Non contento di aver impartito per otto anni 
ordini e moniti a tutte le categorie professionali, dai parlamenti ai 
governi, dai partiti di maggioranza a quelli di opposizione, dagli 
elettori ai magistrati, dalla Consulta ai giornalisti, dai movimenti di 
piazza ai sindacati, dagli storici agl’intellettuali, senza dimenticare i
 calciatori, i produttori cinematografici, i registi e gli attori, con 
l’eccezione forse dei cantanti e dei trapezisti, Re Giorgio I e II di 
Borbone ha voluto insegnare ai pm antimafia come si fa il pm antimafia. 
L’ha fatto col solito messaggio trasversale da Pizia di Delfi, senza 
nomi, affinché chi ha orecchie da intendere intenda, in occasione della 
consegna di una medaglia a Maria Falcone: “Ricordo che la lotta contro 
la mafia la si fa come la faceva Giovanni”. La sorella di “Giovanni”, 
come lo chiama Napolitano, manco fossero compagni di birilli, ricorda 
“l’efficacia del metodo Falcone, lo scrupolo con cui veniva trattato 
ogni dettaglio, cercando sempre il riscontro giuridico della prova”. Il 
sottinteso è subito colto dal Foglio di Ferrara: “il contrario dei 
processi imbastiti con le fanfare dello scandalismo ma privi di basi 
giuridiche e di un apparato probatorio consistente, che finiscono spesso
 nel nulla”, ma “spargono diffidenza e sospetto sulle istituzioni”. Il 
tutto a due settimane dalla deposizione di Sua Maestà al processo sulla 
trattativa. Processo così privo di basi giuridiche e apparato probatorio
 che tutte le istituzioni non fanno che ostacolarlo, col contorno di 
visite dei servizi nelle carceri per comprare bugie dai mafiosi.Restano però inevase due domande: 
1) Che ne sa Napolitano del metodo Falcone? Poco, a giudicare dalla 
pessima prova fornita da ministro dell’Interno, dal 1996 al ’98, quando 
furono chiuse le supercarceri di Pianosa e Asinara (simboli del 41-bis 
inventato da Falcone) e lui stesso prese a strillare che “i pentiti sono
 troppi” e bisognava cambiare la legge (inventata da Falcone) per 
sforbiciarli, guardacaso proprio mentre iniziavano a parlare della 
trattativa col Ros. La legge Napolitano fu poi varata nel 2000 dal 
guardasigilli Fassino. E persino Piero Grasso, non proprio un cuor di 
leone, commentò: “Con questa legge, al posto di un mafioso, io non mi 
pentirei più”. Infatti non si pentì più quasi nessuno, a parte alcuni 
pentiti che si pentirono di essersi pentiti e ritrattarono ciò che 
avevano già detto. Missione compiuta.
2) Davvero Falcone usava un metodo più rigoroso di quello dei suoi 
successori? No, anzi è vero il contrario: le prove ai suoi tempi 
sufficienti per condannare oggi non bastano più, a causa di 
quell’“innalzamento della soglia probatoria” descritto dai giuristi 
nell’ultimo ventennio, specie nei processi di mafia e politica. Basta 
leggere il mandato di cattura spiccato nel 1984 da Falcone per i cugini 
Nino e Ignazio Salvo dopo le rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta. 
Questi raccontò che gli esattori erano “uomini d’onore” e lo avevano 
ospitato nella loro villa a Santa Flavia. Quali riscontri trovò Falcone a
 quelle accuse? Si fece descrivere la villa, andò a verificare sul posto
 e scoprì che la descrizione corrispondeva: i Salvo finirono dentro e 
poi furono condannati al maxiprocesso. Allora bastava la “convergenza 
del molteplice”: un pentito confermato da uno o più pentiti (il Maxi si 
reggeva su tre: Buscetta, Contorno e Calderone). Oggi non più: molti 
politici accusati non da tre, ma da 30 collaboratori di giustizia 
attendibili e mai condannati per calunnia, sono stati assolti. Compreso 
Andreotti per il post-1980: anche per l’incontro con Riina nella casa 
palermitana di Ignazio Salvo che il pentito Di Maggio aveva descritto 
dettagliatamente, come Buscetta la villa di Santa Flavia. Di che va 
cianciando, allora, Napolitano? 
L’incontro con Maria Falcone era 
un’ottima occasione per solidarizzare finalmente con i pm di Palermo che
 indagano sulla trattativa Stato-mafia e per questo sono stati 
condannati a morte un anno fa da Riina (Di Matteo) e ricevono minacce e 
visite in ufficio da uomini delle istituzioni che lasciano scritte e 
lettere minatorie (Scarpinato). Ma non è parso il caso. I magistrati si 
celebrano solo da morti. Di Matteo e Scarpinato sono ancora vivi. 
Marco Travaglio (Jack's Blog - Il Fatto Quotidiano - 16 ottobre 2014) 
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