente diversa.
Un viaggio in qualunque angolo dell’Asia ti consente di staccare la spina da un quotidiano ripetitivo, fissato in orari, scadenze, con preconcetti che vincolano in un mondo spesso preordinato, che si muove entro schemi scarsamente inclusivi.
Girare per le vie dell’Asia è come partecipare automaticamente alla realtà che vivi nel momento, perché gli odori, i rumori, i silenzi, le voci avvolgono e ti accolgono includendoci nel contesto.
L’India, ad esempio, è si shoccante per l’impatto violento che procura, ma dopo qualche giorno ti abitui e quella che appariva come disperazione in alcuni volti vedi che rientra nella normalità di quel contesto. Non intendo con ciò dire che riaffiora il cinismo dell’essere umano (peculiare nell’occidentale), ma che assembli ogni cosa in tutte le realtà del puzzle, ove ogni piccola tessera riesce ad avere una sua collocazione.
Paradossalmente la disperazione di non riuscire a rimediare un pranzo non la trovi in nessun volto. Si è più semplicemente di fronte a civiltà diverse, improntate su culture differenti, anch’esse secolari, sedimentatesi nel tempo. Per descrivere il volume intitolato “La mia Asia” rimangono esaustive le parole con le quali Silvana ha accompagnato il graditissimo regalo e che integralmente riporto.

“La selezione, la sequenza e la stesura finale di questo lavoro sono state realizzate durante il Lockdown 20 21. Le malcelate reazioni di molte persone contro un pericolo ‘proveniente dall’Est, da abominevoli abitudini alimentari e di vita, ecc.’ hanno suscitato in me il desiderio di mostrare come, mettendo in viaggio l’anima e non solo il corpo, si è capaci di riconoscere in Asia una umanità splendida, ricca di valori e di spiritualità, di attenzione e rispetto verso l’Altro e la natura. Penso che sentirsi parte delle culture che hanno molto da insegnare sul senso dell’esistere, capirne le abitudini, i modi di vivere nel passato e nel presente, ma anche le aspirazioni per il futuro, non possono che migliorare la convivenza di tutti in questa terra.”

Non può aggiungersi altro alle parole di Silvana che, oltre a fotografare concettualmente l’argomento, sottolineano l’assoluta attualità delle questioni. Anche riguardo all’ambiente. In questo caso non si è di fronte al solito “bla, bla, bla” denunciato come guanto di sfida da Greta Thumberg ai Grandi della Terra, ma a un’operazione editoriale che rappresenta delle realtà altre, a noi spesso molto lontane, ma che dovrebbero indurci a frenare un po’ per meglio riflettere su esistenzialismo a tutto tondo (inteso anche come una volontà comune e politica di tolleranza per la sopravvivenza).
Il libro, ottimamente confezionato e patrocinato dall’ACAF di Catania, come spesso accade in fotografia è autoprodotto da Silvana Licciardello. Mi ritengo di essere fra i fortunati a possederne una copia con tanto di dedica.

Buona luce a tutti!

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Talvolta capita di dissertare



Talvolta capita di dissertare con soggetti molto eruditi, ma non necessariamente occorre abbattersi solo per il fatto di possedere e poter disporre di un bagaglio culturale assai inferiore.
Si può dissertare tranquillamente mettendo in campo i propri mezzi, sta a chi è posizionato più in alto l’eventuale accortezza di scendere di livello.
In ogni scambio ciascuna delle parti ha sempre modo di trovare quell’oggetto che trova utile o che cercava da tempo, come quando si circola in un mercatino dell’usato e si scoprono oggetti nuovi o vecchi attrezzi di un tempo andato.
Capita così che la mia amica mi segnala un bell’articolo scritto dalla sorella che prende spunto dalla cinematografia (https://joelecinema.blogspot.com/2021/11/ho-scritto-questoarticolo-nel-2016-per.html?m=1) e che la curiosità di leggere ti induca a tue considerazioni.
Partendo dall’attenzione provocata, se un argomento ti intriga, è anche naturale che cominci poi a girarci attorno, per rifletterci sopra e, magari, cercare di formulare un tuo punto di vista.

"Articolo su cui nulla si ha da obiettare.
Nascono però delle considerazioni sul fatto che ogni proposta artistica, letteraria, filmografica e di qualunque genere, incontra le logiche ormai classiche che interessano il “portfolio fotografico”, dove si incontrano inevitabilmente e si completano sostanzialmente due punti di vista complementari.
L’artista propone secondo un suo lessico culturale, l’osservatore lettore vede secondo il suo corrispondente bagaglio. Solo più di un confronto consentono, quindi, il completamento di un quadro verosimile e che, in ogni modo, rimane legato ai contesti culturale dei tempi.
Un messaggio può quindi contenere valori e input connessi, umanamente inossidabili al nostro tempo, ovvero mutevoli che, cioè, fotografano peculiarità momentanee dei vari popoli e civiltà collegate.
Un lettore, in ogni tempo e luogo, completa le parole con quanto l’opera proposta riesce a corrispondergli in base alle sue conoscenze. Solo le favole lievitano su contesti irreali che si nutrono di un fantastico indefinibile.
Ne deriva che qualunque opera si verrà a creare risulterà sempre incompleta per quanto potrà essere contestualmente letto, perché le interpretazioni e le visioni dei messaggi anche figurativi mutano continuamente, per quanto si possano credere …. fisicamente permanenti.”

In ogni caso, dissertare conviene. Nessuno è comunque depositario di verità, ma i diversi punti di vista e l'osservazione da differenti piani, nella maggior parte dei casi aiutano a cercare di capire meglio le cose.

Buona luce a tutti!

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mercoledì 3 novembre 2021

“Come il gambero”, tratto da "Strana vita la mia" edito da Solferino



Nel recente libro autobiografico (edizione Solferino - settembre 2021), ove ripercorre il suo lungo percorso d’impegno politico, Romano Prodi conclude con delle considerazioni sulla democrazia. Si riporta di seguito uno stralcio dell’articolata dissertazione, intitolato “Come il gambero”; dove, con lucido realismo, è fotografata la situazione socio-politica confusa che tutti quanti noi, indipendentemente dall'allocazione geografica, stiamo vivendo.

Buona luce a tutti!

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“Non ci dobbiamo quindi stupire che questo peggioramento del quadro internazionale si sia accompagnato al generale indebolimento della democrazia.
Per un lungo periodo di tempo, a partire dalla seconda guerra mondiale, il trionfo della democrazia sembrava inarrestabile. Io sono cresciuto in questo clima e ho percorso tutto il cammino della mia vita politica convinto dell’ineluttabilità della sua vittoria finale.
Questo perché, proprio sotto la spinta degli Stati Uniti, a cui si sono progressivamente associati i Paesi europei, il numero dei governi nati dal suffragio universale era cresciuto ovunque.
Ogni anno i bollettini delle Nazioni Unite ci informavano della continua ascesa del numero di stati che, in modo più o meno irreprensibile, affidavano il loro futuro al risultato delle elezioni.
Tanto diffusa era questa fiducia che divenne comune opinione che tutti i paesi, a partire dalla Cina, sarebbero entrati nel novero delle nazioni democratiche.
Con il progredire del nuovo secolo questo cammino ha invertito la sua direzione di marcia.
Le guerre spacciate come strumento necessario per esportare la democrazia, l’aumento delle diversità e delle ingiustizie, gli innumerevoli episodi di corruzione politica, il crescente numero dei casi di tirannide della maggioranza, la scarsa qualità della classe dirigente e la trasformazione della competizione politica in lotta personale hanno via via indebolito il fronte democratico in tutto il mondo.
Il desiderio di autoritarismo ha fatto proseliti in ogni direzione: dalle Filippine a numerosi paesi asiatici , dalla Russia alla Turchia fino al Brasile e all’Africa, dove ormai sono quotidiane le tensioni causate da Leader teoricamente democratici che vogliono, invece, rimanere al potere oltre i limiti previsti dalle Costituzioni dei loro Paesi.
A questo si accompagna un crescente degrado delle campagne elettorali, sempre più dominate dalla quantità di denaro e dalla potenza di fuoco che i vecchi e i nuovi media riescono a mobilitare, anche attraverso una esorbitante quantità di risorse finanziarie.
Questo processo di decadenza si è simbolicamente espresso nell’ultima campagna elettorale americana, nella quale il tono dominante è stato la demolizione della personalità del candidato concorrente, a cui si è aggiunta l’insinuazione che il risultato elettorale potesse essere addirittura determinato dal sostegno di potenze straniere.
Si è quindi preparato il clima per cui i verdetti delle elezioni sarebbero stati non credibili, in quanto frutto di comportamenti criminali, non importa se originati in patria o all’estero.
Questa atmosfera così avvelenata, a cui si è aggiunta la ristretta differenza di voti in diversi Stati, ha permesso a Trump di aprire un conflitto che si è perfino materializzato con l’assalto al Congresso.
Un evento che non solo ha spaccato ulteriormente il Paese, ma ha indebolito in tutto il mondo la già declinante fiducia nei confronti del funzionamento della democrazia.
Nonostante tutto sono convinto che la plurisecolare democrazia americana sarà ancora una volta in grado di ricostruirsi ma, quando cerco di allargare lo sguardo a tutto il mondo, sono altrettanto convinto che per evitare un definitivo arretramento, Europa e Stati Uniti devono operare insieme, ma in un rapporto paritario e di reciproca fiducia.”

(tratto da "Strana vita la mia", di Romano Prodi con Marco Ascione edito da Solferino)

domenica 17 ottobre 2021

Luisa Vazquez e, in una sera, il riassunto di sei anni a Palermo.



Nel mutevole scenario palermitano comparve un giorno, da turista occasionale, Luisa Vazquez. S’innamorò subito di questa complicata città cosmopolita; Gioacchino fu in verità l’occasione che generò i presupposti della conoscenza, a seguito di uno scambio incrociato di abitazioni fra Palermo e Madrid. Poi il fascino della composita Palermo fece il resto.
La conoscenza con Luisa avvenne tramite l’Imago della sig.ra La Bua. Quando Vincenzo, nel corso di una riunione dei soci, propose una visita a una mostra di Street photography, che aveva avuto modo di vedere e composta da belle foto ambientate nelle vie di Madrid. Una gran bella mostra d’immagini tutte in bianco e nero, intitolata “La Calle”, che per Palermo costituiva allora quasi una novità di genere fotografico. Nell’occasione si fece conoscenza con l’autrice fotografa e in breve si innescò una frequentazione periodica presso l’Imago.
Luisa non perdeva mai un appuntamento delle nostre serate settimanali, anche perché – e lo scoprimmo quasi subito – era particolarmente attratta dalla pasticceria palermitana. A pochi metri dalla sede dell’Imago – in borgata San Lorenzo/Cardillo – nella produzione dolciaria il bar Gardenia eccelleva e in particolare per la “Sfingia di San Giuseppe”, prelibatezza di pastella fritta nella sugna, ripiene e ricoperte di delicatissima ricotta, mista a pezzetti di cioccolata e frutta candita, il tutto barrato con una scorza d’arancia come per i cannoli: una goduria assoluta che per Luisa era meglio di qualunque droga.
Come carattere, all’affabile Luisa si accompagnava un’indole testarda e intransigente, come usiamo dire dalle nostre parti quando parliamo dei calabresi.
La sua apparente irremovibilità però lei l’ha sempre gestita con intelligenza e spesso, rimuginando su sue decisioni istintive, ritornava, per addivenire a un giusto compromesso, rivedendo talvolta, seppur parzialmente, le sue posizioni.
Acuta nelle osservazioni, ha sempre palesato apertamente eventuali punti di vista differenti e spesso difformi dal comune sentire, raramente condizionati da pregiudizi.
La sua cultura e le sue esperienze lavorative mantenevano viva la sua curiosità, costituendo stimoli e molla per rinnovarsi nel preparare progetti sempre nuovi.
I giudizi su chi gli stava attorno erano però sempre azzeccati e bastavano pochi incontri e qualche frequentazione per acquisire una scheda che avrebbe fatto invidia a uno psicologo. Pur rimanendo sempre riservata nei suoi giudizi, se in confidenza esprimeva un’opinione su qualcuno, questa era una fotografia perfetta, nei chiaro scuri e pure nei dettagli.
Luisa conserverà certamente nei suoi ricordi l’automobile con la quale l’amico Greg, ebbe ad accompagnarla più volte all’aeroporto, nelle periodiche partenze per Madrid.
Ogni volta, armeggiando su sedili e ribaltando sponde - per posizionare meglio gli attrezzi del mestiere che alloggiavano stabilmente nel suo mezzo - Greg riusciva sempre a creare gli spazi che necessitavano al trasbordo.
Un’esperienza particolare di Luisa a Palermo era il suo reportage realizzato sullo “Scaro” e che ebbe a raccontarci.
Per una serie di mattine, alzansosi all’alba, ebbe a introdursi con la sua macchina fotografica all’interno del mercato ortofrutticolo, per raccogliere istantanee dei vari momenti del mercato e degli ambienti interni a quel bazar. Uno spaccato in cui nessun altro fotografo, neanche palermitano, si era mai avventurato così apertamente. I lavori prodotti sono conservati, anche se ne ha già fatto una selezione che ci ha proposto una sera. Chissà, forse costituiranno elementi di un progetto per una sua prossima mostra fotografica su Palermo in quel di Valcencia.
Luisa è quella che decide su due piedi di partire per visitare un posto.
Prendendo il bus o il treno, secondo il luogo, per andare magari a Sciacca, a Napoli, Marsala, a Vulcano o chissà dove ancora.
Le è sempre bastato poco per attaccare bottone e con chiunque incontrava istituiva subito confidenze che le sarebbero tornate utili per rendere gradevole il soggiorno nei luoghi.
Del resto la sua facilità a socializzare era collaudata. A Piazza Marina era nota a tutti, alla Vucciria era pressochè di casa, come pure a Ballarò, alla Kalsa e nei vari quartieri storici di Palermo.
Da Ignazio si riforniva per la frutta e verdura, la Taverna Azzurra era una sua meta fissa per la classica “biretta”. Poi, girando per la città, conosceva tanti artigiani, negozi e negozietti per le tante necessità specifiche che aveva da risolvere.
In ogni caso, si muoveva nei luoghi come una di quelle macchine attrezzate di Google che mappano il territorio.
Conosceva ogni peculiarità palermitana, la cioccolateria più buona, il droghiere con i prodotti biologici più raffinati, il macellaio con la carne e le salsicce più saporite, il pescivendolo più attendibile e di fiducia.
Qualche giorno fà Luisa ha insistito con noi affinchè andassimo a mangiare una pizza assieme. Saremmo dovuti essere in cinque, ma la quinta del gruppo era impegnata con gli esami per il giorno dopo e disertò l’incontro. Restammo i soliti quattro, lei, io, Salvo e Greg.
Non ci eravamo ancora rivisti dal suo ultimo rientro da Madrid.
Dopo i convenevoli del ragazzi come va, del cosa avete fatto in questo tempo, Luisa esordì dicendo che quella sera lei avrebbe parlato del futuro.
Nessuno fece caso e il discorso deviò su altro; ognuno ebbe a raccontare qualcosa di nuovo, si sfiorarono temi politici, si parlò ovviamente anche di fotografia.
Poi si creò una breve pausa e io ritornai su Luisa chiedendole cosa intendeva dire col fatto che avrebbe voluto parlare del futuro. La risposta che ne avemmo spiazzò tutti quanti.
Venne a dire: “Ragazzi questa città non m’intriga più, qui a Palermo non trovo più le motivazioni di una volta; ho quindi deciso di ritornarmene in Spagna”.
Restammo per un attimo tutti ammutoliti, i suoi occhi luccicavano mentre pronunciava quelle parole. Tradivano la tristezza per la consapevolezza di lasciare così tanti amici con i quali aveva condiviso tanti bei momenti. La serata trascorse comunque in modo piacevole, parlammo anche del futuro di Luisa, dei suoi nuovi progetti, della mostra che aveva già in mente e che avrebbe realizzato a Valencia.
Non si delineavano però i termini per un vero abbandono, ma solo di un prossimo distacco fisico per la sua destinazione diversa. In quel momento restavamo tutti convinti che avremmo comunque mantenuto integri i legami che si erano naturalmente creati, consolidati da un’intesa improntata alla assoluta esternazione d’opinioni libere che, infine, ci accomunavano sempre; ricomponendo contrapposizioni costruttive, che erano poi dei semplici anche se animati confronti, di modi di pensare diversi.

Buona luce a tutti!

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domenica 10 ottobre 2021

Presentazione di Daniela Sidari del libro "Fotogazzeggiando" nell'ambito della VI Edizione di "Marenostrum" di Mazara del Vallo



Quando Roberto Rubino, curatore della manifestazione, durante la programmazione della VI edizione di Marenostrum a Mazara del Vallo, si è spontaneamente prestato per proporre il mio libro “Fotogazzeggiando”, nell’ambito del prestigioso appuntamento artistico annuale, ho chiesto all’amica reggina Daniela Sidari d'intervenire per la presentazione.
In verità, come ho anche da subito detto alla stessa Daniela, il mio primo pensiero era stato rivolto ovviamente al comune amico Pippo Pappalardo che, peraltro, ha anche scritto una delle due sapienti prefazioni inserite nel volume (affiancata all'altra concessa dal fotografo/giornalista Nino Giaramidaro), ma la distanza logistica e i tempi di ripresa dalle sue vicissitudini più recenti, non hanno acconsentito di concretizzare l’intendimento.
Comunicato subito a Pippo l’avvenuta accettazione da parte di Daniela, lui ebbe subito ad anticiparmi che non avrei potuto scegliere di meglio. E così poi si è puntualmente verificato.
Nel pomeriggio del 9 ottobre, che ha anche visto l’intervento di Anna Fici nell’illustrare il suo reportage su Porticello esposto in mostra, l’architetto Sidari, dopo aver lungamente descritto le sue originalissime opere fotografiche, anch’esse presentate in mostra nella stessa manifestazione mazarese, ha disquisito sulle sue impressioni ricavate dall’attenta lettura e rilettura del libro, illustrando con una non comune ed efficace acutezza i punti salienti e più reconditi contestualizzati nel volume.
Un libro definibile, senza presunzione, un pò particolare, per la complessità e la composizione articolata di tante tematiche sviluppate in capitoli indipendenti, allorquando fotografia praticata e visitata (in mostre o altro) vengono mescolate in un unico amalgama, anche con forme narrative talvolta diverse.
Dall’operazione affiorano e vengono miscelati, infatti, in un unicum esperienze di vita e vengono anche rievocati tanti personaggi vicini e importanti, frequentati lungo l’escursus di un’intera vita.
Le dosate parole di Daniela, come già accennato, sono riuscite a focalizzare ed esporre costantemente, mettendoli in piena luce, aspetti apparentemente nascosti, inseriti in scritti che molto spesso alludono solamente; lasciando, in ogni caso e sempre, spazi al lettore per le sue riflessioni sugli argomenti e le storie più generali via via trattate.
Per me poi, alcuni passaggi, brillantemente sciorinati dalla relatrice con apparente leggerezza, sono riusciti a toccare quelle corde emozionali che solo una sensibilità attenta riesce a cogliere e sollecitare.
A mio parere, non occorre descrivere altro per raccontare la performance della collaudatissima docente Fiaf Daniela Sidari relatrice che, nell’occasione, è stata ancora una volta protagonista di una sobria ma efficace presentazione. I presenti, in parte sollecitati e coinvolti, possono testimoniare sull’esaustività della sua attenta e oculata operazione, essendo rimasti anche essi stessi intrigati durante l’esposizione.
Credo non necessiti dire altro sull'intervento di Daniela Sidari nella sua veste di critica, anche perchè ogni ulteriore dissertazione potrebbe risulterebbe solo ridondante e apparirebbe assolutamente superflua.
In conclusione ringrazio Daniela anche per l’essere riuscita - senza aver mai preventivamente concordato i termini dei suoi commenti - a mettere in luce tutti i temi essenziali posti a base del progetto editoriale, al quale, in modo molto costruttivo hanno collaborato - con sapienti e preziose prefazioni e postfazione – Nino Giaramidaro, Pippo Pappalardo e Daniele Corsini; personaggi a me vicini che mi onoro di annoverare fra i miei amici e che mi piace ancora una volta ricordare e ringraziare per il supporto e i tanti pareri e consigli.
Una recente recensione scritta dallo stesso Corsini, che ha peraltro anche frequentemente e fattivamente collaborato nella revisione di molti dei testi e ha pure visto nascere, passo passo, l’intero iter dell'ambizioso progetto letterario, aggiunge degli ulteriori aspetti sul volume che è stato presentato. Fornendo altri elementi che possono ben integrare le considerazioni evidenziate dall’architetto Sidari, accessibili, come detto e se si vuole, attraverso un video pubblicato su You Tube.
A conclusione della serata, i fratelli catanesi Antonio e Lorenzo D’Agata, del Gruppo fotografico Le Gru di Valverde, hanno proposto e successivamente illustrato dei loro bellissimi video naturalistici incentrati sull’Etna, che da sempre costituisce la loro meta preferita e dagli stessi vissuta come vera passione a 360 gradi. Dei tre lavori proposti, per uno (Etna ... Riflessi d'Autunno) è possibile la visione tramite You Tube: https://youtu.be/5LmnJMhtwHM.
In un pomeriggio, che ha visto susseguirsi tanti diversi tipi d’interventi, rispondendo pienamente alle attese dell’organizzatore dell’evento mazarese, si è avuto modo di cogliere aspetti diversi del mondo fotografico e della cinematografia, dando modo agli intervenuti di allargare così conoscenze sulle molteplici opportunità artistiche che le stesse possono offrire agli appassionati nei rispettivi e distinti ruoli di autore o spettatore.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

Per chi volesse accedere alle pagine richiamate nel testo, si riepilogano di seguito i rispettivi link:

- Mostra fotografica di Daniela Sidari http://www.fiaf.net/agoradicult/2019/02/17/paesaggi-di-sole-di-daniela-sidari/?fbclid=IwAR1-UG18lkNYxTI0Y5iZshiwybalWAeJX7CpdbTURr4uxwEqGg1A3j_qnFw
- Video della presentazione di "Fotogazzeggiando" https://www.youtube.com/watch?v=l2T2SM4mXys
- Recensione di Daniele Corsini https://www.economiaefinanzaverde.it/2021/05/20/fotogazzeggiando/
- Articolo su Laquartadimensionescritti https://laquartadimensionescritti.blogspot.com/2021/09/talvolta-capita-e-me-e-accaduto-ed-e.html
- Video dei Fratelli Antonio e Lorenzo D'Agata https://www.youtube.com/watch?v=5LmnJMhtwHM

giovedì 7 ottobre 2021

Frasi celebri: "Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare"



Su Il Fatto Quotidiano di oggi risultano due chiavi di lettura riguardanti i recenti risultati delle amministrative 2021 di particolare contenuto, non altro perché assolutamente fuori dal coro rispetto all'unanime opinione espressa da tanti nei media di parte, spesso apertamente asserviti a oligarchie trasversali consolidate.
L’editoriale di Marco Travaglio, prescindendo dalle simpatie che ciascuno di noi può avere riguardo ai suoi scritti, con una sintesi lucida mette a fuoco taluni aspetti indiscutibili sui recenti risultati elettorali.
Un primo punto risulta l’eccessiva esultanza di una massa di cittadini tifosi (di chiave, tipo, juventina o madrilista, fate voi) abituata cioè a vincere, a prescindere dalla qualità gioco e dal rispetto delle regole. In questo senso risulterebbe, infatti, eccessiva, se non irrazionale, l’esultanza della presunta debacle del 5S, per effetto degli indubbi errori palesati da quel movimento, ma anche dell’assenteismo al voto da parte di una fascia sociale delusa e pure, a ragione, demotivata e depressa.
Che all’italiano medio piaccia l’uomo solo al comando cui delegare la gestione del governo è cosa risaputa, ma da qui a rinunciare completamente alla sostanza delle regole democratiche (o apparenti tali) è però segno d’immaturità e di civiltà poco evoluta in un popolo.
L’oligarchia applicata e conclamata - che ormai non ha problemi e difficoltà a esporsi - risulta oggi incompatibile con l'apparente repubblica democratica parlamentare, ma sono in pochi quelli pienamente consapevoli dello stato delle cose.
Qualcuno ha pure imputato l’appecoramento generalizzato anche alla pandemia ancora latente (da non escludere per le variegate patologie neurologiche scatenate), che è stata peraltro fortemente strumentalizzata da certe fasce di appartenenza politica; sarà forse anche esagerato ma, come usava dire il buon Antonio Di Pietro, ma il Covid che c’azzecca in tutti questo?
In ciò il "Fenomeno Draghi" costituisce per gli italiani tutti un miscuglio indistinto fra bullismo, nostalgie del padre padrone e sindrome di Stoccolma ..... ma a parlare di questo ci dilungheremmo troppo e il tutto necessiterebbe di analisi approfondite e ben più complesse.
Travaglio mette pure in luce come la nostra democrazia, ormai malata, è diretta da un apparente bipolarismo che in realtà è un inciucio costante, spesso non coincidente con gli interessi generale dei cittadini. Al riguardo, Destra e Sinistra italiana, in un'apparente alternanza, in realtà percorrono un unico solco.
I buoi o i muli che manovrano l’aratro (fate voi) rispondono ai comandi di chi ormai tiene in mano ben salde le redini. Chi si metterà ordinatamente in scia avrà così la sua piccola pagnotta o la ciotola di riso, che renderà felici per la benevolenza ricevuta e che, come recita ogni favola, consentirà loro di coltivare l'illusione di continueare a vivere felici e contenti. Con il debito pubblico che intanto progressivamente s'ingrossa e resta solvibile in base alla regola di Totò del "Vi pago domani".
Altro aspetto delicato affrontato riguarda l’astensionismo, che costituisce un'evidente antitesi rispetto all'esercizio della vera democrazia. L’utilizzo del voto - associato a regole e trasparenza - sarebbe, in teoria, l’unica arma democratica concessa ai cittadini per controllare il governo della politica, quella con la P maiuscola ovviamente.
La degenerazione partitica consolidata ha invece creato una camicia di forza da far indossare, che tende a rendere matti chi non si adegua al sistema, facendo sì che la Repubblica parlamentare risulti un teatrino di attori cooptati, senza meriti evidenti, se non quello dell’appartenenza.
Non ci sarà poi da meravigliarsi se il livello culturale e l’improvvisazione genereranno automi chiamati solo a spingere bottoni a comando o a manifestare la loro schizofrenia dell’improvvisata onnipotenza, nella casualità del ruolo ricoperto (talvolta pure occasionale), e, parallelamente, assistere a intellettuali e acculturati che sfuggono dalla politica, per la comprovata difficoltà di eventualmente poter poi esprimere il proprio libero pensiero.
Nel nostro paese, intanto, un sistema farraginoso di leggi e regolamenti pieni di cavilli e rimandi ingessa la burocrazia e, paradossalmente, burocrati, lobbies e politici politicanti costituiscono l’asse portante che organizza e gestisce la vita dell'intero paese.
Sempre nell'edizione del già citato giornale di oggi, nel suo spazio abituale, Antonio Padellaro auspica un libro scritto di proprio pugno da Virginia Raggi, che illumini sulla sua esperienza di sindaco della Città di Roma. Chi ha avuto modo di leggere quello a suo tempo scritto dall’ex Sindaco Marino, messo lì dal partito come pupazzo manovrabile e che poi non si rivelò tale, non potrà che avallare questa eventualità che, ormai e sempre più spesso, rimane per un politico eretico l’unica possibilità per poter manifestare a pieno il proprio pensiero. Per poter raccontare (anche se di parte), come aspetto culturale e non più politico, il resoconto personale della esperienza maturata. Sarebbe, in ogni caso, la capacità di ogni lettore, in base al proprio vissuto e al bagaglio culturale personale, saper poi distinguere la vera differenza tra grano e loglio.
Nell’edizione d’ieri del Fatto Quotidiano anche Massimo Fini, un altro dei personaggi fuori dagli schemi che non le manda a dire, si è dilungato con un suo interessante scritto sul fenomeno 5 Stelle a Roma e sulle vicissitudini personali e politiche di Virginia Raggi in particolare.
Per farla breve e non tediare troppo direi che da leggere nella carta stampata c’è sempre tanto; che occorre certamente sempre confrontare le diverse teorie e tesi, anche contrapposte, per poter dire anche che di articoli interessanti di giornalisti con la G maiuscola - e fortunatamente - ne circolano ancora molti.
Per una maggiore comprensione di quanto fin qui espresso, inviterei quindi a andare a leggere gli scritti appena accennati, a prescindere da schieramenti, pregiudizi personali o eventuali appartenenze.
Un’ultima cosa, il Segretario di turno - ora apparso dalla ruota girevole del Grand Hotel PD - un pò straparla e si proclama vincitore in una Waterloo disertata da molti potenziali elettori chiamati a votare nell’ultima tornata elettorale. Da non crederci, ma nulla di nuovo sotto il sole: la malattia persiste! Al riguardo, chissà perché mi tornano alla mente alcune delle parole che Rosaria Costa, vedova Schifani, ebbe a pronunciare a Palermo il giorno dei funerali per le vittime della strage di Capaci e che mi piace citare. Disse, tra l’altro: “Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani mio, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato…, chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare… Ma loro non cambiano… […] …loro non vogliono cambiare…”. L'associazione potrebbe apparire esagerata, ma sul fatto che "loro non cambiano e non vogliono cambiare" la citazione regge.
Oserei concludere suggerendo a mia volta anche ai tanti che, fortunati loro, hanno il privilegio di vivere sempre delle certezze: meditate gente, meditate.


Buona luce a tutti!

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mercoledì 29 settembre 2021

Lo specchietto.



Le quindici foto che propongo vogliono, in qualche modo, costituire uno spunto per suggerire un'idea di come si può personalizzare un proprio metodo nell’approcciare a realizzare delle foto di street.
A tal riguardo, mi accingo a raccontare quanto mi è recentemente accaduto a Mazara del Vallo, girovagando senza meta nel centro storico cittadino accompagnandomi con le mie mirrorless.
In premessa e come a tutti noto per gli appassionati di fotografia di strada, ciascuno di noi ha un suo modo di sviluppare una specifica tematica che da subito intravede.
Le tante letture di libri fotografici e le precorse esperienze personali maturate, costituiscono presupposti nel nostro girovagare sul campo, a prescindere dal risultato che si andrà a raggiungere.
Allo scopo di rendere comprensibile quanto detto in premessa, procederò ora ad elaborare un testo che andrà correlato alle foto del collage di fotografie che precedono questo scritto.
All’inizio intravvedo in lontananza un gruppo composto da due persone, gente probabilmente del luogo che si intrattiene nei classici discorsi fra amici.
Uno dei due ha un aspetto particolarmente pittoresco, per la sua lunga e folta barba bianca e i radi capelli, ma il mio sguardo cade subito sullo specchietto del motorino su cui è seduto.
L’immagine riflessa, che lascia intravedere i tratti somatici del personaggio, enfatizza fortemente la figura che consente di dare una specificità al duo.
Il problema è ora quello di approcciare con i soggetti e cercare di verificare la loro eventuale disponibilità a essere fotografati.
Allo scopo utilizzo, quindi, uno zoom che mi consente di operare da lontano, studiando il taglio nel variare tante delle possibili inquadrature.
Provo diverse composizioni, inserendo con costanza e riposizionando nella scena lo specchietto che rimane costantemente al centro della mia idea di foto.
Nel procedere, cerco anche di rendere evidente la mia azione di ripresa, fin quando uno dei tre non si tende conto che li sto fotografando.
Si girano tutti e due: tutto ok.
A questo punto chiedo esplicitamente l’autorizzazione a poterli fotografare. Nessun problema, anzi si dimostrano lusingati.
Quindi mi avvicino gradualmente ai personaggi, tenendo sempre a mente come costante il mio elemento principale: lo specchietto.
Fotografare con uno zoom, peraltro non molto luminoso, certe volte può procurare brutti scherzi, non immediatamente rilevabili e gli errori (mosso o sfocato) in genere si palesano solo in fase di postproduzione.
In ragione dell’idea principale che mi ero da subito proposto di perseguire e convinto che era alla portata un certo risultato, non ho lesinato negli scatti. Ancor di più di quanto il mio dito, solitamente inquieto, riesce a fare pigiando sul pulsante del click.
Per tenermi i soggetti maggiormente disponibili li rendo anche partecipi, facendo visionare loro un primo piano dell’amico barbuto riflesso nello specchietto del motorino: è fatta; posso procedere e andare tranquillamente oltre.
In questi casi, amici che accompagnano nella battuta fotografica intervengono utilmente facendo da spalla; intrattenendo i soggetti, così da distrarne l’attenzione, liberando così il reporter che scatta.
Finito il tutto, un biglietto o un recapito per inviare qualche foto ben riuscita rassicura tutti.
Non sempre però le intuizioni corrispondono ai desiderata, specie in fotografia.
In questo caso la postproduzione non ebbe ad evidenziare errori importanti e l’abbondanza degli scatti ha consentito di collegare le immagini per la creazione di una piccola storia.
Ad ogni modo, come in ogni cosa, tutto è opinabile e i gradimenti rimangono vincolati ai gusti e alle inclinazioni personali.
Alla fine, la sequenza di scatti che mi aveva divertito ha prodotto un risultato che mi ha soddisfatto e le immagini che propongo sono una mia chiave di lettura delle scene e un semplice racconto di quanto accaduto.

Buona luce a tutti!

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domenica 26 settembre 2021

Massimo Fini: "Il Green pass e Dostoevskij"



Sul Fatto Quotidinao d'ieri Massimo Fini ha pubblicato un articolo (Rilanciato pure nel suo spazio web) certamente da leggere ma che induce a riflettere.

L’obbligatorietà, più o meno nascosta, del Green pass ha sollevato un problema di fondo che, irresoluto, insegue il genere umano dalla sua comparsa: se la libertà (la sicurezza) di tutti, o della maggioranza, abbia diritto di prevalere sulla libertà del singolo o se il singolo abbia il diritto di fare le sue scelte. Sul tema sono intervenuti sul nostro giornale Gad Lerner, autorevole firma del Fatto, e Carlo Freccero, intellettuale di lungo corso. Se dovessi replicare ai due risponderei con le parole che Sancio Panza rivolge a Don Chisciotte: “Mio signore, io purtroppo sono un povero ignorante e del vostro discorso astratto ci ho capito poco o niente”. Sia Lerner che Freccero non resistono infatti alla tentazione di buttarla in politica inserendo argomenti come il referendum di Matteo Renzi, il sovranismo, il futurismo.

Il dilemma è più diretto e allo stesso tempo molto più complesso e si incarna nell’eterno conflitto fra Autorità e Libertà. Risale almeno al Seicento quando si incanala nel duello intellettuale fra Blaise Pascal e Cartesio. Pascal sostiene che non esistono certezze assolute sulla natura umana che è fluttuante nei suoi principi e nei suoi conseguenti costumi, Cartesio, al contrario, fonda il suo ragionare su una certezza opposta: esistono principi universali validi per tutte le genti. Questo dibattito si sviluppò non a caso nel Seicento, e ancor prima con Montaigne nel Cinquecento, all’epoca delle grandi esplorazioni che portarono quello che oggi chiameremmo Occidente a contatto con culture molto diverse dalle nostre. In un famoso capitolo dei ‘Saggi’, Dei Cannibali, Montaigne dice sostanzialmente: certo per noi i cannibali sono loro, ma ai loro occhi i cannibali siamo noi. Sarebbe molto istruttivo riprodurre l’intero capitolo perché è attualissimo da quando la Democrazia, vale a dire l’Illuminismo cartesiano, ha inteso proporsi come valore assoluto e universale. In termini meno antropologici e più politici Flaubert dice: “Ma nessun potere è legittimo, nonostante i loro sempiterni principi. Ma, siccome principio significa origine, bisogna riferirsi sempre a un inizio […] Così il principio del nostro è la sovranità nazionale, intesa in forma parlamentare… Ma in che cosa mai la sovranità nazionale sarebbe più sacra del diritto divino? Sono finzioni, l’una e l’altra”.

Ma se non c’è un principio, un qualsivoglia credo, una ‘roccia’ come la chiama Cartesio, cui ancorarsi, nasce lo straziante grido di Ivan Karamazov: “Se tutto è assurdo, allora tutto è permesso”. Si sarebbe tentati di credere che fra Libertà e Autorità l’uomo scelga istintivamente la prima. Ma non è così. L’uomo ha bisogno dell’Autorità, altrimenti non si capirebbe come mai per millenni, alle volte esplicita più spesso mascherata, sia sempre esistita un’Autorità. Il fatto è, anche se spiace ammetterlo, che l’uomo ha bisogno dell’Autorità perché lo libera dal torturante dilemma della scelta e nello stesso tempo gli lascia un quid inesplorato che lo sciolga dalle certezze dogmatiche. Lo chiarisce splendidamente Dostoevskij nell’apologo del Grande Inquisitore inserito nei ‘Fratelli Karamazov’. Siamo nel Cinquecento, Cristo è tornato sulla terra perché la Chiesa di Paolo ha tradito il suo messaggio libertario. Il Grande Inquisitore, il novantenne cardinale di Siviglia, lo fa mettere immediatamente nelle più profonde segrete della città e gli fa questo discorso: “Oh, ne passeranno ancora dei secoli nel bailamme della libera intelligenza, della scienza umana e dell’antropofagia, poiché, avendo cominciato a edificare la loro torre di Babele senza noi, andranno a finire con l’antropofagia! Ma verrà pure un giorno che la fiera s’appresserà a noi, e si metterà a leccare i nostri piedi , e ad annaffiarli con lacrime di sangue. E noi monteremo sulla fiera e innalzeremo la coppa e su questa sarà scritto: ‘MISTERO!’”. L’antilluminista Dostoevskij coincide dunque da una parte con l’illuminista Cartesio, che fonda la ragione moderna, perché riconosce che l’uomo ha bisogno di una certezza, di una qualsiasi certezza, ma d’altro canto se ne distacca profondamente perché proprio la certezza è ciò che lo uccide (“Amleto, chi lo capisce? È la certezza, non il dubbio che uccide” Nietzsche). Detto in termini più semplici: se io vivo in una stanza (mondo) dove tutto è illuminato, dove conosco anche il più piccolo pulviscolo, che altro mi resta da fare se non tirarmi un colpo di pistola?
Si potrebbe aggiungere con Eraclito che il problema è risolto in quanto irrisolvibile: “tu non troverai i confini dell’Anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione” e aggiunge che “la legge autenticamente ultima ci sfugge, è perennemente al di là e man mano che cerchiamo di avvicinarla appare a una profondità che si fa sempre più lontana”.

Il mediocre problema del Green pass, che in fondo, e in questo sono d’accordo con Freccero, nasce solo dalla paura, un’abbietta paura della morte, sconosciuta in questi termini dalle generazioni che ci hanno preceduto anche solo di una cinquantina d’anni, ha avuto se non altro il merito di togliere il dibattito pubblico, almeno per un po’, dagli infimi temi della politica per portarlo su una questione di fondo. Ma poiché siamo dei nani seduti sulle spalle di giganti non saremo proprio noi ad arrivare là dove non sono arrivati Pascal, Cartesio, Dostoevskij. Ci rimane però il piacere, da non sottovalutare, della dialettica.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 25 Settembre 2021)

martedì 14 settembre 2021

Difficile trovare chi riconosce ad altri eventuali meriti



Talvolta capita - e a me è accaduto ed è capitato di frequente - che in occasione di rilanci di alcuni scritti reputati interessanti da responsabili di portali, venisse fatta una rivisitazione del testo che comportava variazioni anche significative.
Con un mio amico in particolare, il più abituale dei revisori, è anche successo, specie in occasione di cambiamenti che hanno generato arricchimenti linquistici e culturali non di poco conto, di quasi non rivedere più l’articolo originariamente scritto, riproposto come un risultato di smontaggi e riassemblaggi.
In queste circostanze, alla fine, talvolta ero pure portato quasi a disconoscere la paternità di quello che era divenuto il nuovo risultato, anche se, analizzando i singoli spezzoni dell’articolo definitivo, il mio amico riusciva sempre a convincermi e a dimostrarmi sulla legittima paternità.
Ridendo, più di una volta poi concludeva sostenendo che il pezzo alla fine era quasi lo stesso. In verità fatti e cose descritte corrispondevano, immutate, anche se era stato cambiato più di un termine e il tutto risultava impreziosito da qualche erudita citazione, frutto dell'eccellenza dei suoi studi liceali formativi.
Mi va di scrivere tutto questo perché, in un mondo affollato di tanti che si atteggiano a prime donne, è sempre più difficile trovare chi riconosce ad altri eventuali meriti offrendo, peraltro con generosità, aiuti o anche collaborazioni per affinare al meglio le cose: un modo di agire che conclama e rafforza i rapporti di vera amicizia.
In ciò io mi ritengo assai fortunato, per le molte amicizie di cui ho goduto e per quelle nuove che mi circondano ancora. Una cerchia di belle persone che mi gratificano o che sinceramente mi richiamano, a seconda del caso, e che offrono opportunità di confronti costruttivi, offrendo sempre spazio al modo di esprimere le idee o anche le mutevoli impressioni.

Buona luce a tutti!

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mercoledì 1 settembre 2021

“Na nuci n’on saccu un fa mai scrusciu” (una sola noce chiusa in un sacco non fa mai rumore)



Ogni giorno ci viene proposta dai media un’agenda che più che permettere di capire le problematiche dell’attualità che ci circonda, tendono a distrarre verso finti problemi, magari mettendo al centro pure delle questioni reali ma che risultano abbastanza distanti da ciò che costituisce la vita ordinaria a noi più prossima.
È tutto un circo che si muove, con tanti trapezisti, clown, funanboli, bestie ammaestrate, animali feroci e domatori.
Lo spettacolo è quasi gratuito, basta leggere i giornali, vedere la TV, leggere un articolo, assistere a un talk e ci viene presentata un’informazione precotta, non priva di conservanti e additivi che cercano di spacciare per freschi i prodotti surgelati o temporaneamente congelati per ogni scopo.
Tutti si accalcano per ottenere spettatori e dietro i fornelli delle ristorazioni autoctone, vengono presentati cibi utili ad alimentare obesi, più che atti a sfamare masse bene ammaestrate ad assecondare il consumo.
Ormai è la psicanalisi al centro della scena; ciò che orienta una politica non più governata da ideologie o visioni di società più o meno perfette.
Nell’editoriale di oggi - su “Il fatto quotidiano” – intitolato “Il giuramento di Ipocrita” Marco Travaglio si sofferma sul punto, citando un detto che recita come “l’ipocrisia è la tassa che il vizio paga alla virtù”.
Uno scritto che cerca di nobilitare, in qualche modo e descrivendola, una deriva che interessa l’intero mondo globalizzato, deviato verso interessi che si allontanano sempre più dalla comprensibilità. Focalizzando con ciò sostanzialmente comunità sempre più spinte dall’eterno stupido nazionalismo latente: improduttivo. Che si rivela, talvolta, pure controproducente.
Lo scritto di Travaglio, rivolgendosi all’attualità politica e alla complessità sociale italiana, oltre che a quella più prossima al nostro paese, enuclea le tante evidenti contraddizioni; messe in campo dai tanti attori che calcano le scene.
Il tutto incentranto sulla ipocrisia regnante nel contesto sociale contemporaneo, che caratterizza tutti gli ambiti o ogni versante e fazione.
Protagonisti visibili o occulti, che però condizionano assai fortemente l’informazione e la politica, manipolano a proprio piacimento e convenienza anche la memoria della gente.
Ma, come mi ricorda spesso un caro amico e non solo lui, “na nuci n’on saccu un fa mai scrusciu” (una sola noce chiusa in un sacco non fa mai rumore).
Fake news e notizie inventate, artatamente manovrate da esperti specialisti utili allo scopo, costituiscono gli argomenti dei molti prevenuti e dei tanti tifosi orientati a mantenere le proprie facoltà cerebrali in letargo; come potesse essere solo un optional variabile, attivabile a piacimento, l’eventuale uso del cervello per il cittadino.
Seguendo questa inpostazione, per la società che ci ospita, il meglio è dedicarsi ai tanti diversivi; concentrandosi nella ricerca di soluzione per i tanti problemi (reali o artificiosi) messi in campo e, se all'occorrenza si fosse chiamati, esprimere più semplicemente opinioni basate sul sentito dire. Chi conduce le danze ritiene (e da tempo) che l’approfondimento e il controllo è più consono e appropriato che lo svolgano altri per noi.
Siamo ormai tutti pronti per le prossime amministrative e a seguire l’elezione del nuovo (??) Presidente della Repubblica, navigando a vista istituzionalmente in un “semestre denominato bianco”.
Al cittadino comune rimane oggi solo il compito di sventolare a piacimento la propria bandiera, evitando possibilmente di scendere in piazza per non arrecare disturbi ai manovratori, atteso che - grazie al progresso - ciascuno può ben veicolare sui social con i tanti emoji ogni eventuale malcontento.

Buona luce a tutti!

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giovedì 26 agosto 2021

Ernesto Bazan – Un fotografo asceta



Molti di noi possono raccontare di accadimenti nella vita che apparentemente non trovano una spiegazione logica, come premonitori di fatti o vere e proprie combinazioni irrazionali.
Sono spesso cose che lasciano interdetti e che portano a prefigurare disegni e destini ispirati a scopi che travalicano il nostro raziocinio.
Poi hai modo di incontrare personaggi che in qualche modo testimoniano quanto di trascendente e inspiegabile può succedere nel quotidiano, con strani intrecci che sembrano guidati da ciò che comunemente siamo portati a chiamare fato.
Tutto ciò porterebbe a dire che nella vita non tutto è frutto o è una lasciato al caso. Ciascuno di noi troverà proprie spiegazioni, anche se non sarà possibile comprovare le proprie tesi.
Ernesto Bazan racconta di come ha avuto modo di rientrare a Cuba attraverso un sogno premonitore della sua compagna Sissi.
Costretto nel 2006 ad abbandonare la sua casa a L’Avana, in quanto “persona non gradita”, una mattina a Brooklyn, nel 2015, Sissi profetizzò ad Ernesto d'aver sognato che era diventato possibile ritornare nell'isola caraibica. Comunicò la cosa vivendola come fosse vera e, per verificare la fattibilità della svolta, si recò subito all’ambasciata cubana, non solo per avere conferma del possibile rientro del marito, ma anche per accertare di poter tornare nella sua veste naturale di fotografo e, quindi, di aver riconosciuto come lecito quel ruolo professionale che in passato era stata causa dell’esilio.
Tutto corrispose alla premonizione sognata e gli accadimenti successivi determinarono per Ernesto anche un grandissimo successo culturale, che è stato ben documentato dai filmati che raccontano anche di una sua grande mostra fotografica realizzata in terra di Cuba.
Bazan, in un video postato su You Tube nel 2020 da “Promirrorless” (https://youtu.be/TELssDiDZ88) ha anche raccontato un’altra vicissitudine strana accadutagli.
Durante un’operazione di pulizia casalinga a Veracruz, nella sua nuova residenza messicana, un vecchio libro su temi di mecicina chirurgica scritto dal padre era stato oggetto di “sbarazzo”. In verità la donna che collaborava nelle pulizie generali, casualmente vide nel sacco di plastica che raccoglieva i rifiuti questo libro; lo recuperò per chiedere e verificare se era il caso di buttarlo veramente.
Per Ernesto fu una sorpresa doppia, sia perché non ricordava di aver ricevuto e conservato quest’unico volume sopravvissuto, sia per la dedica che il padre aveva fatto al piccolo nipote - allora più o meno adolescente - e a insaputa di tutti.
In qualche modo Pietro Bazan senior aveva annotato che il piccolo Pietro avrebbe intrapreso la professione di medico, perpetuando l’esercizio della professione di chirurgo del nonno; cosa che a distanza di tanti anni si è poi puntualmente realizzata.
Ascoltare queste storie dalla viva voce di Ernesto Bazan suscita anche una stana atmosfera. L’alone mistico che avvolge la sua figura fa peraltro apparire, quasi fosse naturale, ogni parvenza irrazionale delle sue vicende. Lui crede fermamente nel trascendente e che qualcosa di certo governa i nostri destini.
A conferma di ciò lega anche la sua scelta di vita, di diventare fotografo, anche a una premonizione che gli accadde in un sogno all'età di diciassette anni.
Queste convinzioni e i racconti delle sue esperienze di vita hanno fatto di Bazan quasi un asceta.
Assistere a una sua performance professionale, anche per la sua costante ricerca d’interazione, è coinvolgente; ma ancora di più ascoltare questi suoi tanti aneddoti, che intercala e narra come fossero delle vecchie storie; come delle normalità che la vita propone in modo variegato - e personalizzandole - a ciascun individuo, a prescindere che se ne possa avere piena coscienza.
Un altro interessante video su Ernesto Bazan, corredato da ricche immagini fotografiche tra quelle raccolte nell'ultimo suo libro "25 Noviembre", è consultabile pure su You Tube, proposto dal Museo Nazionale della Fotografia - CineFotoClub Brescia (https://youtu.be/QmB-3XcKEZg).
Un mix tra slide show e video, racconta la mostra del 2016 a Palermo, presso lo ZAC dei Cantieri Culturali alla Zisa, ed è accessibile tramite https://youtu.be/7NKn4cNMzfM

Buona luce a tutti!

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venerdì 20 agosto 2021

Giovanna Calvenzi: “Le cinque vite di Lisetta Carmi”



Una regola che permane costante nella letteratura e non solo è quella che più si legge e più si allargano conoscenze; l’acculturamento attraverso nuovi scritti e scoperte di personaggi aggiungono sempre qualcosa al bagaglio conoscitivo che ingloba ogni cosa.
Sinapsi nuove permettono pertanto l’accumulazione catalogata d’informazioni che, elaborando nuovi input al preesistente, producono variazioni che elaborano continuamente i pensieri o, in alcuni casi, inducono perfino a rivedere e a ripensare punti di vista che apparivano quasi definiti.
Lo studio e l’applicazione presuppongono pertanto una rivisitazione continua del nostro modo di essere, atteso che a sua volta, quest’ultimo, deriva anche da concezioni generazionali preesistenti strutturate nel DNA tramandatoci nel tempo.
E torniamo sempre alla solita questione. Quella che porta a chiederci cosa c’è di veramente originale e nuovo nell’evoluzione continua del pensiero umano.
In questo dilemma si accomuna anche la fotografia, laddove si suole dire che l’esercizio fotografico ci porta a congelare in un click ciò che la nostra cultura sa riconoscere. Quindi corrisponde al vero il fatto che molte sono le realtà presenti nel quotidiano e che, fino ad un certo punto, risultano sconosciute, anche per le differenti evoluzioni umane.
In questo, le scoperte sono costatazioni di fatto, frutto di prolungate osservazioni o, più semplicemente, d’occasionali accadimenti colti da delle menti studiose e attente.
Mentre però negli ultimi millenni e anche per la deriva dei continenti, si sono mantenute evoluzioni culturali differenziate a causa delle diverse enclavi in cui si è diversificata la razza umana, oggi, nell’era della globalizzazione, il pensiero unico è più che mai corrente. Ne deriva che le comunicazioni, frutto di un’evoluzione tecnologica sempre più efficiente, consente cognizioni diffuse di tutte quante le scoperte, scientifiche o di ogni qualsivoglia mutazione culturale delle diverse razze che coabitano il pianeta. Ma, come spesso capita, ogni medaglia ha pure un suo rovescio.
Coniugare le positività che possono derivare da un progresso che beneficia di comunicazioni pressoché universali d’ogni evento è anche un aspetto che si scontra con l’indole negativa conosciuta e connaturata alle debolezze della natura umana. Non bastano quindi sistemi politici e religioni definite aperte, quando anche l’istinto dell’uomo più evoluto ha a che fare con i suoi aspetti primordiali reconditi, legati ancora al tempo dell’istinto per la sopravvivenza. Anche se oggi questi caratteri sono principalmente rivolti all’affermazione dell’ego, inteso non solo in senso di singolo, ma anche di clan, gruppi etnici e appartenenze organizzate in ambiti socio-culturali e riconosciuti unilateralmente a modelli.
Sono quelle false verità che inducono talvolta a crederci superiori, per razza, fede, assetto politico e quant’altro, fino a illudere di poter esportare ad altre culture quella che definiamo fideisticamente come nostra democrazia. Le tante visioni poco illuminate degli assetti socio-politici che si riciclano periodicamente, affollando il pianeta, e che ci accompagnano nel tempo, rappresentano una delle basi su cui si continuano a mantenere e ad alimentare le molte conflittualità ideologiche e le correlate inevitabili guerre (dichiarate o sottese ha poca importanza).
Se poi pensiamo alla breve invenzione della scrittura e che molta dell’avventura umana si era sempre basata sulla trasmissione orale delle storie, tenuto anche in conto che ogni vincitore ha teso sempre a trasmettere come storia veritiera il proprio punto di vista, sono stati pure certamente tanti i personaggi “atipici” offuscati o cancellati nel e dal tempo.
Quest’ampia premessa mi è stata suscitata dall'attualità politica, associata in parte alla lettura dei contenuti del libro “Le cinque vite di Lisetta Carmi.
Un volumetto con il quale Giovanna Calvenzi racconta e raccoglie testimonianze su un'affermata fotografa un pò bizzarra del nostro tempo che, all’apparenza, ha dell’inverosimile, ma che se poi l’accosti ad altri personaggi e alle relative storie, ti accorgi che non costituiscono anomalie ma delle sorprendenti eccezioni che si elevano nel panorama umano che ci accompagna.
Il tema messo in campo è alquanto ampio e difficile da sviluppare in un breve scritto. Ognuno, in ogni caso, avrà avuto già modo di riflettere sopra molti degli aspetti accennati e sicuramente saranno tante le riflessioni che hanno portato a differenti convincimenti.
Tornerei quindi all’argomento fotografia e di come l’azione della Carmi si correlazioni in qualche modo ad esso.
Le diverse fasi di una vita del personaggio in questione, quasi divisa in parentesi temporali di un calcolo algebrico, costituiscono esempio di come molto talvolta le esistenze di alcuni soggetti si compongono di tanti blocchi; che si alimentano e integrano col solo intento di compenetrarsi in contaminazioni che tendono a completare cicli più complessi, che ambiscono a proporsi via via in significative composite sintesi.
Le cinque vite della Carmi narrate dalla Calvenzi, arricchite anche da apporti scritti da altri personaggi che sono stati testimoni diretti delle diverse fasi esistenziali raccontate, consentono di cogliere l’essenza di una personalità che persegue costantemente per prima cosa una ricerca su se stessa. Attraversando esperienze diverse che rimangono legate e che comunque si arricchiscono durante lo scorrere del tempo lungo la vita.
La complessità dell’individuo Carmi potrebbe quasi paragonarsi all’esperienza parallela e accomunata di cinque personaggi che potrebbero anche essere state delle persone diverse che costituiscono un clan, con una filosofia esistenziale consociata, ricca di interscambi, indirizzata a un unico intento.
Rientrando nel solo tema fotografia, la citazione attribuita alla Carmi, riportata in quarta di copertina nel libro, con la quale la stessa afferma che “una fotografia non è mai esistita nella mia testa prima dello scatto: io vedo ciò che c’è, vibro con ciò che c’è, mi emoziono con ciò che c’è”, potrebbe indurre ad aprire un altro ampio discorso sulle tante progettualità ostentate e portate avanti da molti fotografi.
Risulterà in ogni caso utile soffermarsi sulla verità affermata, che enfatizza la sensibilità individuale che guida il fotografo che opera in campo, su cui tanto e da sempre si dibatte.
Nel corpo del volume, e specificatamente in quattro pagine del libro (pagg. 62-65) la Calvenzi riporta uno stralcio di una tesi di laurea di Patrizia Pentassuglia (Una vita alla ricerca della verità. L’esperienza fotografica di Lisetta Carmi), che allarga ulteriormente il pensiero della Carmi riguardo alla fotografia più in generale e non soltanto.
Brevi domande circostanziate poste dalla laureanda e le corrispondenti risposte precise e esaustive della Carmi, forniscono una visione lucida e semplice di quello che per lei è stata sia la fotografia che le sue visioni di vita correlate. Nelle diverse fasi, nelle componenti e nelle regole, comprendendo in ciò anche la funzione dei mezzi impiegati e il relativo utilizzo attuato per documentare, raccontare, interpretare l’insieme che è ha determinato le sue produzioni fotografiche. Poco importa se per l’ottenimento una singola fotografia o per la raccolta di un gruppo d’immagini.
Si parte dall’importanza della didascalia per una foto e a considerazioni che si richiamano a punti di vista di autori come Arbus, Weston, Sontag. Per dare una chiara visione del punto di vista della Carmi sui fotografi di ogni tempo, può risultare utile parte della riscposta in cui afferma che “Ci sono fotografie che restano come modelli di perfezione. Volendo fare dei nomi: Robert Capa, Werner Bischof, Ansel Adams, Henri Cartier Bresson; le loro immagini resteranno nel nostro inconscio come una ricchezza che non ci lascerà mai più”. Una chiave di verità che tutti noi conosciamo e che, più o meno, ciascuno spesso mette in campo nel momento in cui si accinge a leggere una scena e a comporre la propria fotografia.
I vincoli di copyright non consentono di riportare più ampiamente i testi a cui si fa cenno, occorrerà nel caso attivarsi per prendere visione di una copia della tesi della Pentassuglia o del piccolo volume di meno di 200 pagine della Calvenzi che, corredato anche da parecchie immagini in bianco e nero, è proposto dalla casa editrice Bruno Mondadori (edito nel febbraio del 2013).
In conclusione occorre anche ricordare che le tante vite che compongono il vissuto artistico o esistenziale di ogni individuo, costituisce spesso una normalità. Fra i fotografi famosi spicca Henri Cartier Bresson che, frequentando molti intellettuali del suo tempo, nasce pittore e che dopo essersi affermato in fotografia, ritorna alla sua passione di un tempo. Per quanto possa tornare utile, nel blog che ho creato nel momento dell’apertura del mio tempo di quiescenza ebbi, ad esempio, a scrivere a proposito di blocchi esistenziali: "Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Buona luce a tutti!

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martedì 17 agosto 2021

Per come vanno le cose ....



Nel suo editoriale di oggi, incentrato sulle tristi vicende afgane, Marco Travaglio conclude citando, tra l’altro, una lucida lettura espressa dal compianto Gino Strada, in merito all’attendibilità della stampa assoggettata ai padroni.
Il periodo che conclude lo scritto recita: “L’attacco alle Twin Towers fu un puro pretesto. Non c’era un solo afghano fra gli attentatori né nelle cellule di Al Qaeda. Solo sauditi, egiziani, giordani, tunisini, algerini, marocchini, yemeniti. Non afghani o iracheni. Infatti furono attaccati Afghanistan e Irak (nel 2003, con la scusa delle armi di distruzione di massa, mai viste, e di un inesistente patto fra Saddam Hussein e Bin Laden, che si erano condannati a morte a vicenda: poi Osama fu ucciso in Pakistan, che nessuno si sognò d’invadere). A Kabul la guerra al terrorismo, costata 3mila miliardi $ solo agli Usa, ha riabilitato i Talebani. A Baghdad ha prodotto l’Isis. Nel febbraio 2003 Gino Strada predisse come sarebbe finita e fu accusato di filo-terrorismo. Francesco Merlo, non ancora passato a deliziare i lettori di Rep, lo additò sul Corriere come un “Signor Né Né”. Gino rispose così: “Signor Merlo, ho l’impressione che il partito della guerra del petrolio non passi un gran momento… Gli amici dell’‘amico George’ imbavagliano l’informazione in modo da renderla indistinguibile dalla propaganda – ne sa qualcosa, Signor Merlo? – eppure la gente non li ascolta. Rendono i telegiornali molto simili al Carosello, eppure le persone continuano a pensare, a porsi domande… Ho la sensazione che non filerà via liscia, che i cittadini si siano stancati di fare da telespettatori, che i padroni delle testate debbano rassegnarsi a non essere anche padroni delle teste…”. Oggi l’Afghanistan torna a vent’anni fa. Invece la stampa italiana non s’è mai mossa.”
Primo obiettivo nel fare giornalismo dovrebbe essere quello di assolvere al dovere di cronaca.
Un buon editore dovrebbe dare un adeguato spazio all’informazione e, a prescindere dalla pagina d’inserimento e al numero di righe dedicate agli avvenimenti raccontati, fornire ai lettori le notizie in quanto tali; possibilmente astenendosi dal preconfezionare opinioni indirizzate pregiudizialmente, evitando possibilmente di riportare parti estrapolate dall’intero contesto per indubbie convenienze.
Per come vanno le cose, appare però deprimente dover ascoltare o leggere i tanti pseudogiornalisti impegnati a far conoscere le loro opinioni su ogni cosa, imponendole, come se fosse necessario dover aiutare il "povero lettore" a capire le evidenze che, gioco forza e guarda caso, collimino solo con il loro punto di vista.
I primi piani dedicati dalle regie, si soffermano lungamente sull'inquadrare i soggetti e confondere chi s’imbatte all’ascolto. Chiome fluenti della giornalista femmina, atteggiamenti emblematici dei colleghi maschi.
Assistere ai telegiornali o leggere i quotidiani non risulta pertanto facile per acquisire gli elementi necessari a capire la verità dei fatti, ancor meno qualora non si abbia una propria visione delle cose indipendente; se non si è preparati perché non dotati di uno minimo spirito critico, che si alimenta solo con conoscenze di pareri dissimili o anche contrapposti.
Ormai i media non pubblicano notizie per informare la gente ma espongono o adombrano gli accadimenti agendo più da influenzer, non secondo l’importanza degli accadimenti oggetto d’informazione ma orientando il pubblico in relazione all’indirizzo editoriale imposto da interessi di parte.
Sostanzialmente, quindi, oggi non si salva quasi più nessuno. Solo rare eccezioni assicurano la copertura dell'informazione sui fatti di cronaca. Ma attenzione, non è solo colpa del mondo mediatico, molto dipende anche dalla pigrizia di un popolo distratto e incanalato a ricercare ciò che è utile ad assecondare propri bisogni; se veri o fittizi, spontanei o indotti, ha poi poca importanza.
Trovo utile, per dare maggior rilievo a questo pezzo, chiudere con le parole che Vauro dedica all’amico scomparso in questi giorni e per il quale Moni Ovadia dice: “Ora non si merita la retorica melensa, per rendergli onore l'Italia deve sostenere le sue iniziative”.
Vauro scrive, a sua volta, basandosi su esperienze comuni e dirette: “Gino Strada se n’è andato. Capitava. Ci capitava, in Afghanistan come in Iraq, come in tanti luoghi di guerra, di restare senza parole davanti all’orrore ed alla sofferenza. A volte insieme le cercavamo per denunciare il crimine che è la guerra. Dovevamo trovarle e le trovavamo. Io invece oggi non ne trovo per dire il dolore che la scomparsa di Gino mi provoca dentro. Non le trovo perché non possiamo più cercarle insieme. Addio caro Gino.”

Buona luce a tutti!

© ESSEC

lunedì 2 agosto 2021

Gesuiti. Uso e abuso politico di Todo Modo



Fabrizio D’Esposito, in un articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano oggi e intitolato “Gesuiti. Uso e abuso politico di Todo Modo: gli esercizi di sant’Ignazio nella lotta della vita”, ha scritto: “Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina”. “Ogni mezzo per cercare e trovare la volontà di Dio”. Todo modo: dal romanzo di Leonardo Sciascia al film di Elio Petri e per finire alle analogie presunte con il “Whatever it takes”, “A ogni costo”, del premier onnisciente e “gesuita” SuperMario Draghi. Una citazione che ciclicamente torna in auge ma che a pronunciarla spesso rischia di diventare fine a se stessa, in senso sia politico sia onomatopeico, giusto per il suono riprodotto in qualche salotto tv.
Al di là d’ogni considerazione specifica, questa premessa all’articolo coglie un punto importante riguardante la dottrina filosofica che orienta i tanti uomini di formazione gesuita i quali, in vari campi, occupano spesso ruoli rilevanti nel panorama contemporaneo e non solo nazionale.
Una più attenta rilettura della storia dovrebbe portare a riconsiderare alcuni aspetti degli insegnamenti dell’ex soldato spagnolo Ignazio da Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, convertitosi al cattolicesimo nel maggio 1521.
Vero è che l’insegnamento lasciato ai posteri da sant’Ignazio, come evidenzia D’Esposito, rappresenta una svolta per essere una visione meno statica della dottrina cattolica manifestatasi fino a quei tempi, per “un divenire continuo per ogni esercitante”, ma sono anche inconfutabili i risultati pratici, spesso negativi, che sono stati espressione della scuola gesuita attuata nel tempo.
A ogni buon conto, comunque, più che affidarsi ciecamente a pseudo illuminati (supportati da facili slogan) in questi deserti d’idealismi contemporanei, il pragmatismo moderno dovrebbe indurre più alla perseverante pratica del produttivo confronto politico e sociale, per mitigare anche le tante intransigenze e ogni forma estrema che facilita il proliferare di tanti miopi proselitismi.
In conclusione, l’articolo di D’Esposito, rapportato all’esperienza politica dei giorni nostri, dovrebbe indurre tutti quanti noi a privilegiare una certa prudenza e applicare nelle nostre analisi sempre maggiori attenzioni.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

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Monte Pellegrino visto dalla borgata di Acqua dei Corsari

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