Tutto ha inizio con l'Afghanistan. In questi giorni il Corriere 
ripubblica le corrispondenze di Tiziano Terzani nei primi mesi 
dell'occupazione americana in cui il giornalista si pone dei dubbi sulla
 validità di quella operazione che sono da sempre anche i miei.
L'occupazione dell'Afghanistan non aveva, una volta tanto, delle 
motivazioni economiche (quella terra non ha il petrolio ed è povera di 
tutto) ma squisitamente ideologiche. Si voleva spazzar via il progetto 
del Mullah Omar e dei suoi giovanissimi Talebani (14-27 anni) di 
riportare i costumi dell'Afghanistan all'epoca di Maometto (VII sec.),  
costumi peraltro mai venuti meno nella vastissima area rurale del Paese,
 senza però rinunciare ad alcune, poche, mirate, conquiste della 
Modernità soprattutto nel campo della salute e dei trasporti. Una sorta 
di 'Medioevo sostenibile'. L'Afghanistan non costituiva alcun pericolo 
per l'Occidente perché gli afgani, talebani o no, non si sono mai 
interessati d'altro che del loro Paese. E Bin Laden? I Talebani se lo 
erano trovato in casa, ce lo aveva portato Massud. Omar non lo vedeva di
 buon occhio, lo definiva «un piccolo uomo», ma doveva tener conto che 
Bin Laden godeva di un certo prestigio fra la popolazione perché, con le
 sue ricchezze, aveva costruito strade, ponti, ospedali, infrastrutture 
di cui il Paese aveva estremo bisogno dopo i dieci anni di devastazione 
sovietica (quello che avremmo dovuto far noi, che vi abbiamo invece 
portato una disoccupazione al 40%, corruzione e, grandiosa conquista 
della democrazia, i bordelli e X Factor). Comunque quando nel dicembre 
del 1998, dopo gli attentati in Kenya e Tanzania, Bill Clinton chiese al
 Mullah Omar di far fuori Bin Laden, si disse disponbile purché la 
responsabilità dell'assassinio se la assumessero gli americani 
(Documento del Dipartimento di Stato del 2005). Ma all'ultimo momento 
Clinton, misteriosamente, si tirò indietro.
Dopo l'attentato alle Torri Gemelle, mentre le folle arabe scendono 
in piazza giubilanti, il governo talebano manda un messaggio di 
cordoglio a quello degli Stati Uniti: «Nel nome di Allah, della 
giustizia e della compassione. Noi condanniamo fortemente i fatti che 
sono avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center, condividiamo il 
dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari. 
Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia». Ma non 
basta: gli americani hanno deciso che il 'Mostro' deve essere cancellato
 dalla faccia della terra. Eppure non c'erano afgani nel commando che 
abbatté le Torri Gemelle, né afgani sono stati trovati nelle cellule di 
Al Qaeda. E, oggi, non si ha notizia di afgani che combattano nelle file
 dell'Isis, pur essendo anch'essi sunniti. E così sono stati tredici 
anni di guerra, una guerra particolarmente vigliacca (macchine contro 
uomini) e le violenze degli americani e della Nato hanno colpito 
l'immaginario collettivo dell'Islam più radicale suscitando un odio 
irrefrenabile contro gli occidentali. Che tutto parta da lì lo dicono 
quelle tute arancioni (imposte ai guerriglieri talebani a Guantanamo, 
per umiliarli) fatte indossare dai carnefici dell'Isis alle loro vittime
 mentre le giustiziano, in un orrendo miscuglio di ferocia ancestrale e 
sofisticata tecnologia. Anche qui c'è un abisso culturale. Gli afgani 
non sono arabi. Sono un antico popolo tradizionale. Tutti quelli che 
sono stati loro prigionieri, da Daniele Mastrogiacomo, alla giornalista 
inglese Yvonne Ridley, alla cooperatrice Céline Cordelier, al giovane 
sergente americano Bowe Bergdahl, hanno detto di essere stati trattati 
con rispetto, quasi come ospiti, e le donne con particolare attenzione 
alle loro esigenze femminili.
Aveva previsto un talebano intervistato da Terzani: «Io non so chi 
sia Osama, non l'ho mai incontrato, ma se Osama è nato a causa delle 
ingiustizie commesse in Afghanistan, queste ingiustizie faranno nascere 
tanti altri Osama». E così è stato. Di fronte alla spietatezza senza se e
 senza ma dell'Isis rimpiangeremo la moderazione e la saggezza del 
Mullah Omar. 'Il Mostro'.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2015)
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