"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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venerdì 9 marzo 2018

Qui comincia l'avventura dei Cinque Stelle


Non vorrei aver l’aria di sminuire la straordinaria vittoria del Movimento Cinque Stelle (in fondo sono stato uno dei pochissimi intellettuali, insieme a Travaglio, a partecipare al primo, e irriso, ‘Vaffa’ di Grillo) dovuto all’impegno dei suoi militanti, al suo programma, alla grande abilità di Di Maio (altro che “uno che ha solo un bel visino” come lo definì il geronte Berlusconi) ma almeno una parte del trionfo dei ‘grillini’ è dovuta alle stesse ragioni che hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca. Quando il ceto medio americano si è accorto che quella madonnina infilzata di Hillary Clinton aveva dalla sua parte tutta la finanza internazionale, tutti i più importanti giornali internazionali, tutto lo star system di Hollywood si deve esser chiesto “ma costoro mi rappresentano?” e ha votato ‘the Donald’. Così quando una parte degli italiani vessati e di fatto impoveriti da una partitocrazia sempre più arrogante e corrotta ha visto che tutti i partiti e tutti i giornali che a loro fanno riferimento (cioè la totalità, fatte un paio di eccezioni) si accanivano contro i Cinque Stelle con gli argomenti più pretestuosi, falsi e ridicoli deve aver capito che l’unico movimento veramente antipartitocratico, o se si preferisce antisistema, era proprio quello fondato da Beppe Grillo. Della malafede e della straordinaria spudoratezza delle accuse mosse ai Cinque Stelle può essere presa come esempio Virginia Raggi che non aveva avuto ancora il tempo di mettere piede in Campidoglio che subito si è scoperta la monnezza di Roma, i topi di Roma, i maiali di Roma e in seguito è stata accusata della siccità di Roma e poi della pioggia e della neve cadute su Roma e quindi ancora del dissesto delle Ferrovie dello Stato che sono appunto di Stato e non del Comune capitolino. Ma è, appunto, solo un esempio degli infiniti, e ancora più gravi, che si potrebbero fare.
Dopo una vertiginosa ascesa durata cinque anni i veri problemi per i Cinque Stelle arrivano ora. Ho sempre scritto che i difetti dei Cinque Stelle dipendono dai loro pregi. Legalità, trasparenza, incorruttibilità, la volontà ferrea di non accettare alcun compromesso sono stati i loro vincenti cavalli di battaglia, ma adesso o accettano una qualche mediazione o resteranno una fortissima forza di opposizione che però in quanto tale non conterà nulla perché nulla hanno mai contato le opposizioni in Italia, se si eccettua il caso del Pci che però per avere voce in capitolo dovette consociarsi col potere democristiano e socialista, cioè non fare più l’opposizione.
In linea teorica i Cinque Stelle possono allearsi con tutti, perché nel loro Movimento ci sono fattori sia di sinistra che di destra oltre alcuni del tutto nuovi che sono i più interessanti perché i Cinque Stelle hanno finalmente capito (come l’aveva capito a suo tempo Umberto Bossi) che Destra e Sinistra sono due categorie ormai superate dalla storia perché non sono in grado di comprendere le esigenze più profonde dell’uomo contemporaneo, che sono esistenziali e non più solamente economiche.
Con tutti si possono alleare i Cinque Stelle tranne che con Forza Italia e il suo leader che hanno fatto della illegalità, intesa sia in senso penale che politico e morale, la loro bandiera. Lo ha ribadito l’altra notte, forse senza nemmeno rendersi conto della gravità di quanto stava dicendo, Renato Brunetta quando ha affermato che se la coalizione di centro-destra fosse arrivata ad avere 260 seggi alla Camera non le sarebbe stato difficile comprare o corrompere la sessantina di deputati mancanti (i metodi li conosciamo, De Gregorio docet).
Silvio Berlusconi è stato dato per politicamente morto mille volte, ma il 5 marzo è “scaduto” davvero come teneva spiritosamente scritto sul petto la ragazza col seno nudo mentre andava al seggio.
E noi che abbiamo contestato il Grande Imbroglione da quando nel 1986 fece la sua prima vistosa apparizione pubblica presentando all’Arena un Milan totalmente americanizzato, possiamo finalmente chiudere gli occhi serenamente.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2018)

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Lettera di Renato Brunetta a Massimo Fini

Gentile Direttore,

ho letto con sconcerto un articolo pubblicato ieri dal Suo giornale – ‘I problemi per i 5 stelle arrivano ora’ – e firmato da Massimo Fini. Tralascio le offese a Forza Italia e a Berlusconi – abitudini alle quali ‘il Fatto Quotidiano non riesce proprio a sottrarsi – ma non posso soprassedere sulle falsità riportate nel pezzo in questione e che riguardano il mio pensiero sul post voto.
Secondo Massimo Fini il sottoscritto, per tentare di formare un governo a guida centrodestra, vorrebbe ‘comprare o corrompere la sessantina di deputati mancanti’. Un vero e proprio insulto, una mistificazione inaccettabile della realtà che rispedisco al mittente e nei confronti della quale mi riservo di adire le vie legali per difendere l’onorabilità della mia persona e la verità dei fatti.
Nelle analisi dei possibili scenari per la formazione di un governo, ho dichiarato nei giorni scorsi che potrebbero esserci dei cosiddetti ‘responsabili’ a sostegno della maggioranza di centrodestra che ha vinto le elezioni, che in Parlamento si potranno formare gruppi di deputati e senatori concordi con questa ipotesi e che, naturalmente, l’operazione dovrà trovare il benestare del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
È incredibile affermare una cosa, scandirla bene, spiegandola con le relative motivazioni, e trovare poi sui giornali falsità e assurdità di questo tipo. Non è la prima volta che Massimo Fini utilizza simili squallidi mezzucci. Faremo in modo che perda il vizio…
Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia

Il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2018

Brunetta minaccia, ma stia attento allo score
Il forzista annuncia querela per l’articolo sulla sua “chiamata” ai responsabili.

Confesso che la minacciosa lettera dell’onorevole Renato Brunetta mi preoccupa. Nella mia ormai quasi cinquantennale carriera di giornalista ho avuto 23 processi per diffamazione. E li ho vinti tutti: 23 su 23. Uno score degno di Cristiano Ronaldo o Robert Lewandowski o Edinson Cavani (irriconoscibile l’altra sera contro il Madrid). Ma non è detto che non possa perdere il ventiquattresimo, se l’onorevole Brunetta avrà la bontà di convenirmi in giudizio. Ogni partita fa caso a sé. Anche perché le precedenti erano partite facili, come giocare contro il Benevento senza per questo pretendere di essere la Juventus o il Napoli. L’onorevole Cesare Previti mi citò in una causa civile per quel che avevo scritto, a commento dell’articolo, in cui Giovanni Ruggeri si occupava dei rapporti fra lui e l’orfana Annamaria Casati Stampa, nel suo libro Berlusconi. Gli affari del Presidente, parlando di un vero e proprio raggiro ai suoi danni. Io con tre successivi editoriali sull’Indipendente del maggio 1995 lo costrinsi, non senza una certa fatica, a farmi causa perché mi pareva importante sapere se un ex Presidente del Consiglio e un ex Ministro della Difesa si fossero davvero resi responsabili di un atto così grave, come quello descritto da Ruggeri, cosa che mi pareva impossibile. Con sentenza del 2.5.08 la Corte d’Appello di Roma ha rigettato la domanda, riconoscendo che avevo legittimamente esposto il mio pensiero. In altra occasione l’avvocato e parlamentare socialista Achille Cutrera mi querelò perché avevo parlato dei suoi rapporti con Salvatore Ligresti e il costruttore Brenta, smascherando così, con largo anticipo su Mani Pulite, il sacco edilizio di Milano. Venni assolto. Un altro querelante è stato la buonanima del missino Teodoro Buontempo, detto “er pecora”. Come si può vedere sono ‘trasversale’ anche come querelato.
La minacciata querela di Renato Brunetta è importante. Poiché Brunetta è un uomo d’onore. E quindi merita che alle sue doglianze si risponda con attenzione e il dovuto rispetto. Veniamo quindi al punto. Nella lunga maratona elettorale di Sky Tg24 all’affermazione di Brunetta che se il centro-destra avesse preso 260 deputati non gli sarebbe stato difficile raggiungere i 316 necessari per la maggioranza, qualcuno in redazione, non ricordo se la brava e bella Ilaria D’Amico o l’altrettanto brava e bella Veronica Gentili o il conduttore della trasmissione o altri, gli chiese come sarebbe stato possibile per il centro-destra accaparrarsi più di 50 deputati ad esso estranei. Brunetta rispose ridacchiando: beh, ci sono ‘i responsabili’ o così almeno vengono chiamati (altro ridacchio), dando a divedere, almeno ai miei occhi, che per ‘responsabili’ non intendeva persone che avrebbero agito per senso di responsabilità ma per qualche altro meno confessabile motivo. Ricordo all’onorevole Brunetta che la compravendita di un soggetto non si concreta solo con la dazione di una stecca di denaro, attività cui peraltro il gruppo politico cui appartiene lo stesso Brunetta non sembra essere alieno vista la condanna del Tribunale di Napoli a tre anni di reclusione a Silvio Berlusconi per aver corrotto, perché cambiasse casacca, il senatore Sergio De Gregorio con tre milioni di euro (reato poi prescritto), ma anche quando si procura a taluno un’ingiusta utilità.
Nella sua lettera Renato Brunetta scrive “non è la prima volta che Massimo Fini utilizza simili squallidi mezzucci”. Mi piacerebbe che Brunetta, che è un uomo d’onore, invece di limitarsi ad affermazioni generiche indicasse in quali occasioni io avrei fatto uso di “simili squallidi mezzucci”. Anche parlare riferendosi a me di “squallidi mezzucci” è un’offesa passibile di querela. Ma io non querelerò perché non ho mai querelato nessuno. Per difendermi ho la mia penna, anche se certamente non ha la stessa potenza di fuoco di cui può disporre un parlamentare della Repubblica, numero due o tre di un potente partito, come l’onorevole Renato Brunetta.





sabato 3 marzo 2018

Per chi non voto domenica



"Tempo pessimo per votare". L'incipit del Saggio sulla luciditàdi José Saramago sembra scritto per questi giorni. E non per questa coda crudele di inverno, ma per lo sfilacciamento terribile del tempo politico, civile, sociale in cui il popolo italiano è chiamato a votare. Nel romanzo di Saramago quelle elezioni finiscono con il 70% di schede bianche. Vengono ripetute: e le schede senza voto salgono all'83%.
Provando a guardare con un briciolo di lucidità alle elezioni di domenica prossima, ci sarebbe da aspettarsi che finiscano nello stesso modo. Quasi da desiderarlo. E se tutti coloro che non sanno cosa votare andassero comunque a depositare una scheda nelle urne, quello sarebbe davvero il risultato finale.
Mai così grande è stata l'incertezza e lo spaesamento: a sinistra, intendo. Perché il blocco ormai dichiaratamente fascista ha invece le idee assai chiare. Se, come sembra certo, vincerà la Destra, questa destra orrenda, potrà farlo grazie alla scomparsa della Sinistra: che si è progressivamente spostata a destra, fino a essere inutile, come il sale che perde il suo sapore. E che serve solo a essere calpestato dagli uomini.
Io non lo so ancora per chi voterò. So che al seggio ci andrò: troppo sangue è costato il diritto di tornare a votare, troppo pericoloso dare una mano al suicidio della democrazia.
Ma per chi votare? Per chi vota un cittadino che vorrebbe vedere attuato il progetto della Costituzione? Uno che pensa che lo sguardo più rivoluzionario sul mondo sia oggi quello della Laudato sii di Francesco; uno che si riconosce fino in fondo nell'analisi di Tony Judt; uno che voterebbe senza esitazioni per Corbyn?
Non c'è bisogno di spiegare perché il Pd (non solo questa roba terrificante del Pd di Renzi, ma già quello di Veltroni e anche il Centrosinistra dalla fine degli anni Novanta) rappresenti esattamente il contrario delle mie idee.
Ho provato ad argomentarlo nella relazione di apertura all'assemblea del Brancaccio del 18 giugno scorso. Ho provato a spiegare perché il Pd è una forza di destra. E dunque si capirà perché credo che non si possa votare non solo questo Pd, ma neanche tutta le forze che si coalizzano con esso: da Insieme sostenuto da Romano Prodi (che triste epilogo!), a Più Europa di Emma Bonino. Dichiaratamente liberista, la Bonino: socialmente di destra, ultra-atlantista, berlusconiana al momento giusto. E oggi madonna del rifugio per i benpensanti destro-renziani, fintamente pentiti.
Sulla grigia compagine di Liberi e Uguali penso purtroppo le stesse cose che pensavo quando mi sono rifiutato di partecipare alla sua nascita. Anche peggio: era difficile fare tutto il contrario di ciò che si doveva fare. Ma lo si è fatto, in una climax ascendente di masochismo.
Lo dico con estremo rispetto per i militanti (in buona parte, peraltro, depressi e delusi) e con un senso terribile di frustrazione, ma LeU è l'operazione di un ceto politico disperatamente, e ostentatamente, impegnato a sopravvivere.
Un raggruppamento che si distingue dal Pd per l'assenza del Giglio Magico. Mica poco, mi direte. Vero: ma se quel Giglio sparisse, LeU riconfluirebbe subito nella pancia del Pd. Perché la sua visione del mondo e della politica è la stessa del Pd di Bersani del 2013: come certificano l'invenzione della "leadership" surreale di Piero Grasso; un programma troppo spesso vago, moderato, compromissorio; il rifiuto proclamato di abolire la Fornero; l'alleanza con Zingaretti del Piano Casa del Lazio; l'orribile spartizione delle liste; la totale assenza di democrazia interna, e molto altro ancora.
Nelle ultime ore si sono annunciate due cose. La prima è che LeU, dopo il 4 sarà un partito: e viene da piangere, pensando che per cucinare questo improbabile polpettone si è passata al tritacarne Sinistra Italiana, infinitamente più attraente, promettente, carica di futuro.
A me viene anche un po' da ridere, ricordando che tra Cosmopolitica e Rimini mi fu offerto di fare il segretario di SI: declinai; non è il mio mestiere, non l'avrei saputo fare. Ora mi accontenterei di poterla votare: e invece non esiste più.
Uccisa in culla con un cinismo raggelante. La seconda l'ha detta l'ineffabile Grasso: LeU è pronta a un "governo di scopo" con Berlusconi e Renzi, ma solo per fare la legge elettorale. Ora, è evidente che un governo governa, se non altro governa l'ordinaria amministrazione. Al minimo per i molti mesi (o anni) necessari a che in Parlamento si trovi la quadra di una nuova legge elettorale.
E davvero si può dire a tre giorni dalle elezioni che una forza che si presenta come alternativa e radicale sarebbe disposta a stare in un trappolone del genere? Sono seguite smentite che non smentivano, correzioni di rotta, vibranti dichiarazioni contrarie dei più giovani segretari.
Ma se il presidente del Senato (che sa bene che la legge elettorale la fa il Parlamento) parla di un governo, è un lapsus freudiano: che fa tornare il rimosso di un'ambiguità evidente fin dall'inizio. Se Draghi, Mattarella, l'Europa o qualche altra superiore autorità chiederà "responsabilità", i responsabili di LeU, che fino a ieri stavano nel Pd, scatteranno sull'attenti. Legittimo almeno temerlo, a questo punto.
E così no, non voterò per Liberi e Uguali. Pur ammettendo che avrei difficoltà a non farlo se nel mio collegio ci fosse una delle tante persone degnissime di stima che con LeU alla fine si sono candidate, più o meno col naso turato: Paola Bonora, Sergio Cofferati, Anna Falcone, Sandra Gesualdi, Filippo Miraglia, Claudia Pratelli, Claudio Riccio, per citare solo alcuni di quelli che eleggerei a occhi chiusi.
E dunque? Si può votare Potere al Popolo? Sul piano delle idee, certo che sì: sono in gran parte anche le mie. E capisco chi sceglierà di votarli. Ma, a parte il riciclaggio di un altro pezzo di ceto politico non meno decotto (quello di Rifondazione Comunista), quello che non mi convince è il settarismo, la caricaturale violenza verbale, l'ostentato disinteresse verso la costruzione di qualcosa di più grande.
Manca una visione larga, un piacere contagioso: manca un po' di amore. Ho una grande ammirazione per il mutualismo dell'ex Opg di Napoli, ma credo che non abbia avuto molto senso tradurre quella esperienza in una lista elettorale, con questi tempi e in questi modi. Perché mentre vien giù il Pd, spero per sempre, è imperdonabile dividersi tra cinici opportunisti e sterili testimoni.
Perché è chiaro che senza tenere insieme il popolo che vota LeU e quello che vota PaP, quello della Cgil e quello delle USB, quello dell'Arci e dell'Anpi e quello dei centri sociali: senza ricucire, cioè, queste due anime in un corpo solo, non si può nemmeno iniziare a riparlare di Sinistra, in Italia.
Era ciò che il Brancaccio aveva provato a fare: sbagliando troppe cose, e dunque fallendo. Non ha senso pensare di rifarlo così: non ci si bagna due volte nello stesso fiume. Ma i nodi che il Brancaccio sperava di sciogliere sono ancora tutti lì, più serrati che mai. E si dovrà ben trovare un modo (un altro modo) per scioglierli: perché io non mi rassegno a non sapere per chi votare, per sempre.
E allora? I 5 Stelle, forse? Bisogna pur riconoscere che moltissimi cittadini di sinistra votano per loro. E che, anzi, la massa, il popolo, l'eccedenza che la Sinistra non trova più è in gran parte lì, oltre che nell'astensione.
Ci sono i più poveri, i sommersi, gli sconfitti, i ragazzi: quelli a cui la Sinistra dovrebbe ricominciare a parlare. Ma non c'è dubbio che il Movimento, così come è oggi, non è di sinistra. Per gli ambigui silenzi sull'antifascismo, per le ambigue parole sui migranti, per le parole purtroppo chiare contro la patrimoniale, e per molto altro ancora.
E soprattutto per la sua sterzata "di sistema". Mi spiego. Il motivo per cui una parte del popolo di sinistra vota 5 stelle, è perché vi vede una forza programmaticamente anti-sistema: e chiunque viene schiacciato da questo sistema è tentato di votarli, se non altro per istinto di sopravvivenza. Magari sforzandosi, o illudendosi, di sentir gridare "giustizia" (sociale) laddove invece si grida "onestà".
Ma qualcosa è cambiato: la campagna elettorale è stata tutta giocata sull'integrazione nel sistema. Lo slogan implicito "non siamo barbari" rischia di scoraggiare proprio chi – come me – vorrebbe i barbari: per abbattere un impero marcio fino al midollo.
E questo pesa anche sui calcoli di chi – con un ragionamento, limitato ma concreto e prudente – vorrebbe votare non pensando ai massimi sistemi, ma più modestamente agli equilibri del prossimo Parlamento. Chi vuole in ogni modo scongiurare un governo Renzusconi non può votare LeU (come sta diventando chiaro in queste ore); non può votare con tranquillità Potere al Popolo (perché non è detto che entri in Parlamento: anche se io lo spero); e oggi si chiede pure se può o no votare Cinque Stelle (perché non è chiaro fino a che punto arriverà questa perniciosa integrazione nel sistema).
Un dilemma reso più complesso dalle posizioni del Movimento in tema di riforma costituzionale: la sbandierata determinazione a modificare l'articolo 67 introducendo il vincolo di mandato per i parlamentari rischia di essere un vero pericolo per la democrazia.
Perché vietando il dissenso per legge, e dando tutto il potere ai capi dei partiti non usciamo dalla palude: entriamo all'inferno. (Ed è, tra l'altro, per questo che ho declinato la gentile offerta di Luigi Di Maio di essere incluso nella lista dei ministri che egli potrebbe trovarsi a portare al Quirinale). Eppure, nonostante tutto questo, non c'è dubbio: quello per i 5 Stelle è l'unico voto che Berlusconi e Renzi temano davvero. Ma basta?
E dunque, tirando le somme, che votare? Scheda bianca? E dunque non lo so: so che è "tempo pessimo per votare". E so che ci penserò ancora, e poi ancora, da qui a domenica. E so che sarà una scelta silenziosa, privata: comunque vada non orgogliosa, non sicura, non da propagandare.
Ma so anche un'altra cosa. E cioè che la politica vera, la costruzione di una politica capace di invertire la rotta dell'Italia, ricomincia il 5 marzo. Con persone, per strade, in modi che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare.



giovedì 1 marzo 2018

Lista dei ministri 5stelle, ‘surreali’ sono le critiche. Conoscere i nomi prima del voto è giusto



Il Movimento 5 Stelle, come qualsiasi altra forza politica, può piacere o non piacere. Ciascun elettore è libero di maturare il suo giudizio in base a fattori diversi. C’è chi guarda ai programmi, chi valuta le persone. C’è chi si affida all’istinto e chi invece sceglie il meno peggio o vota semplicemente contro. Spesso la croce su un simbolo è frutto di un misto tra ragionamento e sensazioni: conta quello che i partiti e i movimenti hanno fatto in passato o promettono di fare in futuro, ma pesano pure le simpatie e le antipatie.
È però sempre importante che i cittadini abbiano in mano, prima del voto, il maggior numero di informazioni possibili in modo che arrivati nei seggi possano prendere (almeno potenzialmente) una decisione davvero consapevole. Non per nulla, tanti anni fa, un liberale come Luigi Einaudi ripeteva che bisogna “conoscere per deliberare”. Si tratta di un principio ovvio e, almeno fino a ieri, a parole, da tutti condiviso.
Per questo appaiono irrazionali e, a parere di chi scrive, del tutto immotivate, le polemiche sulla presentazione agli elettori della squadra di governo che il candidato premier Luigi Di Maio proporrà ufficialmente al presidente della Repubblica nel caso in cui fosse incaricato di formare un esecutivo.
Al contrario di quanto afferma il segretario del Pd, Matteo Renzi, averlo fatto prima del quattro marzo non viola nessuna regola. Certo, probabilmente Di Maio avrebbe potuto evitare di inviare già ora l’elenco via email al Quirinale. Ma comunicare al presidente Mattarella dei nomi che di lì a poco verranno resi noti a tutti, non è un attentato alla Costituzione. Chi del tutto legittimamente invita gli italiani a votare per sé e per il proprio partito, se lo ritiene, dovrebbe invece spiegare perché considera le persone proposte inadatte per il ruolo. Definire tout court “surreale”, come ha fatto il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, l’idea di rendere pubblica la lista finisce invece solo per accentuare la convinzione che la politica voglia decidere tutto nelle segrete stanze.
Da questo punto di vista, è più razionale e democratica la polemica innestata dal dem Emanuele Fiano sul nome di Lorenzo Fioramonti, il docente di Economia politica che i pentastellati indicano come ministro dell’Economia. Fiano sostiene che Fioramonti sia a favore del boicottaggio di Israele, perché ritirò la propria partecipazione a un convegno internazionale sull’acqua a cui era stato invitato l’ambasciatore israeliano, il diretto interessato definisce “strumentale” la ricostruzione, ricordando di aver collaborato con diverse università israeliane e Di Maio assicura che il movimento è contro il boicottaggio. Ciascun cittadino, come in ogni campagna elettorale, può ascoltare le varie posizioni e può maturare un’opinione. Può cioè entrare nel merito di una feroce discussione politica intorno a un nome. Cosa che invece, guardando alle altre forze in campo, non può fare. Nessuno conosce i potenziali ministri del centrosinistra e del centrodestra. Anzi, a oggi, è persino impossibile capire quale sia il candidato premier del Partito democratico. Per statuto dovrebbe essere Renzi, ma lo stesso segretario si mantiene sul vago spiegando che il Pd ha più nomi a disposizione. Per questo, anche se si è ostili ai 5Stelle, ci si dovrebbe augurare che in futuro, in occasione di altre elezioni, tutti i partiti e tutte le coalizioni propongano in anticipo la loro squadra di governo. Perché informazione e trasparenza rendono le democrazie migliori.



Democrazia. Non basterà una scheda nell'urna a salvarla dai poteri forti



La tesi di Massimo Fini sul Fatto ("Perché l'astensione preoccupa i padroni") è che l'uguaglianza non ha bisogno di tutela, né di governanti ("gente che paghiamo perché ci comandi").  A riprova, il giornalista cita l'organizzazione sociale dei Nuer, popolazione del Sudan che non ha gerarchie, deducendo da questa particolarità un'uguaglianza perfetta. Fini si legge per apprezzarne le provocazioni. Ma su questo tema - potere, gerarchie e uguaglianza - è bene che rimangano tali, visto che non hanno alcuna attinenza con la nostra complessità.
In democrazia, chi non vota danneggia l'uguaglianza. Che non è una condizione di natura a cui si ritorna disertando le urne, ma una faticosa conquista sociale contro la legge del più forte. Tant'è che per arrivare al dominante che si astiene dal sopraffare l'inerme ci vogliono secoli di cultura, diritto, politica, fino a rendere autonoma la dignità dalla forza, con la conquista dell'uguaglianza.
La democrazia egalitaria, quindi, è un equilibrio molto precario, perché contrastato continuamente dalle forze della diseguaglianza (violenza fisica, educativa, economica). E pertanto ha bisogno di manutenzione continua, perché la legge del più forte è recidivante.
Rinunciare alla vigilanza democratica - cioè non votare, né protestare per le ingiustizie - è una cessione di sovranità, che non porta al paradiso dei Nuer, ma alla dittatura.
Quindi caro Fini, come se avessi accettato: ma preferisco difendere la democrazia in Italia.
E andare a votare. 
Massimo Marnetto


Le ‘società acefale’ erano basate su un altro elemento che a noi suona blasfemo: la violenza. Invece è proprio la possibilità della reazione individuale a limitare, in quelle comunità, la violenza e il sopruso. “Ogni Nuer ha un senso profondo della propria dignità e non tollera che sia in alcun modo intaccata”. E’ anche il venir meno del senso della propria dignità che ci impedisce di tornare a comunità tipo Nuer. Inoltre in democrazia il più forte ha strumenti così sofisticati e subdoli (economici, finanziari, mediatici, lobbies) che è pressoché impossibile combatterlo e non sarà certo l’infilare una scheda in un urna a cambiare le cose. Ci vorrebbe una rivoluzione. Ma la Storia ci insegna anche che nemmeno le rivoluzioni (francese, russa, fascista) cambiano le cose, perché a una classe dominante se ne sostituisce quasi immediatamente un’altra. E’ uno dei tanti impasse in cui si trova quell’essere tragico che è l’uomo. 
Massimo Fini (Il Fatto quotidiano, 27 febbraio 2018)


lunedì 26 febbraio 2018

Elezioni, le trappole sulla scheda che rischiano di fregare l’elettore. Manuale breve: primo, conoscere (bene) i candidati




Chi è del Pd a Bologna vota Casini e ormai lo sanno tutti. A Modena vota la Lorenzin e anche questo è noto. Chi sceglie il M5s a Potenza o a Pesaro trova Caiata, indagato per riciclaggio ed espulso, e Cecconi, emarginato in qualità di caso alfa del caos sui rimborsi. A Pontida – la culla del leghismo – chi vuole essere fedele al Carroccio e lascia la sua ics sul simbolo di Alberto da Giussano, contribuisce all’elezione di Maurizio Lupi, ex fedelissimo alfaniano e perno dei “governi dell’inciucio” di questi anni. E’ il risultato dei giochi di prestigio del Rosatellum, il sistema elettorale che regola le elezioni politiche di domenica prossima. E’ il frutto di illusioni ottiche di una legge che invita a votare un partito e usa quel voto per dare la preferenza a un candidato che non si vorrebbe e che, al contrario, invita a scegliere un candidato e usa quel segno sulla scheda per ingrossare in realtà anche il risultato di una forza politica che non si sopporta. Il Rosatellum, come ha sottolineato più volte ilfatto.it anche nei giorni dell’approvazione, nasconde molti “trucchi” che impediscono una completa libertà dell’elettore dentro la cabina. Al cittadino resta un modo per “difendersi”: trasformare il proprio voto, farlo diventare il più consapevole possibile.

Non basta il fatto che sulla scheda, per la prima volta dopo molti anni, tornino stampati i nomi dei candidati. Anche perché, a una settimana dal voto, alzi la mano chi conosce i candidati che si ritroverà sulla propria scheda. Per questo l’ex segretario dei Radicali Mario Staderini, da anni impegnato in difesa dei diritti politici dei cittadini, ha creato e messo online libertadivoto.it, una piattaforma che consente di sapere quali sono i candidati di ogni collegio. “Insieme ai compagni radicali Giuseppe Alterio e Paolo Breccia – spiega a ilfattoquotidiano.it – abbiamo voluto offrire un servizio pubblico ai cittadini, che potranno conoscere i candidati del loro collegio inserendo l’indirizzo di residenza e scoprire se, per colpa della legge elettorale, per votare il loro partito al proporzionale saranno costretti a votare anche un candidato uninominale che loro considerano invotabile“.

Per cominciare si può ricordare che la legge è un sistema misto, cioè in parte maggioritario e in parte proporzionale. Ma non sono quote equivalenti: solo un terzo dei parlamentari sarà eletto con il criterio maggioritario col collegio uninominale (dove vince chi ottiene un solo voto in più dell’avversario), mentre gli altri due terzi di deputati e senatori saranno presi da listini bloccati con il criterio proporzionale: più la lista prende voti, più eletti scattano, a partire dal capolista (che ha quasi la certezza di essere eletto) e a scendere con gli altri (ci sono in tutto da 2 a 4 nomi a seconda della grandezza dei collegi).

Tutto chiaro? No. Perché la scelta dell’elettore è obbligata, annodata, intrecciata. Vediamo di sciogliere il nodo. Primo: scegliendo il candidato dell’uninominale, il voto è “trasmesso” anche ai partiti che lo sostengono (uno o più di uno). Secondo: scegliendo il partito, il voto si riflette in automatico anche sul candidato uninominale. Terzo: non ci sono le preferenze, quindi scegliendo un partito si prende il listino bloccato così com’è (anzi, ogni segno in più comporta un rischio di annullamento). Quarto: per la proprietà transitiva – poiché scegliendo il candidato dell’uninominale si vota anche il partito che lo sostiene – si contribuisce a votare i candidati nel listino bloccato del proporzionale. Il male originale è la mancanza del voto disgiunto: è così che il voto sulla scheda del Rosatellum nasconde in realtà tre voti diversi, un gioco di specchi che può portare l’elettore dove non vuole o comunque dove non immagina.

Tutto chiaro? No. C’è un’altra regolina che distorce ancora un po’ il voto, nota forse solo agli addetti ai lavori e agli elettori più attenti. Hanno, infatti, diritto a una rappresentanza in Parlamento solo le forze politiche che raggiungono il 3 per cento. Ma gli altri voti non sono tutti uguali: quelli che vanno ai partiti non coalizzati sono ripartiti tra tutte le liste che superano la soglia del 3, mentre quelli che vanno ai partiti coalizzati e che superano l’1 vengono ripartiti solo tra le forze della stessa coalizione. Facciamola più facile: se Civica Popolare (la listarella centrista di Beatrice Lorenzin) supera l’1 ma non il 3, le preferenze andate al suo simbolo vengono redistribuite tra i partiti che nella coalizione di centrosinistra superano il 3. Cioè, secondo i sondaggi, il Pd e PiùEuropa. Ancora più chiaramente: un voto agli ex berlusconiani come Lorenzin e Casini finirà per favorire la radicale Emma Bonino e non serve sottolineare quanto siano distanti le due posizioni politiche. Vale anche per il centrodestra: se Noi con l’Italia (soggetto in gran parte formato da ex democristiani) supera l’1 e non il 3, i suoi voti saranno redistribuiti alle altre forze della coalizione. Tradotto: i voti per CesaLupiFittoQuagliariello finiranno a Salvini. Anche in questo caso un voto “moderato” andrebbe ad ingrossare idee molto più radicali.

Proviamo a sciogliere qualche nodo e passare dalla teoria alla pratica.

Primo caso. A Latina all’uninominale per la Camera è eletta Giorgia Meloni, che pochi giorni fa ha organizzato una manifestazione “anti-inciucio”. Segnando il suo nome sulla scheda, il voto sarà ripartito in quota proporzionale anche a Noi con l’Italia, in gran parte formato da esponenti che hanno sostenuto i governi di Letta, Renzi e Gentiloni. Naturalmente la stessa cosa vale per i candidati all’uninominale della Lega.

Secondo caso. A Reggio Calabria il centrosinistra (Pd e alleati) candida all’uninominale del Senato Vincenzo Mario Domenico D’Ascola, da tutti conosciuto come Nico. Cioè la quintessenza del berlusconismo, anche se lui ora si dice semplicemente “socialista da sempre”: eletto parlamentare col Pdl, è stato il legale di Gianpi Tarantini e di Claudio Scajola e anche socio dello studio di Niccolò Ghedini. Detto tutto questo: l’elettore che barrerà solo il simbolo del Pd, contribuirà all’elezione di D’Ascola.

Terzo caso. Ad Alba, in provincia di Cuneo, il Movimento Cinque Stelle ha inserito come capolista del listino bloccato per il Senato Carlo Martelli, uno dei parlamentari che ha nascosto di non aver fatto tutti i bonifici al fondo per le piccole e medie imprese. E’ stato già messo fuori dal M5s e lui dice che rinuncerà. In attesa che le parole si trasformino in fatti, Martelli sarà certamente eletto perché il suo posto è blindatissimo in un’area del Nord in cui i Cinquestelle peraltro vanno piuttosto bene. Votando il simbolo del M5s, l’elettore farà eleggere Martelli.

Quarto caso. A Sesto Fiorentino il candidato all’uninominale del centrosinistra è Roberto Giachetti. Parlamentare del Pd, è ex radicale nei modi (si ricorda il suo sciopero della fame per la riforma elettorale) ma anche nei temi, soprattutto sui diritti civili. E’ suo un ddl per la legalizzazione della cannabis, su biotestamento e unioni civili si potrà immaginare come la pensa. Ma nello stesso collegio, votando Giachetti, si dà forza anche alle liste che lo appoggiano e tra queste c’è anche Civica Popolare che, nella parte proporzionale, candida al secondo posto del listino Gabriele Toccafondi, berlusconiano storico poi diventato alfaniano e soprattutto da sempre ciellino: è contrario alla legalizzazione della cannabis, al biotestamento e alla legge Cirinnà sulle unioni civili. Chi vota Giachetti contribuisce alla possibilità che venga eletto anche Toccafondi (remota solo per i numeri minuscoli di Civica Popolare).

Naturalmente tutti questi esperimenti valgono anche di più con i cosiddetti “impresentabili“. Roberto Formigoni, ex presidente della Regione Lombardia, condannato per corruzione a sei anni, è candidato al Senato come capolista di Noi con l’Italia in tre circoscrizioni della Lombardia (Milano, Monza-Brianza e Brescia-Bergamo). Un elettore di centrodestra che voterà il candidato della parte uninominale dei tre collegi (Luigi Pagliuca, Stefania Craxi, Adriano Paroli) non potrà evitare di dare il suo contributo anche al Celeste. Qui una via d’uscita c’è: basterà votare solo una lista – sempre del centrodestra – che non è quella di Formigoni (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia) senza barrare alcun nome. E in effetti votare il simbolo (come accadeva col Porcellum) è il consiglio che danno molti leader di partito, da Piero Grasso a Silvio Berlusconi a Giorgia Meloni.


Ilaria Mauri e Diego Pretini (Il Fatto Quotidiano - 26 febbraio 2018)



venerdì 23 febbraio 2018

Antimafia, la relazione finale: “C’è un decadimento della politica. Modificare Severino e le leggi per le candidature”



L’aumento dei comuni sciolti per inflitrazioni mafiose, le inchieste sui politici, il trasformismo, il clientelismo e il voto di scambio. Sono gli elementi che hanno un peso specifico nel continuo e sempre più evidente decadimento della classe politica. Il modo per provare a neutralizzarli? Modificare sia la legge Severino che le leggi che regolamentano le candidature. Non basta un certificato penale pulito per considerare pulita una lista. Alla vigilia delle elezioni politiche l’ Antimafia si occupa ancora una volta del problema dei cosiddetti impresentabili inseriti in lista dai vari partiti. E lo fa presentando la relazione finale che analizza cinque anni di lavoro della commissione presieduta da Rosy Bindi. Un documento che fa il punto su un lustro di lavoro di Palazzo San Macuto.  E che lascia a chi sarà eletto nella prossima commissione alcuni consigli su come continuare un lavoro d’inchiesta che nell’ultima legislatura ha puntato i riflettori non solo sullo sviluppo delle associazioni criminali ma anche sulla loro capacità d’infiltrarsi nelle istituzioni.

“Decadimento della politica. Integrare legge Severino” – Ed è proprio alla classe politica che si rivolge il capitolo della relazione dedicata agli scioglimento delle amministrazioni locali. “Il numero crescente di comuni sciolti per mafia e di procedimenti a carico di amministratori ed esponenti della politica locale, il trasformismo politico e il clientelismo su cui fa leva il voto di scambio, impongono una seria riflessione sulla moralità del sistema e sulla tenuta del principio di rappresentanza. Un decadimento allarmante che rende necessario integrare e correggere la legge Severino“, si legge nella relazione che avanza proposte tese a rafforzare il sistema dei controlli e la trasparenza . Dal 1991 ad oggi si registrano ben 291 scioglimenti per mafia di enti locali, pari a 229 comuni. Numerosi i casi di comuni sciolti due volte (42 casi) o addirittura tre volte (13 casi). Si tratta per lo più di comuni di piccole e medie dimensioni.

“Liste pulite, non bastano i certificati penali privi di condanne” – “Il mandato per la prossima commissione – scrive dunque palazzo San Macuto – non potrà trascurare il compito, su cui molto si è lavorato, del rapporto tra mafia e politica, soprattutto sul versante della trasparenza e della selezione delle candidature, in particolare a livello locale. Rientrano in quest’ambito, le proposte di modifica del Testo Unico degli enti locali, nella parte relativa allo scioglimento dei comuni per infiltrazione e condizionamento mafioso, alla gestione dell’ente da parte della commissione straordinaria e alle previsioni in tema di incandidabilità e ineleggibilità, ampiamente illustrate nella relazione. Tuttavia – sottolinea la commissione – il tema delle misure sulla presentazione e la qualità delle candidature, non si esaurisce certamente con l’esibizione di certificati penali privi di evidenze giudiziarie”.

“Senza verità sulle stragi Costituzione rimane inattuata” –  E se San Macuto si affida alla prossima legislatura per modificare la legge Severino e le regole sulle candidature, ai futuri componenti della commissione Antimafia si chiede uno sforzo ancora maggiore: cercare la verità sulle stragi mafiose.”Il 2018 si è aperto con il 70° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il primo e più completo codice antimafia del Paese, che non potrà dirsi pienamente attuata, nei suoi valori fondanti di democrazia e libertà, se non sarà fatta piena luce sulle stragi e sui delitti a carattere politico-mafioso del 1992-1993″, scrive Bindi nella relazione finale, ricordando che “l’inchiesta della commissione, nonostante la contemporanea celebrazione dei processi Borsellino quater e per la cosiddetta trattativa Stato-mafia e si è proposta comunque di comprendere, alla luce dei più recenti accadimenti, quale fosse, dopo oltre un ventennio dalle stragi, lo stato complessivo delle ricognizioni e cosa sia ancora possibile compiere per giungere alla verità”. Risultato? “Ciò che deve essere ancora chiarito non è soltanto l’interesse, vendicativo, rivendicativo o di qualsiasi altra natura che cosa nostra perseguiva, ma il ruolo e le finalità di quella mano esterna, già evidenziata dalla Commissione Pisanu e che la sentenza del Borsellino-quater, fa emergere con una lettura dei fatti in termini di depistaggio e di un interesse terzo”. Al nuovo Parlamento, quindi, la Commissione chiede quindi di continuare a cercare la verità sulle stragi. “Dopo venticinque anni – prosegue il documento – la sede naturale in cui cercare la verità storica complessiva sulle stragi è quella politica. Si tratta di un percorso complesso in cui sarebbe auspicabile anche che i protagonisti, diretti o indiretti, o soltanto testimoni del perseguimento di quegli interessi terzi, finalmente contribuissero a far luce sulle pagine buie della storia italiana. È un impegno morale che la politica non può più eludere e che la commissione rimette al nuovo Parlamento. Ciò che è accaduto allora resta una tragica ferita nella coscienza e nella dignità del paese. È un debito di verità che è tempo di consegnare riscattato agli italiani di oggi e di domani.  Rimane il dubbio che una lunga scia di sangue unisca politicamente via Fani a via D’Amelio, passando per la Sicilia e lungo la penisola”.

“41 bis perno insostituibile ma in certi casi boss comunicano”- Passaggio fondamentale della relazione è poi quelllo dedicato al regime di carcere duro pervisto per detenuti mafiosi, definito “un insostituibile perno della legislazione antimafia“. Tuttavia, però, di circa 640 detenuti in regime di 41 bis sono ospitati in strutture penitenziarie che, alcune più altre meno, non rispondono ai requisiti di legge.  “Nonostante la legge preveda strutture o sezioni penitenziarie dedicate ai detenuti in regime speciale, la norma del 2009 è rimasta inattuata, e in molti istituti è di fatto possibile la comunicazione tra soggetti di eterogenei gruppi di socialità”, si legge nel documento che – dopo aver ricordato il lavoro svolto dalla commissione sul cosiddetto Protocollo Farfalla – si sofferma come la nuova convenzione stipulata nel giugno 2010 tra l’Aise e dipartimento amministrazione penitenziaria per regolamentare lo scambio di notizie e di dati inerenti l’ambito carcerario. Un accordo che – secondo l’antimafia – genera “alcune serie preoccupazioni“. “Si sono infatti riscontrati spazi interpretativi che, anche solo ipoteticamente, potrebbero consentire una prassi applicativa non del tutto aderente alle intenzioni del legislatore ed essere causa di possibili menomazioni delle funzioni giudiziarie”. La commissione auspica che la convenzione venga, comunque, tempestivamente riscritta “per non lasciare spazio a nessuna ombra”.

“Morte Riina ha rafforzato la mafia. A breve riorganizzazione” –  La relazione, però, si occupa anche dell’attuale evoluzione delle mafie. A cominciare da quella siciliana, segnata negli ultimi tempi dalla morte di Totò Riina e Bernardo Provenzano. “Cosa nostra è vitale in ciascuna provincia siciliana. In questi anni l’organizzazione ha mantenuto il controllo del territorio e gode ancora di ampio consenso, ed esercita tuttora largamente la sua capacità di intimidazione alla quale ancora corrisponde, di converso, il silenzio delle vittime. La morte di Totò Riina costituisce paradossalmente un ulteriore elemento attuale di forza“, scrive la Bindi. Per i commissari, dunque, siamo alla vigilia di un possibile cambio di marcia della piovra. “Cosa nostra – scrivono –  è infatti libera di ridarsi un organismo decisionale centrale, e quindi una strategia comune, finora ostacolata dall’esistenza di un capo che, in carcere a vita al 41-bis, né poteva comandare né poteva essere sostituito. Andrà perciò attentamente monitorata la fase di transizione che si è formalmente aperta e che probabilmente subirà un’accelerazione a breve”. Considerato che Cosa nostra, “nonostante l’azione incessante delle forze dell’ordine e della magistratura, mostra una straordinaria capacità di rigenerazione“.



mercoledì 21 febbraio 2018

Pd, da Palermo a Napoli la protesta anti Renzi parte dal Sud: “Gestione padronale con logiche da banditismo”




A Napoli la segretaria dei giovani si è dimessa dopo l’esplosione del caso rifiuti che ha coinvolto direttamente il secondogenito di Vincenzo De Luca. “Non posso più avallare logiche che definirei ai limiti del banditismo“, si è sfogata. A Caltanissetta, invece, alcune sezioni hanno abbassato le saracinesche, in polemica con la ricandidatura – la terza – di Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro Totò. “Chiuso per dignità, senza padroni”, hanno scritto all’ingresso. A Taranto il circolo l’hanno occupato direttamente, per protestare contro le liste compilate a Roma e imposte alla base territoriale: “Federazione occupata. Non vogliamo i baresi candidati a Taranto”. Più o meno la stessa polemica sollevata a Bari, ma nei confronti di un’aspirante parlamentare che ha il difetto di essere nata a Foggia. Più netta la reazione provocata a Palermo dal triplice paracadute assicurato dal Nazareno a Maria Elena Boschi, imposta come capolista in ben tre collegi siciliani. Sull’isola hanno deciso che era il momento di reagire: e hanno creato una corrente che critica aspramente la linea di partito. Comunque vadano le elezioni il prossimo 4 marzo, nel Pd la protesta contro Matteo Renzi è già cominciata. Anzi, visti i toni, più che di protesta si può parlare di una rivolta in piena regola pronta a deflagrare anche nel resto d’Italia nel day after delle politiche. Soprattuto se i risultati confermeranno le previsioni dei sondaggi. Anche perché, spesso, a contestare il segretario non sono esponenti delle correnti estreme del partito: tutt’altro.

In Sicilia nascono i partigiani del Pd –  Un esempio? Le parole di Antonio Rubino, storico responsabile dell’organizzazione del Pd in Sicilia. “Hanno trattato il Mezzogiorno come faceva la vecchia politica. Una sorte di palude nella quale nascondere operazioni nepotistiche e trasformistiche. Ma il Meridione, ancora una volta, si conferma anche luogo di passione e ribellione contro le prepotenze e questi movimenti lo stanno dimostrando”, dice al fattoquotidiano.it il dirigente dem, che con una carriera da funzionario d’ordine alle spalle non può certo essere considerato un barricadero massimalista.  Le liste compilate al Nazareno per i collegi siciliani, però, avrebbero fatto venire i cinque minuti anche al più fedele dei militanti. Oltre alla triplice blindatura assicurata a Boschi, infatti, le liste dei dem sull’isola sono stati riempite da una serie di candidati con trascorsi politici nel centrodestra.

I renziani presentati in gelateria – C’è Nicola D’Agostino, ex capogruppo del Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo. E poi Valeria Sudano, che Totò Cuffaro definisce una “sua amica“. E gli immancabili “figli di“: l’erede dell’ex ministro Cardinale, che ormai da dieci anni ha ricevuto in dote dal padre il seggio al Parlamento. E Calogero Sodano, rampollo dell’ex sindaco di Agrigento, già senatore del centrodestra con un nutrito curriculum giudiziario. Insomma, davvero troppo. Rubino ed altri dirigenti, quindi, hanno deciso di varare una sorta di sciopero della militanza: hanno lasciato gli incarichi all’interno del partito, smettendo di fare campagna elettorale. Quindi hanno fondato un loro movimento: si chiamano Partigiani del Pd e da settimane non mancano di criticare la “gestione padronale” del partito condotta dal sottosegretario Davide Faraone sull’isola. Il risultato è che gli uomini di Renzi sono costretti a organizzare gli eventi elettorali in bar e gelaterie per evitare di presentarsi nei circoli dove le scelte romane hanno suscitato più di qualche maldipancia

La guerra intestina pugliese –  I nomi inseriti in lista, però, hanno sollevato proteste anche in Puglia, terra di Michele Emiliano. L’esclusione del deputato tarantino Ludovico Vico, per esempio, ha scatenato le proteste nel capoluogo jonico, dove invece è stato imposto come capolista Ubaldo Pagano,  segretario provinciale di Bari, vicino al governatore. I tarantini non ci hanno visto più e hanno occupato la sede del partito. Si sono fermati a una lettera di protesta, invece i militanti di Bari nord, che dovranno votare la foggiana Colomba Mongiello, anche lei esponente dell’area Emiliano e per questo preferita a Liliana Ventricelli, che invece è considerata espressione del territorio. Insomma in Puglia è il campanilismo la benzina della feroce guerra intestina tutta interna ai dem.

“Clientele e familismo”. E a Napoli la segretaria dei giovani lascia –Diversi i motivi che hanno portato Francesca Scarpato a dimettersi da segretario dei giovani democratici in Campania. Scarpato ha detto addio nei giorni successivi all’esplosione della doppia inchiesta sui rifiuti: quella giornalistica di Fanpage e quella giudiziaria della procura di Napoli. In entrambe è coinvolto Roberto De Luca, indagato per corruzione e ormai ex assessore al Bilancio del comune di Salerno dopo le dimissioni formalizzate nelle ultime ore. È il secondogenito del potentissimo governatore della Campania, che ha ottenuto da Renzi la candidatura blindata alla Camera per l’altro figlio, il maggiore Piero. “Ci siamo stancati di prendere schiaffi per strada appena spunta fuori che siamo del Pd. Abbiamo creduto nella rottamazione di un modo di pensare e di intendere il partito. E invece ci ritroviamo a parlare di clientele, di micronotabilato, di capibastone“, si lamenta Scarpato motivando le sue dimissioni con Repubblica. Perché ha lasciato solo ora? “Era inevitabile, alla luce delle scelte compiute sulla composizione delle liste, sulla scelta della classe dirigente. Sul familismo. Intendiamoci: io credo che il figlio di un politico possa fare politica, purché abbia fatto la gavetta. E l’ ultima vicenda di cronaca induce una domanda: a che titolo Roberto De Luca parla delle ecoballe?”, si chiede l’ex segretaria dei giovani dem, riferendosi al video in cui il figlio del governatore discute di rifiuti con l’ex boss di camorra, Nunzio Perrella.

C’è l’uomo delle fritture. E Renzi invita a turarsi il naso – Senza considerare che sempre in Campania, il Pd ha candidato  Franco Alfieri, l’uomo delle fritture di pesce passato alla storia perché venne definitivo dallo stesso governatore come “notoriamente clientelare” ai tempi della campagna elettorale per il referendum costituzionale. Una candidatura che non è piaciuta ad Antonio Vassallo: il figlio di Angelo, l’ex sindaco di Pollica ucciso dalla camorra, aveva addirittura chiesto al partito di non usare più il nome di suo padre. Ed è forse pensando ad Alfieri che Renzi in persona era arrivato a citare Indro Montanelli:Turatevi il naso e votate Pd. Ma in molti casi non c’è neanche bisogno di turarsi il naso, perché i candidati sono ottimi”, ha detto il segretario dei dem in un’intervista al Mattino. Ammettendo in questo modo che il suo partito qualche cattivo odore deve pur emanarlo se per sbarrarne il simbolo sulla scheda occorre chiudersi le narici con pollice e indice.

La linea del dissenso – L’impressione, però, è che proprio nel Sud Italia, gli storici elettori del Pd di turarsi il naso si siano stufati. E l’idea di votare chiudendo un occhio – o in certi casi pure due – cominci a non piacere neanche nelle regioni più a Nord. In Emilia Romagna, per esempio, dove gli storici elettori del Pds e del Pci segnando il simbolo dei dem eleggeranno Pierferdinando Casini al Senato. In pratica la quintessenza della Dc con un robusto passato al fianco di Silvio Berlusconi: quasi un’offesa per chi è cresciuto a colpi di feste dell’Unità aperte da Togliatti e Berlinguer. “Nel Centro Nord sono più composti. A differenza del Sud sono meno rumorosi e rissosi. Soprattutto nelle Regioni rosse sono più affezionati al concetto di partiton per questo al momento i maldipancia sono solo sotterranei”, spiega un dirigente dei dem. “In Emilia e Toscana, ma pure in Lombardia – continua la stessa fonte – parleranno ufficialmente solo dopo le elezioni. Ma è probabile che si facciano sentire pure il giorno del voto con la scheda che depositeranno nell’urna”. Insomma, nel Pd la ribellione anti Renzi rischia di essere come la Linea della Palma di Leonardo Sciascia:  “Sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma“. Di sicuro è appena passata da Napoli.




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