Oddio, Napolitano se ne va e nessuno sa cosa 
mettersi. Come se non bastassero tutte le cause fisiologiche che fanno 
fibrillare la politica italiana, se ne aggiunge una patologica: i boatos
 sulle imminenti dimissioni del presidente della Repubblica. Non si 
tratta del solito gossip dei retroscenisti appostati nei corridoi dei 
palazzi: a scrivere che entro fine anno, o al massimo a gennaio, Re 
Giorgio annuncerà o addirittura rassegnerà le dimissioni sono stati non 
solo il Fatto (notoriamente poco gradito sul Colle più alto), ma anche 
due fra i giornalisti più introdotti al Quirinale: Stefano Folli su 
Repubblica e Marzio Breda sul Corriere. Domenica, dopo 24 ore di 
silenzio, è arrivata la “nota del Colle”, al solito sibillina e 
fumantina. “Né si ha da smentire né da confermare” alcunché, ma sia 
chiaro che “le decisioni che riterrà di dover prendere” sono “esclusiva 
competenza del capo dello Stato”. Quindi è tutto vero, ma Napolitano non
 gradisce che se ne parli adesso ed è furibondo con i giornali e le tv 
che danno “ampio spazio a ipotesi e previsioni sulle eventuali 
dimissioni”. E a cosa dovrebbero dare ampio spazio, di grazia? Sta per 
accadere un fatto mai visto prima: le dimissioni di un presidente (e che
 presidente: il monarca padrone dell’esecutivo, delle Camere, del Csm e 
ogni tanto della Consulta, che da 8 anni e mezzo fa e disfa i governi a 
prescindere dagli elettori e dà ordini e moniti a tutto su tutti) appena
 un anno e mezzo dopo la sua elezione, destinate a terremotare per mesi e
 mesi la vita politica con una serie di ripercussioni a catena 
prevedibili e già tangibili sul governo, sul Parlamento, sulla nuova 
legge elettorale, sulla nuova Costituzione, sulla “riforma” della 
giustizia, sulle alleanze fra i partiti, sulle tentazioni di elezioni 
anticipate, sulla Borsa, sui rapporti internazionali. E di che dovrebbe 
parlare la stampa? Di Balotelli che torna in Nazionale? O di Razzi che 
va all’Isola dei famosi?
Vengono rapidamente al pettine i nodi che – in beata solitudine – 
il nostro giornale evidenziò fin da subito, all’indomani della 
precipitosa rielezione di Napolitano il 20 aprile 2013 per scongiurare 
l’ascesa al Colle di un vero cultore della Costituzione come Stefano 
Rodotà, tradire l’ansia di rinnovamento uscita due mesi prima dalle urne
 e imbalsamare l’eterno inciucio fra il centrosinistra e Berlusconi. 
Tralasciando le bugie di Napolitano, che per un anno aveva detto e 
ripetuto che mai e poi mai avrebbe accettato la riconferma, scrivemmo 
che il suo discorso di reinsediamento a Montecitorio poneva 
ufficialmente sia lui sia la Repubblica fuori dalla Costituzione. Il 
Ripresidente disse infatti che sarebbe rimasto “fino a quando la 
situazione del Paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le 
forze me lo consentiranno”. E solo a patto che Pd e Pdl si mettessero 
subito insieme per fare ciò che avevano giurato agli elettori di non 
fare: un governo di larghe intese per le cosiddette “riforme”, cioè per 
manomettere la seconda parte della Costituzione e anche la giustizia. 
Espropriando il Parlamento, unico titolare del potere legislativo, il 
Presidente Monarca espose alle Camere il suo personale programma 
politico e le minacciò di andarsene se non avessero obbedito: “Ho il 
dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come 
quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le 
conseguenze dinanzi al Paese”. Dunque il governo e i partiti dovevano 
ripartire dai “documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 
marzo”: i 10 fantomatici “saggi” extraparlamentari che, alle dipendenze 
del Quirinale e senz’alcuna legittimazione popolare, avevano scritto il 
programma del nuovo governo prim’ancora che nascesse. Insomma, in barba 
alla Costituzione che prevede un mandato pieno e incondizionato (art. 
85: “Il Presidente della Repubblica è eletto per 7 anni”), Napolitano 
fece sapere che il suo era “a tempo” e “a condizione”. 
E quando il suo ex portavoce Pasquale Cascella si lasciò sfuggire a 
La Zanzara che se ne sarebbe andato ben prima della scadenza del 
settennato, Re Giorgio con l’aria di smentirlo confermò quel che era 
chiaro a tutti: “Ho legato la mia rielezione al raggiungimento 
dell’obiettivo delle riforme e anche alla capacità delle mie stesse 
forze. Ma nessuno certo è in grado di prevederne la durata, sia per 
l’uno che per l’altro aspetto”. 
Quell’albero marcio, trapiantato un 
anno e mezzo fa su un Paese ansioso di cambiare, produce oggi i frutti 
marci che tutti possono vedere a occhio nudo. Napolitano e chi lo 
rielesse sapevano benissimo che il suo secondo mandato sarebbe finito 
presto, per ovvi motivi anagrafici. Ma la fregola di mummificare il 
sistema contro ogni cambiamento fu più forte di ogni buonsenso. E anche 
dello spirito e della lettera della Costituzione (quella vera, quella 
del 1948) che, precisa come un cronometro svizzero, prevede un ordinato e
 sereno funzionamento delle istituzioni, con tempi certi e scadenze 
prevedibili. Il presidente dura in carica 7 anni perché si deve sapere 
quando inizia e quando finisce: negli ultimi sei mesi (il semestre 
bianco) non può sciogliere le Camere (a meno che la sua scadenza 
coincida con quella della legislatura) affinché il Parlamento sia libero
 di prepararne la successione senza condizionamenti, con la dovuta calma
 e serenità. Strano che l’unico presidente ad aver giurato due volte 
sulla Costituzione non lo sappia, o se ne infischi. Infatti fa sapere 
che se ne va quando vuole lui e ce lo farà sapere quando pare a lui. 
Niente semestre bianco, e Parlamento sotto ricatto fino all’ultimo 
giorno. La bomba a orologeria delle sue dimissioni anticipate seguiterà a
 ticchettare per settimane, forse per mesi, ben nascosta sotto le 
istituzioni, destabilizzandole vieppiù con uno stillicidio di 
indiscrezioni, moniti e finte smentite. Intanto l’Italia resterà appesa 
agli umori e ai malumori di un vecchietto bizzoso e stizzoso che cambia 
idea a seconda di come si sveglia. Nessuno, tranne lui, sa quando finirà
 il toto-Quirinale. Forse finirà soltanto quando Sua Maestà avrà qualche
 finto successo da sbandierare (una legge elettorale, una riforma della 
Costituzione, del lavoro e della Giustizia purchessia) per mascherare il
 misero fallimento del suo bis; e magari anche la garanzia che il suo 
successore sarà un suo clone e non farà nulla per riportare l’Italia 
dalla monarchia alla Repubblica. Solo allora abdicherà e, quando lo 
farà, sarà sempre e comunque troppo tardi. 
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