Genova.
 Parma. Grosseto. Trieste. L'Italia cade in pezzi. Ogni autunno, ma 
ormai anche in altre stagioni, ci sono alluvioni del tipo di quelle cui 
stiamo assistendo in questi giorni. E ogni volta si grida allo scandalo e
 si additano al ludibrio delle genti i responsabili che possono essere, a
 piacere, il sindaco, il governo, la burocrazia, il Servizio 
metereologico che ha sbagliato le previsioni, la Protezione civile che 
non è intervenuta in tempo e con mezzi adeguati. Ogni volta questa o 
quella Procura apre un fascicolo contro ignoti per 'disastro colposo'. E
 proprio in questo termine, 'ignoti', sta la chiave dell'intera 
faccenda. Perché i responsabili non sono né i sindaci, né il governo, né
 il Servizio metereologico, né la Protezione civile. Responsabili siamo 
noi tutti, vittime comprese, che abbiamo accettato e accettiamo senza 
fiatare, senza un guaito, anzi cercando ciascuno di trarne la propria 
piccola o grande convenienza, un modello di sviluppo demenziale che non 
poteva portare che al dissesto idrogeologico. Certo si può tamponare 
meglio questa o quella situazione, ma non salvare la baracca. Sarebbe 
come se si pretendesse di impedire il naufragio di una nave che ha perso
 la chiglia infilando un dito in un foro del fasciame. Un processo di 
cementificazione, di deforestazione, di ogni tipo di oltraggio alla 
Natura che dura da più di mezzo secolo non si recupera né in un giorno, 
né in un anno, né in dieci, ma con cinquant'anni di retromarcia. Questo 
però nessuno, governi o cittadini, vuol sentirselo dire. E chi lo dice, e
 magari lo scrive, è considerato un folle, un antilluminista, un 
abbietto antimodernista. Ci si ostina a continuare per una strada
 che non ci vorrebbe molto a capire dove vada a parare: in un collasso 
finale devastante, di cui quello ambientale è solo un aspetto. 
L'Economia, con l'ancella Tecnologia, prevale su tutti e su tutto, anche
 sul più elementare buon senso. L'edilizia è in crisi. Bene, vuol dire 
che perlomeno si smetterà di costruire. E invece no, si costruisce 
ovunque, a manetta. A Finale Ligure, un tempo, con Celle, Albisola, 
Spotorno, Noli, Varigotti, Borghetto, Alassio, Bordighera, delizioso 
borgo di pescatori della Riviera di Ponente, ora ridotta ad un'unica 
striscia di cemento da Genova a Ventimiglia, non si vedono che cartelli 
'vendesi' di case rimaste vuote, eppure si sta costruendo ancora, sul 
mare. Solo i cinesi -ma verrà anche il loro turno- ci han superato: 
costruiscono grandi città dove non abita nessuno. Milano ha avuto da 
sempre pochissimi spazi vuoti (eppure ai primi del Novecento 
l'architetto Van de Velde avvertiva: «Una città è fatta di pieni ma 
anche di vuoti») e adesso sono stati riempiti anche quelli in nome di 
quell'idiozia dell'Expo. Le Esposizioni Universali -la prima si tenne a 
Londra nel 1851- avevano un senso quando altri erano i mezzi di 
comunicazione, non nell'era di Internet. Che sarebbe stata in gran parte
 solo una speculazione malavitosa lo si sapeva da subito (adesso non ci 
resta che sperare, a titolo punitivo, in Ebola).
Intendiamoci,
 l'Italia è inserita nel modello di sviluppo occidentale e ci sarebbe 
voluta molta lungimiranza (forse solo il fascismo, almeno in teoria, la 
ebbe) per tenersene fuori. Però sono convinto che, fra i Paesi europei, 
il processo di industrializzazione sia stato particolarmente rovinoso 
per noi. Perché il nostro territorio, così vario, dalle Alpi alla 
cerniera degli Appenini al delta del Po alle coste, è geologicamente 
fragile, così come fragili sono il nostro straordinario paesaggio e la 
ricchezza artistica, frutto dell'opera delle generazioni che ci hanno 
preceduto, che non abbiamo saputo preservare. Ce lo siamo alluvionati da
 soli il nostro bel Paese. Le 'bombe d'acqua' (dei normali temporali) 
cadute su Genova e altrove c'entrano poco.
Massimo Fini (Il Gazzettino, 17 ottobre 2014)
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