I nuovi proletari?
Sono i giovani.
Perché a decidere chi sale e chi scende nella scala sociale è, sempre di più,
l’appartenenza a una generazione. E i nati dopo il 1970 hanno più
probabilità dei loro padri di muoversi verso il basso, scivolando verso lavori
a bassa qualificazione e poco pagati. Insomma: l’ascensore sociale fermo è una
leggenda, ma quando i passeggeri sono trentenni e quarantenni funziona al
contrario. Se ai baby boomer di famiglia operaia bastava una laurea per avere
buone chance di approdare alla classe media, diventando liberi professionisti o
colletti bianchi, per i loro figli è più facile scendere a un piano inferiore
rispetto a quello di partenza.
A rivelarlo sono i
risultati di quattro indagini Istat, l’ultima delle quali ancora
inedita, esaminati dai sociologi Marzio Barbagli e Maurizio Pisati.
Ve li raccontiamo nel nuovo numero di Fq Millennium, il mensile diretto da
Peter Gomez
in edicola da domani, dedicato alla “fine della borghesia”. A sorpresa, questi
studi mostrano che la mobilità non è in calo, anzi. La novità è che per i
giovani – ma nella categoria sono compresi pure gli ultraquarantenni – prevale
quella discendente. E anche rimanere ai piani alti della piramide è diventato
più difficile. Le conseguenze sono tutt’altro che marginali, perché
l’appartenenza di classe non è affatto che un cimelio buono per la soffitta:
continua ad avere un impatto diretto sul livello di benessere economico, sul
rischio di disoccupazione, ma anche su condizioni di salute e aspettativa di
vita.
“Padri e madri di classe
alta e media non riescono più a garantire ai figli un destino uguale al
proprio”, commenta Antonio Schizzerotto, docente di
Sociologia all’Università di Trento. Un paradosso tutto italiano, perché negli
altri Paesi avanzati i posti di lavoro ad alta specializzazione, quelli che
garantiscono redditi alti e spalancano le porte della borghesia, sono aumentati
di pari passo con quelli poco qualificati. Così l’età di per sé ha finito per
diventare “un fattore generativo di disuguaglianza”. Ovvero? “Un over 50 con
un’occupazione intellettuale ha avuto un primo stipendio che oggi nessun nuovo
assunto riceve e ha fatto una carriera che un giovane entrato con il contratto
a termine probabilmente non riuscirà mai a fare, perché avrà un percorso
discontinuo”.
Lo dimostrano le storie di professionisti
precari raccolte da Fq Millennium: architetti,
avvocati,
medici
che lavorano a partita Iva e a fine mese, quando va bene, portano a casa
1.500 euro lordi. Circa 5 euro netti all’ora. Il cardiochirurgo che campa con
le guardie mediche arriva a 16 euro netti, poco più di una colf in nero.
Gli effetti si
vedono nei dati che descrivono lo stato di salute della società italiana. Sul
mensile ci aiuta a ricostruirli Linda Laura Sabbadini, pioniera
delle statistiche sociali e di genere, che ha diretto il Dipartimento per le
statistiche sociali e ambientali dell’Istat fino a quando nel 2016 l’allora
presidente Giorgio Alleva lo ha cancellato. “Rispetto a prima della crisi, il tasso di
occupazione dei 25-34enni è diminuito di quasi dieci punti mentre quello degli
over 50 saliva di 14. E abbiamo 500 mila giovani adulti tra i
30 e i 34 anni che non hanno mai lavorato: rischiano di diventare degli esclusi permanenti
non solo dal lavoro, ma anche dalla possibilità di costruirsi una vita”.
Il risultato è che
l’incidenza della povertà oggi è molto più alta tra bambini e giovani che tra
gli anziani. Un
milione e 200 mila minorenni fanno parte di famiglie che non
sono in grado di comprare beni e servizi indispensabili per una vita
accettabile. “Un bambino che vive per anni in povertà”, avverte Sabbadini, “ha
molte probabilità di restare povero da grande: accumulando svantaggi fin da
piccolo vede ridursi le proprie chance di mobilità sociale”. E il circolo
vizioso non si spezza.
Chiara Brusini (Il Fatto Quotidiano, 12 aprile 2019)
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