Berlusconi è sostenuto da tre categorie di persone: credenti, 
clienti, stipendiati. I primi non si chiedono che specie di uomo sia 
(intelligente, colto, onesto; o il contrario di tutto questo); lo amano 
come si crede in Dio, per fede. I secondi sanno che si tratta di uomo 
spregiudicato, aggressivo e ricco; ma hanno messo la loro vita nelle sue
 mani precludendosi ogni altra strada; la loro appartenenza a B. è un 
fatto di sopravvivenza. Gli ultimi sono professionisti al servizio di un
 cliente; percepiscono un compenso commisurato alla loro abilità nel 
sostenerne la causa; non ha senso aspettarsi che ne riconoscano 
l’inconsistenza. Sicché discutere ogni giorno sull’ultimo coniglio 
cavato dal cappello degli scout lanciati alla ricerca di una via di fuga
 non ha nessun senso: puoi dimostrare senza ombra di dubbio che è solo 
un coniglio e non una ragionevole interpretazione legislativa, mai se ne
 convinceranno o, se convinti, lo ammetteranno.
Allora per quali
 persone argomentare? È ovvio, per quelle che dicono di non appartenere a
 queste categorie. Così avranno qualche strumento in più per smascherare
 i conigli. Facendo finta, naturalmente, di credere che davvero sono 
intellettualmente e politicamente onesti.
La legge 
sull’incandidabilità dice che non possono essere candidati e non possono
 comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore coloro che hanno
 riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione
 per delitti non colposi, per i quali sia prevista la pena della 
reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. La parola chiave è 
“condanna”: quella che il giudice pronuncia alla fine del processo, 
quando non “assolve”. Condanna a cosa? A una pena. Nel caso che 
interessa B., una pena detentiva superiore a 2 anni di reclusione. E noi
 sappiamo che la “condanna” inflitta a B. dalla Corte d’appello di 
Milano e confermata dalla Cassazione è stata: 4 anni di reclusione. 
Tutto ciò che può influire sulla pena da scontare in concreto avviene 
dopo la “condanna”. Che sia applicabile o no, un indulto (che diminuisce
 la misura della pena) che il Presidente della Repubblica commuti la 
pena detentiva in quella pecuniaria (il che azzera la pena detentiva), 
che il condannato sia ammesso all’affidamento in prova, tutto questo non
 ha nulla a che fare con la misura o la natura della pena oggetto della 
“condanna”. Essa resta quella originariamente stabilita dal giudice e a 
questa la legge sull’incandidabilità ha fatto riferimento.
Vi sono almeno due buoni motivi a sostegno di questa tesi.
1)
 il tenore letterale della legge. L’articolo 12 del codice civile (norme
 sulla legge in generale): si deve interpretare la legge secondo il 
significato proprio delle parole. E qui si parla di condanna a pena 
superiore a …; e non di pena da espiare in concreto.
2) i 
precedenti della Corte costituzionale (sentenza 118/1994): la condanna 
penale è un semplice presupposto oggettivo di “indegnità morale”, 
“requisito negativo” ai fini della capacità di assumere e di mantenere 
determinate cariche elettive. Dunque è la “condanna” del giudice ad 
avere rilievo quanto all’incandidabilità e non gli interventi successivi
 della politica (indulto, grazia, commutazione pena).
Quest’ultimo
 argomento fa giustizia di un’altra trovata di B&C: la presunta 
inapplicabilità della legge sull’incandidabilità a condanne per reati 
commessi prima della sua entrata in vigore. È proprio un coniglietto da 
niente, quasi non ha orecchie per acchiapparlo.
1 – la legge si 
riferisce alle sentenze, non ai reati. Non dice che è incandidabile chi 
ha commesso reati ma chi ha riportato “condanne”. Dunque non è il reato a
 dover essere consumato dopo l’entrata in vigore della legge; è la 
sentenza che deve essere pronunciata dopo la vigenza della legge.
2
 – sottigliezze giuridiche, capisco. Troppo per B&C. Proviamo così. 
La legge vuole che sia incandidabile chi è stato condannato, non chi ha 
commesso reati. Attribuisce valore al marchio esteriore, la condanna; 
non alla circostanza concreta, il reato, che magari non è stato ancora 
definitivamente accertato o che è rimasto ignoto. Insomma, non sta bene 
che uno che è stato riconosciuto irrevocabilmente delinquente sieda tra i
 padri coscritti della Patria. Non è un problema di sostanza ma di 
forma. Il che ci porta al nocciolo della questione. In realtà al motivo 
per cui bisogna smetterla di smascherare coniglio dopo coniglio, 
replicando agli infiniti paralogismi di questa gente. Non ci fossero 
leggi, Tribunali e Corte costituzionale; né mai fosse stato previsto il 
caso di un presidente del Consiglio dei ministri che ruba al suo paese 
centinaia di milioni. Non ci fosse insomma un problema di legalità 
formale. Quale popolo potrebbe accettare di essere governato da chi 
viola le stesse leggi che impone ai cittadini che governa?
Bruno Tinti (Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2013)
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