Attìa, à
ccù apparténi? Me l’avranno chiesto mille volte, in paese, sconosciuti. A chi
appartieni? Una specie di domanda obbligatoria per i nuovi arrivati in un
luogo, appena arrivati dalla città in un improbabile paesetto di Sicilia. Una
signora con le mani ai fianchi, arrotolata nel suo grembiule. Si chiede
la genìa, la famiglia di appartenenza. Si capiscono tante cose, il ceto
sociale, lo status.
Il
quartiere in cui si vive, la situazione economica. Spesso mi dava fastidio.
Dire chi ero, come a serbare un anonimato fittizio, fatto di niente. Volevo
starmene per i fatti miei. E poi qualcuno mi chiedeva sempre: Attìà veni
ccà, à ccù apparténi?
Ho
iniziato questo pezzo su una foto della costa Nord siciliana che rappresenta la
foce del fiume Oreto, il suo arrivo al Tirreno. Un luogo spesso dimenticato,
non ci si va a passeggiare: pensa come sarebbe bello farlo… Su questo tratto di
costa sono sbarcati i fenici, i greci, gli arabi e via dicendo. Migranti.
Viaggiatori per diritto di nascita, per appartenenza ad un gruppo etnico. I
fenici ad esempio, commerciando in tessuti, spezie e coloranti sbarcarono tante
volte li. Il problema era la lingua naturalmente.
Le dita
delle mani aiutarono la comunicazione delle trattative economiche. Tutti
abbiamo dieci dita. Si gettarono quindi le basi per la costituzione del Sistema
Metrico decimale. Grande fermento sulle orme della circuitazione nel bacino del
Mediterraneo di lingue e culture. Siamo tutti migranti, lo siamo sempre stati.
Prova a chiedere ad un gruppo di persone se hanno dei parenti in qualche paese
interno o costiero.
A parte i
flussi migratori moderni, quelli con i barconi per intenderci, l’uomo ha da
sempre avuto la necessità di spostarsi da un luogo ad un altro.
La
transumanza come abitudine di spostare greggi in aree più verdeggianti non è
che un esempio. Oggi assistiamo a fenomeni migratori complessi. È abitudine dei
nostri ragazzi che studiano all’Università di frequentare corsi triennali in
giro per l’Italia e completare gli studi attraverso progetti europei per una
formazione che guarda all’inserimento sul campo del lavoro anche alla luce di
esperienze conseguite in altri Paesi.
Tempo fa,
una ventina d’anni circa, mi piaceva fermare lavavetri dell’Est Europa, rumeni,
polacchi chiedendo loro che tipo di formazione avessero. Rimanevamo a parlare
di teoremi, dimostrazioni, modelli teorici sia matematici che fisici. Parecchi
erano ingegneri, diversi architetti, alcuni medici. I nuovi arrivati oggi non
possiedono una grande formazione accademica, questo è assodato ma possiedono
una energia volitiva nella forza lavoro che i giovani nostri probabilmente non
hanno, forse secondati da famiglie che li hanno troppo protetti e cullati con
quelli che chiamo i biberon del consumismo.
La mia
ricerca fotografica parte dalla costa Nord siciliana e passa dal mercato di
Ballarò dove giovani africani aprono saloni di barbiere. Si improvvisano
mercati nel mercato, Suq improvvisati. Intere aree vengono affittate a ghanesi,
altre ai Bangla.
Nella
zona di via del Ponticello, che ha ripreso la nomenclatura trilingue araba.,
latina ed ebraica, sono i bangla che prendono in affitto case ed esercizi
commerciali. L’odore del curry o del mango chutney è inconfondibile.
Via via
che ci addentra verso il mercato i figli dell’Africa nera hanno ormai
soppiantato i residenti che sono migrati verso quartieri più moderni e dove la
speculazione edilizia degli anni ’70 ha creato nuove aree di sviluppo urbano.
I Rom, di
varie etnie peraltro, sono i migranti per antonomasia. I Gitani, girovaghi e
senza fissa dimora popolano la zona Stadio e di Romagnolo a Palermo. La
Stazione Centrale è la nostra China Town.
Scendo
verso l’interno della Sicilia e assisto a sbarchi di clandestini tra Sciacca e
Ribera. Fotografo uomini di mezza età che cercano un futuro migliore attratti
anche dalle nostre TV e da ciò che viene promesso. Arrivano qui si rendono ben
presto conto delle difficoltà a trovare lavori anche umili o come raccoglitori
nei campi e ben presto si spostano verso il Nord Eurpa.
Il mio
viaggio finisce a Ponte di Ferro, la foce del Belice, su quella bellissima
spiaggia dove sorge un hotel che sembra una cattedrale in un deserto. Il
viaggio inizia a Nord su un fiume che trova il mare con le sue storie di
partenza e si conclude a Sud con un altro fiume che trova un altro mare, un
nuovo orizzonte, sulle cui rive hanno vissuto i miei padri, i miei giganti:
Archimede, Ibn Battuta, Cervantes e tanti altri. Ma tu à ccù apparténi?
Nino Pillitteri (Dialoghi Mediterranei, n. 35, gennaio 2019)
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Nino Pillitteri, ha studiato Matematica presso il Dipartimento di Scienze
di Palermo. Nel periodo del Dottorato di Ricerca presso l’Institut Mittag
Leffler – Stoccolma ha incontrato nel 1984 la fotografa Cecilia Ahlqvist con
cui ha allestito una camera oscura. Altre camere oscure ha organizzato a
Palermo con Biagio Lenzitti e Peppe Puntarello. Ha fondato e diretto dal 2009
la rivista on line https://photo.webzoom.it. Collabora con
il fotografo Salvo Fundarotto e lavora come free-lance per varie testate
giornalistiche italiane ed estere come Demotix, Corbis image, pacificpressagency.com , photojournale.com,
witnessjournal.com,
azsalute.it,
blastingnews.com.
Ha vinto numerosi premi per servizi e inchieste fotografiche.
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