Parecchi anni fa un caro amico, un collega cui, quando eravamo all’Europeo
 avevo fatto, per così dire, un po’ di ‘educazione sentimentale’, perché
 ha sette anni meno di me e quando si è giovani certe differenze di età 
hanno il loro peso, mi invitò a una festa a casa sua. Lui, dopo l’Europeo,
 era diventato un giornalista importante e dirigeva un grande 
settimanale. Gli invitati erano quindi di un certo livello sociale. Gli 
uomini yuppie (siamo verso la fine degli anni Ottanta), le donne 
impellicciate e, spogliatesi di quell’ingombrante indumento non ancora 
messo definitivamente all’indice dagli animalisti, ingioiellate, 
griffate e insomma pistolate. Sapendo che avevo una collezione di vecchi
 ’45 giri’ il mio amico mi aveva chiesto di portarli per animare un po’ 
la festa. Facevo insomma il disc jockey inanellando sul bussolotto una 
decina di dischi (di più non ne conteneva, la tecnologia digitale era di
 là da venire) e poi li sostituivo con altri dieci, fra l’indifferenza 
generale. Siccome mi annoiavo a morte e non vedevo in giro nessuna 
ragazza interessante ad un certo punto tirai fuori di tasca un 
‘centomila’ e dissi ad alta voce: “Questo è il premio per chi indovina 
il titolo della prossima canzone e chi la canta”. Il brusio cessò 
immediatamente. Gli uomini drizzarono le orecchie, che divennero 
appuntite come quelle delle volpi, e qualcuno si avvicinò cercando di 
sbirciare. Ma i ‘45’ girano veloci e nessuno indovinò. Era Forty days di Ronnie Hawkins, il rock più scatenato che mi sia mai stato dato di sentire, da far invidia al Little Richard di Lucille,
 a Jerry Lee Lewis per non parlare dell’imbrillantinato Elvis Presley 
che aveva un piede nei ’60, ma l’altro gli era rimasto nei ’50, nel 
melodico (Fame and fortune per esempio. Eppoi ‘Elvis the pelvis’? Ma ‘a mossa’ non era un’antica usanza delle donne e dei ragazzi napoletani?).
Recentemente
 ho conosciuto una donna che si occupa di ‘coaching aziendale’. Cosa sia
 il ‘coaching aziendale’ è difficile da spiegare a una persona che sia 
rimasta sana di mente. Sostanzialmente si tratta di questo: insegnare ai
 manager, già inseriti ad alto livello nella graduatoria aziendale e 
persino al mitico AD, come si fa il manager. I poveretti vengono 
aviotrasportati, in gruppo, in qualche posto esotico ma non pericoloso, 
poniamo Abu Dhabi o Dubai, e qui sodomizzati con i soliti ‘giochi di 
ruolo’, il domino, le biglie, le palline colorate e altre cose del 
genere. Ma la cosa più curiosa è un’altra. Si mette il manager davanti a
 un cavallo (non in groppa, davanti) e dalle reazioni che ha di fronte 
all’animale si valutano le sue capacità decisionali e di comando. Non 
credo che Al Baghdadi per conquistare la leadership abbia avuto bisogno 
di stare davanti a un cavallo, tutt’al più l’avrà montato o, più 
probabilmente, avrà estratto il kalashnikov al momento opportuno. 
“Kalashnikov! Kalashnikov!” è l’inno dedicato a quest’arma, l’arma di 
tutte le guerriglie moderne, dal serbo Goran Bregovic, l’autore delle 
colonne musicali di molti film di Kusturica a cominciare dallo splendido
 Papà è in viaggio d’affari ambientato nella Jugoslavia di Tito 
che fece il miracolo di tenere insieme tre comunità, serbi, croati, 
musulmani bosniaci, che si sono sempre detestate. Ah, la nostalgia della
 violenza, per noi costretti a vivere in democrazia e a sorbettarci 
oltre alle elezioni politiche, quelle amministrative, comunali, 
provinciali, regionali e adesso, per non farci mancar nulla, anche le 
‘primarie’, angosciati dall’amletico dilemma se scegliere fra Giacchetti
 e Morassut, fra Bertolaso e il nulla, fra la Meloni e la Meloni, mentre
 dobbiamo assistere a grottesche polemiche sull’idoneità della donna a 
fare politica, mentre altrove, in culture diverse, quelle si fanno 
saltare per aria –anche questa è politica, sia pur non democratica- 
coraggiose quanto gli uomini, anzi forse di più perché la donna 
antropologicamente è colei che dà la vita e quindi la ama, mentre il 
maschio, fuco transeunte e malinconico, è animato da un oscuro istinto 
di morte.
Poche
 sere fa sono stato a cena da una mia amica. Bella casa borghese, con 
tutte le sue cosine a posto, i centrini, i comodini, i divanini, i 
quadrettini. Aiuto cuoco in cucina. Mancava solo la domestica in 
grembiule bianco, crestina e guanti bianchi. I commensali sembravano di 
una certa levatura culturale. Per un’ora e mezza hanno parlato solo di 
cibo. Ora, io non sono un asceta, pure a me piace mangiare, anche se 
preferisco bere, ma dopo un’ora e mezza di questa solfa sul cibo mi è 
venuto il voltastomaco. Anche pensando –ma sì, facciamo pure un po’ di 
retorica- a quanti, intorno a noi, cibo non hanno. Mi sono alzato, ho 
detto “vi lascio alla vostra ‘grande bouffe’ “ e me ne sono andato. Ma 
era troppo presto. Ho girovagato per qualche ora in una Milano 
spettrale, quella che ruota intorno alla piazza Gae Aulenti, 
ammiratissima per i suoi ‘boschi verticali’. Io sarò del pleistocene ma a
 me sembra che nei boschi ci si vada per passeggiare, non per guardare 
alberi impiccati a pareti di vetrocemento. Poi mi sono fatto portare 
alle Capannelle, l’unico ristorante che a Milano tiene aperto 
fino alle sette del mattino. Pare che sia una ‘grida’ del comune, forse 
di Pisapia, il sindaco che voleva impedire di sbocconcellare i coni 
gelato in strada, che impone ai ristoranti di chiudere entro le due (a 
Bari, oltre quell’ora, ci sono almeno quattro pizzerie aperte). Ma Le Capannelle,
 che non a caso sta vicino a San Vittore, ha delle regole tutte sue, 
fuorilegge. L’ora ideale per andarci è fra le tre e le quattro di notte.
 Vi si trova quel che resta della vecchia, cara, onesta ‘mala’ milanese,
 quella cantata dalla Vanoni, il cui ultimo epigono è stato Renato 
Vallanzasca, e la fauna inesausta degli inquieti, degli insonni, dei 
nottambuli, degli irregolari, dei senzadio. I gestori, come sempre 
accade in questi posti, come nei pochi baracchini ancora rimasti, hanno 
molto garbo e tratto. Perché bisogna essere abili per gestire una 
clientela non sempre raccomandabile.
Ma
 questo mondo popolano è ormai di nicchia. La maggioranza degli italiani
 fa parte, come ho cercato di raccontare, di un ceto che non saprei se 
definire piccolo o medio borghese, indifferente a tutto ciò che gli sta 
intorno tranne il denaro, eternamente basculante fra bulimia e diete 
nutrizioniste, fra ‘coaching aziendali’ e ‘personal trainer’, fra un 
orientalismo ridicolo e una totale mancanza di valori, molle, imbelle, 
svirilizzato. E mi è venuto da pensare che sia una fortuna che fra la 
Libia e noi ci sia di mezzo il mare (“quant’è profondo il mare”) quel 
mare che oggi tanto ci inquieta perché traghetta i migranti. Se Libia e 
Italia fossero unite dalla terraferma i guerrieri di Al Baghdadi ci 
metterebbero tre settimane per arrivare a Roma (il che, almeno per un 
po’ tempo, offrirebbe qualche vantaggio: spazzar via il Vaticano e Papa 
Francesco che non perde occasione per entrare coi piedi a martello negli
 affari interni dello Stato italiano -se si ha da essere una teocrazia, 
almeno lo si sia ufficialmente). Certo poi la risalita dell’Italia 
sarebbe più lenta, come lo fu per gli Alleati nel ‘44/45, ma sfondata la
 linea gotica e poi quella del Po gli uomini del Califfo si 
prenderebbero tutto il Nord e verrebbero fermati solo ai confini del 
Canton Ticino. Perché gli svizzeri saranno anche noiosi, ma le palle (Il formidabile esercito svizzero, John McPhee, Adelphi) almeno quelle, le hanno conservate.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2016)
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