Da Bagheria alle Ande boliviane, dalle feste religiose al mondo
della moda. Poi i reportage, i paesaggi, le sue ossessioni e i suoi
grandi amici come Henri Cartier-Bresson. L'intervista al maestro della
fotografia in occasione della mostra alla GAM di Palermo
Viaggio, racconto, memoria, tre parole che racchiudono oltre 50 anni di storia del fotografo Ferdinando Scianna. Un maestro di livello internazionale che la Galleria d’arte moderna di Palermo ha deciso di celebrare con la più grande mostra antologica mai organizzata prima. La rassegna Viaggio Racconto Memoria – dal 21 febbraio al 28 luglio, curata da Denis Curti, Paola Bergna e Alberto Bianda, e organizzata da Civita – con
quasi 200 fotografie in bianco e nero stampate in diversi formati,
attraversa l’intera carriera di Scianna, e si sviluppa lungo un
articolato percorso narrativo costruito su diversi capitoli e varie
modalità di allestimento. Un percorso artistico iniziato nella sua
Bagheria che si snoda attraverso varie tematiche come l’attualità, la
guerra, il viaggio, la religiosità popolare, tutte legate da un unico
filo conduttore: la costante ricerca di una forma nel caos della vita.
Dalla Sicilia alle Ande boliviane, dalle feste religiose – esordio della
sua carriera – all’esperienza nel mondo della moda, iniziata con Dolce
& Gabbana e Marpessa. Poi i reportage (fa parte dell’agenzia foto
giornalistica Magnum), i paesaggi, le sue ossessioni tematiche come gli
specchi, gli animali, le cose e infine i ritratti dei suoi amici come
Leonardo Sciascia, Henri Cartier-Bresson, Jorge Louis Borges, solo per
citarne alcuni. Questa mostra «è la storia di un fotografo in oltre
mezzo secolo di fotografia».
Partiamo dal titolo della mostra Viaggio, Racconto, Memoria. Che importanza hanno avuto queste tre parole nella sua lunga carriera?
«Questa è la terza, o quarta, grande mostra antologica nella mia vita di fotografo. Probabilmente l’ultima, se penso alla mia età, ma anche alla felice fatica che mi è costata. I titoli delle precedenti furono Le forme del caos, che allora, 1989, mi sembrò una perfetta definizione per la vita e per la fotografia. L’altra del 2006, la chiamai La geometria e la passione, un titolo che cercava di coniugare l’ossessione di raccontare il mondo e la necessaria forma per raccontarlo. Questa ultima, più serenamente e didascalicamente, si chiama Memoria, Viaggio, Racconto, che sono per me sostanzialmente tre sinonimi di come io concepisco e ho cercato di praticare la fotografia in oltre cinquanta anni di mestiere. Tutte le fotografie producono memoria, individuale e collettiva, sono racconto oppure, almeno io penso, non sono nulla. Ma le fotografie si trovano e per trovarle bisogna cercarle, ecco perché sempre sono viaggio. Viaggio in luoghi lontani o lontanissimi, ma anche sotto casa, e persino dentro casa, ovunque la tua passione di guardare ogni tanto ti fa vedere qualche istante significativo. Questa mostra, che contiene quasi 200 immagini, partita da Forlì e che dopo Palermo approderà a Venezia, è probabilmente la prima che riesco a realizzare come pensavo dovesse essere una mostra che rendesse conto del mio lavoro. Un percorso fisico, mentale e emozionale dentro i vari argomenti e ossessioni della mia fotografia e della mia vita. I tre assi del titolo si diramano in diciannove temi, ciascuno dei quali è diversamente presentato, cui fa da eco, guida e memoria della mostra il corposo catalogo pubblicato da Marsilio. Tutti e diciannove i temi implicitamente evocano i molti libri che sugli stessi argomenti ho avuto la fortuna di pubblicare nella mia vita».
Come si è trasformata la narrazione fotografica?
«Il poeta Borges diceva che le storie che da sempre hanno raccontato gli uomini non sono probabilmente più di una dozzina. Dal racconto orale, a Omero, agli innumerevoli pittori e scrittori, le storie che hanno raccontato, raccontando la vita, i pensieri, i sentimenti, i luoghi, sono più o meno sempre le stesse. Cambia, poco, la vita, cambia, a volte molto, il mondo e cambiano le maniere e gli stili con cui si racconta. La fotografia ha introdotto qualcosa di nuovo in questa lunghissima vicenda perché trascina con sé l’insopprimibile traccia di vita che questo linguaggio principe della modernità ha introdotto nella cultura umana. Figli della fotografia sono il cinema, linguaggio composito, e per certi versi anche la televisione e internet. Nella contemporaneità, finché sono stati vivi e influenti, i giornali e le riviste hanno sviluppato un ruolo importante e hanno determinato anche nuove forme di narrazione. Adesso che i giornali vanno drammaticamente scomparendo quella esigenza di racconto con immagini fotografiche si è trasferita nei libri, sempre più numerosi, anche inflattivamente, nelle mostre e nei supporti elettronici. Molti fotografi, in questo clima di sfiducia nel racconto visivo, si sono rifugiati, a mio parere a torto, nelle pratiche artistiche, spesso rinunciando alla specificità e alla forza del proprio linguaggio. Ma, con la fotografia o senza la fotografia, con i giornali o senza i giornali gli uomini non potranno mai fare a meno di raccontare, con le parole e con le immagini».
La macchina fotografica a cui è più legato?
«Forse la prima, una macchinetta amatoriale, un regalo di mio padre, che se ne è pentito tutta la vita, che mi fece scoprire ancora ragazzino lo strumento e il linguaggio che sarebbero diventati il mio mestiere e il modo per dare un senso alla mia vita. Ho poi usato e sperimentato ogni genere di macchina fotografica che i progressi della tecnologia offrivano. Ma non ho mai avuto il feticismo dello strumento. Lo stesso, per dire, vale per le automobili. Una macchina deve funzionare: questo è quanto. Impari a usarla e poi la dimentichi. Se va bene, come diceva Cartier Bresson, diventa il prolungamento del tuo occhio e della tua coscienza. Ogni tecnica è strumento di linguaggio o rimane fine a sé stessa».
Quale usa adesso?
«Da molti anni mi sono anche io, a malincuore, ma senza drammi, approfittando delle nuove opportunità, convertito alle macchine digitali. Ormai, purtroppo, faccio poche fotografie. Il mestiere di reporter ha una componente sportiva di cui il mio corpo non vuole più sapere. Oggi uso macchine piccole e leggere, compatibili con le limitazioni della mia artrite».
Nella fotografia di reportage qual è la differenza tra raccontare la vita e raccontare la storia?
«Raccontare la vita significa sempre raccontare la storia, specialmente per un fotografo. Tutta la fotografia è reportage, una scena di guerra come gli uomini che raccolgono le arance. E persino un paesaggio o una mela su un tavolo. La storia la fanno, la vivono e la soffrono gli uomini. Di questo si occupa, o dovrebbe occuparsi, la fotografia».
Lo scatto di cui va ancora fiero?
«È una domanda che non dovrebbe mai essere fatta a un fotografo, come non si chiederebbe a una madre quale dei suoi figli preferisce. Potrei rispondere ruffianamente che la fotografia cui sono più affezionato è quella di una mia figlia appena nata sul petto di sua madre. Ma in un certo senso considero tutte le mie fotografie momenti del mio album di famiglia. Io c’ero. E ogni volta ho cercato di raccontare un momento di emozione, un pensiero, un’indignazione, uno stupore davanti alla vita e al mondo per raccontarli e per raccontarmi. Se, raramente, credo di esserci riuscito le mostro e cerco di condividerle con gli altri. Diversamente non avrei potuto fare libri, né questa mostra con quasi 200 fotografie».
Oggi che scattare foto è diventato per molti un gesto quotidiano, distratto e quasi automatico, cosa è cambiato nella fruizione della fotografia?
«Niente è cambiato più vertiginosamente nei linguaggi visivi con cui gli uomini comunicano tra di loro come, negli ultimi venti anni, la fotografia. Ogni giorno, ha stabilito un’agenzia americana, già da qualche anno si fanno più fotografie di quante ne erano state fatte da quando l’invenzione ha fatto irruzione nel panorama della cultura contemporanea. Un autentico tsunami, frutto di nuove invenzioni tecnologiche di massa. E’ una rivoluzione che investe non solamente la fotografia ma la natura stessa delle nostre relazioni sociali. Una studiosa dell’universita di Palermo, Anna Fici, ha di recente dedicato al fenomeno un interessante saggio dal titolo La giostra della social photography. Una giostra, appunto, sulla quale siamo saliti tutti e che sembra girare ad una velocità sempre più folle. Che cosa significa, che cosa è cambiato nel concetto stesso di fotografia? Non lo so. Magari con arroganza, temo che, al ritmo con cui si accavallano le trasformazioni tecnologiche e sociali, non lo sappia ancora nessuno. È difficile, se non impossibile, analizzare uno tsunami nel mezzo della tempesta. La sola cosa che posso dire, come di recente il mio amico Sebastiao Salgado, è che sono felice di avere vissuto un momento storico nel quale questo linguaggio ci ha permesso di usarlo e praticarlo con la convinzione che potesse raccontare il mondo e noi stessi. E non solo per noi, ma anche per gli altri».
Quanto il digitale e Instagram hanno cambiato la fotografia e il concetto di immagine?
«Il digitale non riguarda solo la fotografia, e non credo che abbia cambiato moltissimo, ma l’uso di massa dei telefonini e tutti i marchingegni dei social hanno invece cambiato tutto. All’inizio, come tutti gli anziani abituati a un certo paesaggio del mondo e degli strumenti di cui si sono serviti per una vita me ne sono spaventato e anche indignato. Poi mi sono reso conto che non si può nascondere il sole con una rete, come dice un proverbio siciliano. Il mondo cambia e non ci puoi fare proprio niente. I fenomeni di massa sono quello che sono. L’industria vende come aceto balsamico qualcosa che con l’aceto balsamico della tradizione non ha nulla a che fare. Forse, come l’aceto balsamico dei supermercati, continuiamo a chiamare fotografia qualcosa di diverso. Non si sono mai prodotte tante immagini private come oggi con i telefonini. Ma nessuno fa più l’album di famiglia. L’immagine come costruzione e traccia di memoria sembra non interessare più a nessuno. La sola cosa che mi preoccupa, se uno della mia età si può ancora seriamente preoccupare per qualcosa che non sia il suo tempo biologico, è che l’immagine abbia preso il posto della realtà. La fotografia non è più quello che abbiamo imparato a pensare per oltre 150 anni? Amen».
C’è qualche nuovo fotografo in cui rivede un giovane Scianna?
«Ci sono alcuni giovani fotografi bravi, interessanti e pieni di passione. Mi rallegro e angoscio per loro».
Se dovesse dare un consiglio a chi vuole cominciare questo mestiere oggi…
«Non do consigli a nessuno. Dico genericamente di essere sinceri, di raccontare quello che amano, quello che li indigna, quello che li stupisce. Ma questo vale per chiunque, uno scrittore, un fotografo, come per un padre di famiglia. Come camparci è un’altra faccenda».
Galleria d’arte moderna, via sant’Anna 21, Palermo - dal 21 febbraio al 28 luglio
Michele Falcone (Corriere della Sera, 14 febbraio 2019) - Gallery Corriere della Sera
Partiamo dal titolo della mostra Viaggio, Racconto, Memoria. Che importanza hanno avuto queste tre parole nella sua lunga carriera?
«Questa è la terza, o quarta, grande mostra antologica nella mia vita di fotografo. Probabilmente l’ultima, se penso alla mia età, ma anche alla felice fatica che mi è costata. I titoli delle precedenti furono Le forme del caos, che allora, 1989, mi sembrò una perfetta definizione per la vita e per la fotografia. L’altra del 2006, la chiamai La geometria e la passione, un titolo che cercava di coniugare l’ossessione di raccontare il mondo e la necessaria forma per raccontarlo. Questa ultima, più serenamente e didascalicamente, si chiama Memoria, Viaggio, Racconto, che sono per me sostanzialmente tre sinonimi di come io concepisco e ho cercato di praticare la fotografia in oltre cinquanta anni di mestiere. Tutte le fotografie producono memoria, individuale e collettiva, sono racconto oppure, almeno io penso, non sono nulla. Ma le fotografie si trovano e per trovarle bisogna cercarle, ecco perché sempre sono viaggio. Viaggio in luoghi lontani o lontanissimi, ma anche sotto casa, e persino dentro casa, ovunque la tua passione di guardare ogni tanto ti fa vedere qualche istante significativo. Questa mostra, che contiene quasi 200 immagini, partita da Forlì e che dopo Palermo approderà a Venezia, è probabilmente la prima che riesco a realizzare come pensavo dovesse essere una mostra che rendesse conto del mio lavoro. Un percorso fisico, mentale e emozionale dentro i vari argomenti e ossessioni della mia fotografia e della mia vita. I tre assi del titolo si diramano in diciannove temi, ciascuno dei quali è diversamente presentato, cui fa da eco, guida e memoria della mostra il corposo catalogo pubblicato da Marsilio. Tutti e diciannove i temi implicitamente evocano i molti libri che sugli stessi argomenti ho avuto la fortuna di pubblicare nella mia vita».
Come si è trasformata la narrazione fotografica?
«Il poeta Borges diceva che le storie che da sempre hanno raccontato gli uomini non sono probabilmente più di una dozzina. Dal racconto orale, a Omero, agli innumerevoli pittori e scrittori, le storie che hanno raccontato, raccontando la vita, i pensieri, i sentimenti, i luoghi, sono più o meno sempre le stesse. Cambia, poco, la vita, cambia, a volte molto, il mondo e cambiano le maniere e gli stili con cui si racconta. La fotografia ha introdotto qualcosa di nuovo in questa lunghissima vicenda perché trascina con sé l’insopprimibile traccia di vita che questo linguaggio principe della modernità ha introdotto nella cultura umana. Figli della fotografia sono il cinema, linguaggio composito, e per certi versi anche la televisione e internet. Nella contemporaneità, finché sono stati vivi e influenti, i giornali e le riviste hanno sviluppato un ruolo importante e hanno determinato anche nuove forme di narrazione. Adesso che i giornali vanno drammaticamente scomparendo quella esigenza di racconto con immagini fotografiche si è trasferita nei libri, sempre più numerosi, anche inflattivamente, nelle mostre e nei supporti elettronici. Molti fotografi, in questo clima di sfiducia nel racconto visivo, si sono rifugiati, a mio parere a torto, nelle pratiche artistiche, spesso rinunciando alla specificità e alla forza del proprio linguaggio. Ma, con la fotografia o senza la fotografia, con i giornali o senza i giornali gli uomini non potranno mai fare a meno di raccontare, con le parole e con le immagini».
La macchina fotografica a cui è più legato?
«Forse la prima, una macchinetta amatoriale, un regalo di mio padre, che se ne è pentito tutta la vita, che mi fece scoprire ancora ragazzino lo strumento e il linguaggio che sarebbero diventati il mio mestiere e il modo per dare un senso alla mia vita. Ho poi usato e sperimentato ogni genere di macchina fotografica che i progressi della tecnologia offrivano. Ma non ho mai avuto il feticismo dello strumento. Lo stesso, per dire, vale per le automobili. Una macchina deve funzionare: questo è quanto. Impari a usarla e poi la dimentichi. Se va bene, come diceva Cartier Bresson, diventa il prolungamento del tuo occhio e della tua coscienza. Ogni tecnica è strumento di linguaggio o rimane fine a sé stessa».
Quale usa adesso?
«Da molti anni mi sono anche io, a malincuore, ma senza drammi, approfittando delle nuove opportunità, convertito alle macchine digitali. Ormai, purtroppo, faccio poche fotografie. Il mestiere di reporter ha una componente sportiva di cui il mio corpo non vuole più sapere. Oggi uso macchine piccole e leggere, compatibili con le limitazioni della mia artrite».
Nella fotografia di reportage qual è la differenza tra raccontare la vita e raccontare la storia?
«Raccontare la vita significa sempre raccontare la storia, specialmente per un fotografo. Tutta la fotografia è reportage, una scena di guerra come gli uomini che raccolgono le arance. E persino un paesaggio o una mela su un tavolo. La storia la fanno, la vivono e la soffrono gli uomini. Di questo si occupa, o dovrebbe occuparsi, la fotografia».
Lo scatto di cui va ancora fiero?
«È una domanda che non dovrebbe mai essere fatta a un fotografo, come non si chiederebbe a una madre quale dei suoi figli preferisce. Potrei rispondere ruffianamente che la fotografia cui sono più affezionato è quella di una mia figlia appena nata sul petto di sua madre. Ma in un certo senso considero tutte le mie fotografie momenti del mio album di famiglia. Io c’ero. E ogni volta ho cercato di raccontare un momento di emozione, un pensiero, un’indignazione, uno stupore davanti alla vita e al mondo per raccontarli e per raccontarmi. Se, raramente, credo di esserci riuscito le mostro e cerco di condividerle con gli altri. Diversamente non avrei potuto fare libri, né questa mostra con quasi 200 fotografie».
Oggi che scattare foto è diventato per molti un gesto quotidiano, distratto e quasi automatico, cosa è cambiato nella fruizione della fotografia?
«Niente è cambiato più vertiginosamente nei linguaggi visivi con cui gli uomini comunicano tra di loro come, negli ultimi venti anni, la fotografia. Ogni giorno, ha stabilito un’agenzia americana, già da qualche anno si fanno più fotografie di quante ne erano state fatte da quando l’invenzione ha fatto irruzione nel panorama della cultura contemporanea. Un autentico tsunami, frutto di nuove invenzioni tecnologiche di massa. E’ una rivoluzione che investe non solamente la fotografia ma la natura stessa delle nostre relazioni sociali. Una studiosa dell’universita di Palermo, Anna Fici, ha di recente dedicato al fenomeno un interessante saggio dal titolo La giostra della social photography. Una giostra, appunto, sulla quale siamo saliti tutti e che sembra girare ad una velocità sempre più folle. Che cosa significa, che cosa è cambiato nel concetto stesso di fotografia? Non lo so. Magari con arroganza, temo che, al ritmo con cui si accavallano le trasformazioni tecnologiche e sociali, non lo sappia ancora nessuno. È difficile, se non impossibile, analizzare uno tsunami nel mezzo della tempesta. La sola cosa che posso dire, come di recente il mio amico Sebastiao Salgado, è che sono felice di avere vissuto un momento storico nel quale questo linguaggio ci ha permesso di usarlo e praticarlo con la convinzione che potesse raccontare il mondo e noi stessi. E non solo per noi, ma anche per gli altri».
Quanto il digitale e Instagram hanno cambiato la fotografia e il concetto di immagine?
«Il digitale non riguarda solo la fotografia, e non credo che abbia cambiato moltissimo, ma l’uso di massa dei telefonini e tutti i marchingegni dei social hanno invece cambiato tutto. All’inizio, come tutti gli anziani abituati a un certo paesaggio del mondo e degli strumenti di cui si sono serviti per una vita me ne sono spaventato e anche indignato. Poi mi sono reso conto che non si può nascondere il sole con una rete, come dice un proverbio siciliano. Il mondo cambia e non ci puoi fare proprio niente. I fenomeni di massa sono quello che sono. L’industria vende come aceto balsamico qualcosa che con l’aceto balsamico della tradizione non ha nulla a che fare. Forse, come l’aceto balsamico dei supermercati, continuiamo a chiamare fotografia qualcosa di diverso. Non si sono mai prodotte tante immagini private come oggi con i telefonini. Ma nessuno fa più l’album di famiglia. L’immagine come costruzione e traccia di memoria sembra non interessare più a nessuno. La sola cosa che mi preoccupa, se uno della mia età si può ancora seriamente preoccupare per qualcosa che non sia il suo tempo biologico, è che l’immagine abbia preso il posto della realtà. La fotografia non è più quello che abbiamo imparato a pensare per oltre 150 anni? Amen».
C’è qualche nuovo fotografo in cui rivede un giovane Scianna?
«Ci sono alcuni giovani fotografi bravi, interessanti e pieni di passione. Mi rallegro e angoscio per loro».
Se dovesse dare un consiglio a chi vuole cominciare questo mestiere oggi…
«Non do consigli a nessuno. Dico genericamente di essere sinceri, di raccontare quello che amano, quello che li indigna, quello che li stupisce. Ma questo vale per chiunque, uno scrittore, un fotografo, come per un padre di famiglia. Come camparci è un’altra faccenda».
Galleria d’arte moderna, via sant’Anna 21, Palermo - dal 21 febbraio al 28 luglio
Michele Falcone (Corriere della Sera, 14 febbraio 2019) - Gallery Corriere della Sera
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