Nella sua rubrica L’Amaca, pubblicata da Repubblica,
Michele Serra trova estremamente disdicevole, e quasi delittuoso, che
Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia, abbia candidato alle
Europee Caio Giulio Cesare Mussolini, bis-bis nipote del Duce. Il solo
cognome lo manda in deliquio e anche sul nome arriccia il nasetto perché
ricorda quella romanità cui il capo del fascismo si ispirava (se
potesse, il Serra, metterebbe ai ceppi, riesumandolo, anche Cesare,
quello vero di “alea iacta est!”). Più che steso tranquillamente su
un’amaca Serra sembra seduto sui carboni ardenti e scrive: “Mussolini fu
un dittatore, un razzista, un’icona del ridicolo e la rovina del suo
popolo”. Che il fascismo sia stato una dittatura non è nemmeno il caso
di ricordarlo, anche se meno spietata di quelle a lui contemporanee, ma
portando pur sempre sulla coscienza il delitto Matteotti, l’assassinio,
in Francia, dei fratelli Rosselli e lo spegnimento, intellettuale e
fisico, in carcere di Antonio Gramsci, il fondatore del Partito
comunista italiano.
Mussolini poi, a differenza di Francisco Franco, ebbe la gravissima responsabilità di entrare in guerra con un alleato con cui non ci saremmo dovuti alleare e di perderla con tutte le conseguenze che ciò ha comportato. Altrimenti sarebbe morto tranquillamente nel suo letto, come Franco, invece di essere giustamente fucilato e poi appeso per i piedi a Piazzale Loreto, insieme a Claretta Petacci, ai gerarchi, quelli responsabili, quelli meno responsabili e altri di nulla responsabili, in una delle pagine più vergognose della nostra Storia che fece orrore agli stessi vincitori americani che allora erano parecchio diversi da quello che sono oggi. Ma la potenza retorica dei discorsi di Mussolini, che affascinò decine di milioni di nostri progenitori, può apparire ridicola oggi che sono passati tre quarti di secolo dal suo apogeo, allora non lo era affatto (per vedere il ridicolo nella retorica di Michele Serra non dovremo aspettar tanto, ci basta leggerlo oggi). Né si può ridurre il Fascismo al ‘Male Assoluto’, come fa Michele Serra peraltro in degnissima compagnia.
Mussolini poi, a differenza di Francisco Franco, ebbe la gravissima responsabilità di entrare in guerra con un alleato con cui non ci saremmo dovuti alleare e di perderla con tutte le conseguenze che ciò ha comportato. Altrimenti sarebbe morto tranquillamente nel suo letto, come Franco, invece di essere giustamente fucilato e poi appeso per i piedi a Piazzale Loreto, insieme a Claretta Petacci, ai gerarchi, quelli responsabili, quelli meno responsabili e altri di nulla responsabili, in una delle pagine più vergognose della nostra Storia che fece orrore agli stessi vincitori americani che allora erano parecchio diversi da quello che sono oggi. Ma la potenza retorica dei discorsi di Mussolini, che affascinò decine di milioni di nostri progenitori, può apparire ridicola oggi che sono passati tre quarti di secolo dal suo apogeo, allora non lo era affatto (per vedere il ridicolo nella retorica di Michele Serra non dovremo aspettar tanto, ci basta leggerlo oggi). Né si può ridurre il Fascismo al ‘Male Assoluto’, come fa Michele Serra peraltro in degnissima compagnia.
Il Fascismo, pur con tutti i suoi errori, e anche orrori, aveva in
testa un’idea di Stato e di Nazione, che cercò di realizzare
coerentemente. L’IRI, diventato nel dopoguerra un carrozzone
democristiano, fu una risposta intelligente alla crisi del ’29, peraltro
agevolata dal fatto che allora il mondo era molto meno ‘interconnesso’.
La ‘battaglia del grano’ (che probabilmente Michele Serra trova
‘ridicola’) era il tentativo, lungimirante, di trovare un equilibrio fra
l’avanzante industrialismo e l’agricoltura, suggestione che sarebbe di
capitale importanza recuperare oggi che il capitalismo industriale e
finanziario sta assassinando intere popolazioni. Del resto gli “anni del
consenso” non me li sono inventati io. Michele Serra, che è un uomo
colto, oltre che un uomo d’onore, avrà sicuramente letto Renzo De Felice
e Denis Mack Smith.
Scrivo queste cose con tranquilla coscienza perché mio padre, Benso
Fini, si fece quindici anni di esilio a Parigi, soffrendo la fame e la
povertà come gli altri, pochi, fuorusciti, in nome della libertà. Se
avessi la mentalità da sbirro di Michele Serra andrei a controllare come
si comportarono i suoi genitori e nonni durante il regime mussoliniano.
Ma io non sono uno sbirro e l’obbiettivo del mio articolo è altro. Mi
colpisce come a 75 anni dalla fine del regime fascista la sinistra
radical chic e radical snob (“cuore a sinistra, portafoglio a destra”)
si renda, essa sì, ridicola facendo il ponte isterico al solo sentir il
nome di Mussolini, anche se di un bis-bis nipote. Vorrei ricordare a
Michele Serra che nel dopoguerra, quando le lacerazioni del conflitto
erano ancora sanguinanti, né Rachele Mussolini, né i figli del Duce, né
Edda Ciano furono mai toccati, non solo per la generosa intercessione di
quel grande uomo che è stato Pietro Nenni, ma perché la sinistra era
ancora una cosa seria e, più in generale, la collettività italiana era
meno imbarbarita di quanto lo sia oggi, nell’anno di grazia 2019. Fa
specie che una persona che ha un passato e un presente professionale del
tutto rispettabile (ufficiale di Marina e dirigente di Finmeccanica)
come Caio Giulio Cesare Mussolini, sia messo alla gogna solo per il suo
cognome, da Michele Serra e da tutti i Michele Serra che abitano il
nostro Paese, dando così piena ragione a Mino Maccari: “I fascisti si
dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli
antifascisti”.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2019)
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