La grande manifestazione di Parigi, con due milioni di persone in 
piazza, 50 capi di Stato, non è un segnale di forza ma di debolezza. 
Quando si grida che non si ha paura vuol dire che si ha paura. E se 
bastano 17 morti per provocare una reazione così spropositata ciò non 
farà che incoraggiare i mininuclei jihadisti a ripetersi, certi di avere
 una risonanza mondiale. Non solo: poiché viviamo in un'epoca mediatica,
 stuzzicherà balordi e frustrati di ogni genere a cercare di imitare gli
 jihadisti per passare alla Storia, come fece Erostrato incendiando il 
Tempio di Artemide a Efeso.
Noi Europei, a metà del '900, ci siamo fatti una guerra spaventosa 
che ha causato 50 milioni di morti e i sopravvissuti, vincitori o vinti 
che fossero, sono usciti rafforzati da questa prova tremenda e, insieme,
 formidabile. Ma cinquant'anni di benessere ci hanno infiacchito, 
infrollito, indebolito. Così oggi non siamo in grado di sopportare 
emotivamente 17 vittime di guerra. Perché di guerra si tratta. Per la 
verità sono più di dieci anni che abbiamo mosso guerra al mondo 
musulmano: Afghanistan (2001), Iraq (2003), Somalia (2006/7), Libia 
(2011) e, da ultimo, bombardando le posizioni dell'Isis che sta 
combattendo una sua legittima battaglia per la conquista di territori 
che non sono nostri. Ma poiché le vittime, grazie alla nostra enorme 
superiorità tecnologica, cadevano, a centinaia di migliaia, solo in 
campo altrui, e il conflitto non toccava i nostri territori e le nostre 
tranquille abitudini, non ci siamo accorti che eravamo in guerra. Ma, 
prima o poi, dovevamo aspettarci un colpo di ritorno, come scrivevo sul 
nostro giornale il 29 agosto.
Adesso i fatti di Parigi ci hanno reso finalmente consapevoli che la 
guerra, con i suoi massacri, non riguarda più solo gli altri: riguarda 
anche noi e ci stringe da vicino, da molto vicino. Adesso che gli errori
 e gli orrori di cui ci siamo resi responsabili per più di dieci anni 
sono un dato incancellabile, si pone la cerniveskiana domanda: che fare?
 Riconoscere che siamo in guerra e applicare le leggi di guerra. In 
questa situazione il trattato di Schengen, con la libera circolazione 
delle persone, senza controllo alcuno, fra i Paesi che l'hanno firmato, 
va sospeso. Si ripristino le frontiere. La privacy deve cedere il passo 
alle ragioni della sicurezza. Censura sulle informazioni di tipo 
militare. Divieto a tutte le 'vispe terese', femmine o maschi, delle Ong
 o cani sciolti di circolare nei Paesi con cui siamo o siamo stati in 
guerra se non sotto il diretto controllo delle autorità militari.
Se fossi uno dei decisori occidentali riconoscerei lo Stato islamico 
di Al Bagdadi che ormai, lo si voglia o no, è una realtà. E tratterei 
col Califfo che si è conquistato una tale autorità sul campo di 
battaglia da poter tenere a freno le cellule terroriste che stanno 
fermentando un po' dappertutto, in Algeria, nel Sinai, nello Yemen. In 
cambio proporrei il ritiro di tutte le nostre truppe, delle basi e la 
fine dei bombardamenti sull'Isis. Che i popoli del Medio Oriente se la 
vedano fra loro, senza le nostre pelose, oltre che sanguinarie, 
intromissioni.
Utopia? Certamente. Solo pochi giorni fa il Parlamento francese ha 
votato all'unanimità (un solo voto contrario) un ulteriore incremento 
dei bombardamenti sull'Isis, quei bombardamenti che sono stati la goccia
 che ha fatto traboccare il vaso terrorista, come ha affermato Coulibaly
 nel suo 'testamento' postumo. La stessa proposta l'ha avanzata 
Berlusconi. E qui passiamo dalla tragedia alla farsa. Che un detenuto 
abbia voce in capitolo su queste questioni è una cosa che può capitare 
solo in Italia.
Massimo Fini (Il Gazzettino - 16 gennaio 2015)
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