“Il
 kamikaze ha una sua nobiltà. Perché mette in gioco la vita altrui solo 
al prezzo della propria”. Questa affermazione che ho fatto alla Zanzara ha
 suscitato scandalo e sono stato accusato di simpatie per l’Isis. Eppure
 tutti i media occidentali hanno definito “un vigliacco” Abdeslam Salah 
il terrorista che all’ultimo momento ha rinunciato a farsi saltare in 
aria. Se le parole e la logica hanno ancora un senso questo vuol dire 
che, anche se occultiamo questo sentimento come vergognoso e riprovevole
 e non osiamo confessarlo nemmeno a noi stessi, consideriamo gli altri, 
quelli che portano fino in fondo la loro missione, degli uomini 
coraggiosi. Io credo che soprattutto nei foreign fighters più che
 una voglia di uccidere, ci sia una voglia di morire. Perché è ‘un 
morire per qualcosa’. Per un’idea, per un ideale, per sbagliati che 
siano, piuttosto che vivere nel nulla e per il nulla. Ha spiegato molto 
bene questo concetto in un articolo su Sette dell’11 marzo 
Lorenzo Cremonesi, forse il migliore inviato che abbiamo oggi sul campo:
 “Il carisma dei jihadisti sta anche nella loro morte. Un elemento che 
affascina anche i volontari che arrivano dalle città occidentali. I loro
 principi sono nichilisti e folli, eppure vanno capiti, non per 
giustificarli, ma per comprendere il tipo di pericolo che ci minaccia. 
Legittimare la morte, glorificarla, darle un senso ultimo inserendola in
 un’ideologia, aiuta ad affrontare la vita”. Cremonesi dice, sia pur con
 un po’ più di circospezione, ciò che ho detto io (del resto Churchill, 
un uomo intellettualmente onesto, definì “nobilissima” la carica 
disperata, che aveva solo il senso di una immolazione senza speranza, 
dei cavalieri Dervisci contro le mitragliatrici inglesi nella battaglia 
di Omdurman in Sudan del 1898- The river war).
Come
 ho affermato in altre occasioni, e in modi diversi, la forza dell’Isis 
non sta tanto nell’indubbio coraggio dei suoi guerriglieri che 
soprattutto in Medio Oriente si battono con grande valentia contro la 
superiorità tecnologica delle due grandi super potenze mondiali, Stati 
Uniti e Russia, dell’Inghilterra, della Francia e della quarantina di 
altri Stati che fan parte della coalizione anti Daesh (e quando sono 
tutti contro uno io comincio ad avere il sospetto che non sia solo 
quest’uno il reprobo), ma sta nel vuoto di valori dell’Occidente. Noi 
non abbiamo più valori, né collettivi (per esempio la Patria, la 
religione) né individuali (dignità, coraggio, onore) che ci consentano 
di affrontare la morte. Abbiamo delegittimato la morte, non solo quella 
eccezionale, in guerra, ma anche quella normale, biologica e quindi 
inevitabile. L’abbiamo scomunicata, interdetta, proibita, dichiarata 
pornografica, oscena. La morte è il Grande Vizio dell’era tecnologica, 
quello che davvero “non osa dire il suo nome”, altro che la pederastia 
di vittoriana memoria. Tanto che non azzardiamo nominarla nemmeno nei 
luoghi, nelle sedi, nelle occasioni in cui non ci si può esimere dal 
parlarne, basta leggere i necrologi dei quotidiani: “la scomparsa”, “la 
perdita”, “la dipartita”, “si è spento”, “ci ha lasciato”, “è mancato 
all’affetto dei suoi cari”, “i parenti piangono”, “è tornato alla pace 
del Signore”, “è terminata la giornata terrena”, la parola morte a indicare ciò che realmente è successo, non c’è mai.
La
 morte non sta nella società del Benessere. E quindi è ancora più 
difficile inserirla in un altro fenomeno che abbiamo da tempo 
scomunicato: la guerra. Da qui le ipocrisie degli ‘interventi di 
peacekeeping’, ‘missioni di pace’, ‘operazioni di polizia 
internazionale’. La morte che accettiamo è solo quella degli altri, non 
la nostra. Nel 2009 Barack Obama, da poco eletto Presidente, dichiarò a 
proposito dell’Afghanistan: “Sogno una guerra combattuta solo con i 
robot, per risparmiare la vita dei nostri soldati”. Adesso, con i droni,
 ci siamo arrivati. Ma il combattente che non combatte perde ogni 
legittimità. Perché la particolare legittimità di uccidere, 
assolutamente esclusa in tempo di pace, in guerra è resa possibile 
dall’altrettale possibilità di essere uccisi. Se uno solo può colpire e 
l’altro solo subire usciamo dai confini della guerra per entrare nel 
territorio dell’assassinio (ecco perché il kamikaze che uccide 
immolandosi “ha una sua nobiltà”, mentre il pilota che stando al sicuro,
 a diecimila chilometri di distanza, sgancia i suoi missili mortali, la 
perde). E’ quanto abbiamo fatto per una quindicina d’anni, 
dall’Afghanistan in poi. Poiché la guerra non ci toccava, e continuavamo
 a vivere tranquillamente nelle nostre città, la guerra non esisteva. E 
così adesso, che è entrata anche nei nostri territori, non siamo più 
pronti ad affrontarla.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 31 marzo 2016)
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