Anche la presentazione del libro diventa uno spettacolo populista, che affoga la riflessione nei decibel di un comizio. L'Altra strada di
 Matteo Renzi è questo. Ciò che abbiamo visto finora: il Capo, un popolo
 sempre più stretto come una setta, nulla in mezzo. L'altra strada è 
l'opposizione come invettiva più che come alternativa, un progetto 
politico che non c'è, affogato in una acritica e parossistica 
riproposizione di sé, nel mito di un passato mitizzato e mai analizzato.
 Perché "l'autocritica" la fanno i comunisti. Ci mancava solo un bel 
vaffa: opposizione urlata, "cialtroni", "incompetenti", ancora 
"cialtroni", battutismo esasperato – massì, diciamolo – quasi grillina 
del metodo, compiaciuta che l'ululato sia sinonimo di forza. Che 
denuncia lo sfascio, e lì si ferma, nella saccente presunzione di avere 
il monopolio della competenza.
Sembra forza, in verità è una 
grande debolezza. Una debolezza grande quanto la rimozione di ciò che è 
stato. Non c'è niente da fare: l'orologio biologico e politico del 
renzismo è fermo al 4 dicembre, lutto mai elaborato che, come insegna 
Freud, alimenta reazioni sempre più rabbiose, perché la realtà, con i 
suoi complessi principi, è dolorosa da elaborare quanto l'entità di una 
sconfitta storica con cui Renzi non vuole fare i conti. Sconfitta che è 
una gigantesca rottura sentimentale tra Pd e paese, perdita di senso, 
smarrimento identitario. La rabbia, nel corso della presentazione del 
libro, esplode tra il pubblico, quando il direttore di questo giornale, 
pone la domanda sul punto dolente: "Ma se è andato tutto bene e questi 
sono incompetenti e cialtroni, come te lo spieghi che li ha votati la 
metà del paese?". La sala non gradisce, critica, qualcuno si alza, 
rumoreggia, contesta.
È l'istantanea di un legame settario col 
proprio popolo, perché il popolo, nel renzismo, non è una costruzione 
politica che si alimenta a pane e consapevolezza, ma è il pubblico di un
 talk, o se preferite una curva, una setta sempre più stretta che si 
nutre del culto del Capo e, per dirla col poeta, della favola bella che 
ieri ci illuse e che oggi ci illude. Per i pochi che restano, 
ovviamente. C'erano una volta i grandi partiti di massa che 
trasformarono le plebi in popolo, grandi protagonisti 
dell'alfabetizzazione democratica del paese. Ci sono oggi, nell'Italia 
del presentismo senza memoria, i partiti personali, che giocano a 
trasformare il popolo in plebi, grandi protagonisti di un analfabetismo 
di ritorno. È evidente, in un gioco di detti e non detti, smentite fatte
 apposta per alimentare l'attesa, che Renzi si appresta, dopo le Europee
 a farsi il suo, perché la separazione emotiva col Pd si è già 
consumata. Del tre, quattro, cinque per cento, quel che sarà. Perché, 
vuoi mettere, un ego così deve sentirsi padrone in casa sua. Ed è meglio
 comandare in una casa piccola che costruire, con gli altri, una casa 
più grande.
La domanda, in questa circostanza, l'ha posta Lucia 
Annunziata sul "perché" della sconfitta. L'avrebbe posta qualunque 
persona con i piedi piantati e per terra e la testa lucida, non alterata
 dal pregiudizio o dalla sbornia dell'adorazione fideistica. Resta, e 
resterà, senza riposta il perché cotanto pericolo al governo è stato 
vissuto dal paese come un vettore di cambiamento col Pd percepito come 
establishment e travolto. C'è un passaggio, del discorso di Renzi, che 
dice tutto, accompagnato dal boato di chi, nel mito di quegli anni, 
punta sul fallimento di questo Pd: "Mi si dice che noi non abbiamo fatto
 l'analisi della sconfitta. Noi non abbiamo fatto l'analisi della 
vittoria. Il 41 per cento che la sinistra ha perso alle europee, non 
l'ha mai visto nemmeno in cartolina. L'analisi di quel miracolo non è 
mai stata fatta. E noi il Pd lo abbiamo lasciato al 40 per cento col 
referendum". Sic!. Dunque è colpa di Mattarella che non ha concesso il 
voto anticipato, colpa di chi ha voluto e sostenuto il governo 
Gentiloni, di quegli "amici che hanno fatto carte false perché rimanessi
 in campo tranne poi fare di tutto per non mandarmi a votare", colpa 
sempre degli altri se, negli anni del renzismo, la sinistra ha perso il 
suo popolo, le periferie di Roma, Torino, o le tante periferie sociali 
che si sono rivoltate a un blairismo di maniera, negli anni della 
rivolta del ceto medio schiantato dalla grande crisi. E Renzi continua a
 riproporlo, in un discorso che, assieme alla sconfitta, rimuove la 
gigantesca domanda di protezione sociale che ha portato il Sud a votare 
per il reddito di cittadinanza, banalizzandolo come un aiuto ai 
fannulloni, a chi non vuole "studiare, faticare, perché tanto un modo si
 trova".
L'unica proposta concreta, nell'ambito di questo déjà vu,
 è – udite, udite – una commissione parlamentare d'inchiesta sulle fake 
news. Proposta che rivela l'essenza del ragionamento renziano e cioè che
 la sconfitta è dovuta non ad una incomprensione politica di ciò che è 
accaduto in questi anni, ma alla comunicazione, terreno sottovalutato e 
lasciato arare dalla macchina della propaganda leghista e pentastellata.
 Solito Renzi, ormai incapace di stupire, di cambiare passo, di crescere
 nell'elaborazione e nella consapevolezza, come un cantante che resta 
inchiodato alla canzone con cui vinse un Sanremo da giovane, di quelli 
che poi finiscono nei programmi sulle "meteore". L'aspettativa, che pure
 in alte epoche suscitò, è affogata nel reducismo. Non c'è, in due ore 
di comizio, un solo messaggio che non sia contro qualcuno, sia esso il 
governo, siano essi i "compagni" che "chiedono autocritica" e non c'è 
uno straccio di capacità di comprensione delle ragioni degli altri che 
poi, diceva quel comunista di Gramsci, è la chiave per costruire una 
egemonia. Altrimenti, la politica, racchiusa nella dimensione del 
potere, crolla con esso. Il film è stato già visto, il libro è stato già
 letto, tutto questo avvenire è già avvenuto e dimenticato dai più. 
Dalla sera del 4 dicembre.
Alessandro De Angelis (Huffingtonpost.it/2019/02/14)

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