Le
 diverse conclusioni dei pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto
 XVI fotografano abbastanza esattamente non solo l'abissale distanza fra
 due personalità ma anche nel modo di intendere il loro magistero. 
Woytjla non ha rinuncito a esibire la propria sofferenza, a farne uno 
show, in linea con un pontificato spettacolare, mediatico (gli 'eventi',
 i jet, i grandi viaggi transoceanici, la Papa mobile, i 'Papa boys '). 
Ratzinger la propria sofferenza, ha preferito tenerla per sè. E si è 
dimesso. Già dai primi giorni sono circolate tesi complottistiche per le
 quali il Papa sarebbe stato costretto alle dimissioni. La verità è 
molto più semplice ed è quella dichiarata dallo stesso Ratzinger: a 86 
anni si sentiva vecchio, stanco, inadeguato, gli mancavano le forze per 
portare il peso del suo altissimo magistero. Scardinando cosi', tra 
l'altro, uno dei tanti falsi miti della Modernità per cui l'età non 
conta e la vecchiaia non esiste. La vecchiaia invece esiste, eccome, per
 tutti, anche per un Papa. Ratzinger se ne è reso conto e, virilmente, 
responsabilmente, razionalmente, da buon tedesco, ne ha tratto le 
conseguenze. Un atto di coraggio e, insieme, di grande umiltà.
Premesso
 tutto cio' le cose più interessanti Joseph Ratzinger le ha elaborate e 
scritte quando era ancora cardinale. «Il Progresso non ha partorito 
l'uomo migliore, la società migliore e comincia a essere una minaccia 
per il genere umano». E nel documento 'Pro eligendo pontifice' aveva 
affrontato il tema del relativismo sostenendo che esisterebbe «una sorta
 di dittatura del relativismo che non riconosce nulla di 
definitivo e lascia come ultima misura il proprio io e le sue voglie». 
Affermazione vera ma che si presta a qualche equivoco. Se c'è infatti 
un'epoca della Storia in cui domina un pensiero unico, e quindi 
nient'affatto relativista, è quella che stiamo vivendo. E' il pensiero 
liberaldemocratico che, insieme al nocciolo duro che lo sottointende: il
 produttivismo nella forma del libero mercato, si pretende come il solo 
valido e accettabile, dal punto di vista politico, sociale, ma anche 
morale. Insomma il modello di sviluppo che l'Occidente ha creato e 
imposto a quasi tutto il pianeta.
E'
 evidente che quando Ratzinger parla di relativismo lo intende in senso 
morale. Ma questo relativismo morale dilagante, su cui Ratzinger punta 
il dito, discende direttamente proprio dal modello economico e dal suo 
meccanismo produzione-consumo-produzione basato sul libero mercato. E il
 mercato è uno scambio di oggetti inerti che, di per sè, non produce e 
non puo' produrre valori che non siano quantitativi e materialistici. E 
questo vuoto induce nell'individuo un indifferentismo, un relativismo morale, per cui una cosa vale l'altra e tutto si puo' fare. Ma questo indifferentismo non è libertinismo,
 che implica una scelta, è un condizionamento pavloviano. Quelle 
'voglie' che Ratzinger condanna non sono in realtà espressione di 
bisogni e di desideri autonomi, ma sono eterodirette e funzionali al 
meccanismo produttivo che, per restare in piedi, ha necessità di creare 
bisogni, desideri e, appunto, 'voglie' sempre nuove o di enfatizzare e 
drogare quelle che già ci sono, per poi tradurle in consumi per il 
mercato. L'Io con le sue povere 'voglie' eterodirette, non è il 
protagonista libertino del sistema ma la sua vittima designata.
Da
 Pontefice (mentre lo aveva fatto quando era nella posizione più 
defilata di cardinale) Ratzinger non ha mai osato attaccare in modo 
radicale quel progresso che è all'origine del relativismo morale, 
preferendo addossarne la responsabilità all'individuo. Forse non ne ha 
avuto la forza, forse, a differenza del suo predecessore, gli mancava il
 'phisique du rôle' per simili battaglie campali. In fondo è stato anche
 lui vittima dell'epoca dell'immagine dove l'apparire conta più 
dell'essere. Inoltre mi sembra che Benedetto XVI confonda il relativismo
 morale con quello culturale che è cosa ben diversa: è il rispetto dei 
valori altrui senza che cio' significhi non averne dei propri. Comunque 
sia bisogna dar atto a Benedetto XVI, teologo finissimo, di aver acceso,
 soprattutto nella prima parte del suo pontificato, un dibattito 
intellettuale e culturale di alto profilo che era completamente mancato 
negli anni di Woytjla.
Indubbiamente un
 Papa che si dimette fa colpo  (anche se ha avuto la sfortuna di 
intrecciarsi con un 'evento' che a noi cattolicissimi italiani interessa
 molto di più: il Festival di Sanremo). I precedenti sono lontani e 
rarissimi, oltre a quello, sempre citato, del Celestino V del 'gran 
rifiuto' c'è quello di Gregorio XII nel 1415, ma in un'epoca in cui 
nella Chiesa regnava una gran confusione fra Papi e Antipapi (ognuno 
pretendeva di essere quello vero) e se ne contarono fino a tre. Eppoi le
 dimissioni di Benedetto XVI hanno un significato del tutto 
inedito:l'ammissione che anche il Vicario di Dio puo' essere fragile, 
debole, inadeguato perchè troppo vecchio. Questo ci rende Joseph 
Ratzinger, che era sempre sembrato distante, più vicino e più umano. 
Anche se noi, fra i due, avremmo preferito che a dimettersi, e già da 
tempo, fosse Giorgio Napolitano.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2013)
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