Siccome qualcuno aveva evocato il primo referendum processuale della storia, quello indetto da Ponzio Pilato fra Gesù e Barabba, possiamo tranquillamente dire che qui mancava Gesù. Ma ha rivinto Barabba. E non perché Matteo Salvini
 sia un bandito, anche se è (anzi ormai era) indagato per sequestro di 
persona aggravato di 177 migranti appena salvati dal naufragio. Ma 
perché, quando si chiede al “popolo” di pronunciarsi non su questioni di
 principio, ma su casi penali dei quali non sa nulla, la risposta che 
arriva di solito è sbagliata. E quella data ieri dalla maggioranza degli iscritti 5Stelle non è solo sbagliatissima: è suicida.
 La stessa, peraltro, che auspicavano i vertici, terrorizzati dalla 
reazione di Salvini, cioè dalle ripercussioni sul governo e dunque sulle
 proprie poltrone. Chi aveva sperato che gli iscritti dessero una 
lezione agli eletti, anzi ai “dipendenti” come li chiamava un tempo 
Grillo, facendoli rinsavire e rammentando loro i valori fondativi della 
legalità, dell’uguaglianza, della lotta ai privilegi di Casta, è rimasto
 deluso. Per salvare Salvini, i 5Stelle dannano se stessi. Nemmeno le parole sagge e oneste dei tre sindaci di punta – Appendino, Nogarin e Raggi – raccolte ieri dal Fatto sono servite a restituire la memoria alla maggioranza della “base”.
 È bastato meno di un anno di governo perché il virus del berlusconismo
 infettasse un po’ tutto il mondo 5Stelle. E l’impietoso referto del 
contagio è facilmente rintracciabile nelle dichiarazioni dei senatori 
che già da giorni volevano a tutti i costi salvare Salvini e nei 
commenti sul Blog delle Stelle dei loro degni iscritti che li hanno 
seguiti anziché fermarli sulla strada dell’impunità. Dicono più o meno 
tutti la stessa cosa: siccome ora governiamo noi e la Lega, decidiamo noi chi va processato e chi no,
 alla faccia dei giudici politicizzati che vorrebbero giudicare le 
nostre scelte unanimi per rovesciare il governo. Questo, in fondo, era 
il messaggio in bottiglia mal nascosto nella decisione di affidare agli 
iscritti una scelta che avrebbero dovuto assumere, senza esitazione 
alcuna, il capo politico Di Maio e il suo staff. Una scelta naturale,
 quasi scontata, quella dell’autorizzazione a procedere, che era stata 
annunciata fin da subito, quando arrivò in Parlamento la richiesta del 
Tribunale dei ministri su Salvini: “Vuole il processo? Lo avrà”.
 Ma poi era stata prontamente ribaltata, peraltro senza mai essere 
ufficializzata, quando Salvini aveva cambiato idea intimando con un 
fischio ai partner di salvarlo dal processo. Riuscendo nell’impresa di 
spaccarli a metà.
Ergo, a decidere la linea del primo partito d’Italia, sono i capricci dell’alleato-rivale. Che ha imposto ai 5Stelle un voltafaccia pronunciato a mezza bocca, senza nessuno che se ne assumesse la paternità e la responsabilità. Un atto non dovuto, gratuito (il governo non sarebbe certo caduto sulla Diciotti) di sottomissione a Salvini:
 lo stesso che prende i 5Stelle a pesci in faccia sul Tav, le trivelle e
 prossimamente sull’acqua pubblica, straccia spudoratamente il Contratto
 di governo e poi pretende l’asservimento totale degli alleati senza 
restituire nemmeno un pizzico di lealtà. Così le storiche parole 
d’ordine di Beppe Grillo e la lezione di Gianroberto Casaleggio
 – “Ogni volta che deroghi a una regola, praticamente la cancelli” – 
sono finite nel dimenticatoio, con la scusa che “questa volta è 
diversa”, “non è come con gli altri governi”, “non ci sono di mezzo le 
tangenti”. Ma “solo” un sequestro di persona, che sarà mai. E tanti 
saluti a quei fresconi dei sindaci Raggi, Appendino e Nogarin, più volte
 indagati o imputati non certo per storie di vil denaro, ma per atti 
compiuti nell’esercizio delle funzioni di governo, che mai hanno detto 
una parola contro i magistrati e si sono sempre difesi nei, non dai processi.
Certo, qualcuno avrebbe votato diversamente se il caso Diciotti fosse stato presentato sul blog in maniera corretta e veritiera,
 e non nel modo menzognero e truffaldino studiato apposta per subornare 
gli iscritti (il No per il Sì al processo, e viceversa; il quesito 
cambiato in corsa ieri mattina per blindare ancora meglio il Sì 
all’impunità; il sequestro di persona spacciato per un banale “ritardo nello sbarco”;
 l’invocazione del salvacondotto per “l’interesse dello Stato”, del 
tutto sconosciuto alla norma costituzionale, che consente il no al 
processo solo in caso di “interesse pubblico preminente” o 
“costituzionalmente rilevante”). Ma la perfetta identità di vedute fra 
la maggioranza degli eletti e il quasi 60% degli iscritti votanti è un dato di fatto da prendere in considerazione per quello che è: i vertici hanno ormai la base che si meritano, e viceversa.
 Però, da ieri, il M5S non è più il movimento fondato dieci anni fa da 
Grillo, Casaleggio e decine di migliaia di militanti. È qualcosa di radicalmente diverso,
 che ancora non conosciamo appieno e di cui dunque non possiamo 
immaginare il destino. Ma che non promette nulla di buono, se la 
maggioranza emersa ieri dal blog resterà tale, scoraggiando e 
allontanando la pur cospicua minoranza di pentastellati rimasti coerenti
 e fedeli ai valori originari. Qui non è questione di presunte svolte a 
destra o a sinistra. E non è in ballo l’eterno giochino tra ortodossi e 
dissidenti, o fra dimaiani, fichiani e dibattistiani. Ma qualcosa di ben
 più profondo. Se il M5S perde la stella polare della legge uguale per 
tutti, gratta gratta gli resta ben poco, perché quello era il fondamento
 di tutte le altre battaglie, l’ubi consistam della sua 
diversità, anzi della sua alterità rispetto ai vecchi partiti. I quali 
non mancheranno di rinfacciarglielo a ogni occasione: “Visto? Ora siete come noi. Benvenuti nel club”. Dalle stelle alle stalle.
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2019)

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